L'uomo che veniva dal buio

Sono felice di annunciarvi che questa storia ha vinto il Premio della Critica nel concorso Opera d'Arte indetto da AfterDarkIT 😄😍

«Alla vostra destra potete ora ammirare il Ratto di Proserpina, gruppo scultoreo scolpito da Gian Lorenzo Bernini negli anni venti del diciassettesimo secolo.»

La folla si avvicinò alla statua con un mormorio di stupore ed Erica si scostò un poco, sia per liberare la visuale, sia per prendere le distanze da quei corpi sudaticci e accalcati.

Continuò a parlare come un automa, sicura che nessuno la stesse ascoltando: erano tutti troppo impegnati a scattare fotografie e selfie per far caso alle parole di un'anonima guida.

«La maestria del Bernini sta nel rendere in maniera realistica la morbidezza del corpo di questa giovanissima fanciulla, in contrasto con quello possente del dio. Anche i volti testimoniano da un lato il potere prevaricatore del re degli Inferi, dall'altro l'orrore e l'impotenza della ragazza, che si innalza sopra la testa di Plutone nel tentativo di invocare l'aiuto di sua madre Cerere.»

Forse qualcuno le stava prestando attenzione, dopotutto. C'era un uomo — vestito con abiti che valevano tre dei suoi stipendi e anche lui discosto dalla massa — che la osservava.

Erica non avrebbe saputo dire come mai era così sicura di quella sensazione, dato che gli occhi dello sconosciuto erano nascosti dietro un paio di lenti scure, ma sapeva che il suo sguardo era fisso su di lei da quando la comitiva si era avvicinata alla statua.

Era stanca, scocciata ed ora anche innervosita da quello sguardo insistente che spiava ogni sua mossa.
"Mi ricorda qualcuno" pensò. "Ma proprio non riesco a capire chi..."

Scosse la testa, cercando di concentrarsi su pensieri più allegri: quello era il suo ultimo gruppo, ancora pochi minuti e sarebbe stata libera di tornare a casa a riposare.

"Ne ho bisogno, le gambe quasi non mi reggono dopo tante ore in piedi! E tutto per quattro lire risicate..."

Teneva lo sguardo fisso sull'uscita, su quelle porte luccicanti che le promettevano riposo e libertà. Libertà da quelle dannate forcine che le stringevano i capelli in uno chignon ordinatissimo, libertà dal quel tailleur soffocante, da quelle scarpe scomode, insomma, libertà da tutto ciò che faceva di lei una faccia anonima nella massa, una figurina grigia e triste con un lavoro ancor più grigio e triste.
C'era stato un tempo in cui Erica aveva amato l'arte così tanto da abbandonare la grande tenuta di campagna dove era cresciuta — e dove sua madre ancora viveva, circondata dal suo orto e dai suoi animali — per studiarla più da vicino; ora non faceva che chiedersi se non avrebbe fatto meglio a rimanere in quei prati a cogliere fiori da vendere al mercato.

Tuttavia mentre usciva si sentiva inquieta, non sollevata, come se un'ombra alla stesse seguendo: le sembrava di riuscire a coglierla con la coda dell'occhio mentre procedeva a passi svelti verso casa, ma quando si voltava incontrava solo i volti distratti dei passanti.
"Stress" si disse, infilando la chiave nella toppa. "Solo questo."

•••

Il giorno dopo la ragazza prese atto di un'incredibile coincidenza: nello stesso esatto momento della sera prima, nello stesso punto, vide l'uomo ben vestito che le prestava attenzione.

"Avrei potuto giurare che un attimo fa non c'era, non fa parte di questo gruppo! Da dove è sbucato, dall'aria?"

Come la volta precedente Erica era sicura che non fosse per nulla interessato alla statua, ma a lei, perciò lo gratificò di un esame più attento: aveva dei bei capelli, si disse, che ricadevano scomposti sulla fronte chiara, lucidi e scuri come piume di corvo, mentre la barba era più curata e striata di grigio.
Tutta la sua carnagione era molto pallida, come se non vedesse da lungo tempo la luce del sole; sul colore degli occhi poteva solo tirare ad indovinare, dato che erano ancora coperti dagli occhiali da sole. Qualcosa le diceva che erano verdi, cupi e torbidi come il fondale del mare aperto — una sensazione, nulla più, pensò con un tremito.
Mentre i turisti iniziavano a scemare e lei si dirigeva sollevata verso gli armadietti del personale l'uomo le si avvicinò senza far rumore, tanto da farla sussultare quando le rivolse la parola.

«Mi dispiace» disse lui, con un tono basso e roco che sembrava arrivare da un punto lontano nel tempo e nello spazio. «Non era mia intenzione spaventarla...»

«Non l'ha fatto!» replicò Erica con sussiego, lanciandogli un'occhiata diffidente. «Mi ha solo colto di sorpresa, tutto qui. Cosa posso fare per lei?»

L'uomo sorrise: fu un lampo così breve che la ragazza pensò subito di esserselo immaginato.
«Vorrei offrirle qualcosa.»

"Ci risiamo. Questo qui sembra più elegante degli altri ma è un pervertito della peggior specie!"

«Se ne vada, prima che chiami la sicurezza!» borbottò, con tono stanco, annoiato, senza neanche quella traccia di indignazione che aveva accompagnato i rifiuti delle prime avances.
Era triste pensare che si fosse abituata anche a quello.

«Ma se la sicurezza è già andata a casa!» esclamò lo sconosciuto e la risata nella sua voce lo fece sembrare più giovane.
All'improvviso Erica ebbe paura: una paura cieca, irrazionale, che saliva dai meandri del suo istinto per avvertirla che in lui si nascondeva un predatore oscuro e pericoloso. L'aveva riconosciuto come un cerbiatto riconosce i fari della macchina che sta per investirlo.

«No, no!» sbuffò l'uomo, afferrandole la mano e disegnando dei segni concentrici sulla sua pelle.

"Ha un tocco delicato, rilassante."

«Mi hai frainteso, Kore. Solo una tazza di caffè al bar, ti va?»

Come frastornata, incapace di dare una spiegazione logica al suo comportamento, Erica annuì.

•••

«Pronto, Giovanni?»

«Cerinia! Santi numi, mi hai fatto prendere un colpo! Sono le tre del mattino, porca puttana! Non hai niente di meglio da fare che rompere le palle al tuo ex marito? Che so, dar da mangiare ai polli o zappare la terra...»

«Non fare la voce grossa con me, sai? In tribunale potrai anche essere giudice supremo e onnipotente, ma qui si tratta di nostra figlia! E tanto lo so che ti stavi sollazzando con qualche sgualdrina!»

«Che cosa ha combinato Erica?»

«È scomparsa, Giovanni. Sparita nel nulla, al lavoro non la vedono da tre giorni, qui non è passata e non ha chiamato. Ho pensato che forse tu...»

«No, non si è fatta sentire. Non è me che chiamerebbe se avesse bisogno d'aiuto e lo sai: siete sempre state solo voi due... Sbrigati, ci vediamo in commissariato per la denuncia, vedo se riesco a velocizzare le cose!»

•••

Erano andati al bar, questo Erica lo ricordava bene. Lei aveva preso una tazza di tè, lui un bicchiere di quei centrifugati che andavano tanto di moda...

Melograno.

Sì, melograno, ora ricordava, gliel'aveva fatto assaggiare: il succo dolce ed appiccicoso le era scivolato in gola come un afrodisiaco.
La paura era sempre stata lì, saldamente aggrappata alla bocca del suo stomaco, ma ad essa si era mischiato qualcos'altro; all'improvviso le sembrava di aver incontrato un amico perduto da tempo e questo, senza che lei se ne accorgesse, le aveva dipinto un sorriso beato sul volto, che così era tornato a splendere di quella luce vivace e sana che aveva avuto da bambina.
Aveva scoperto che era tornato in città dopo diversi anni.

«Sono sembrati secoli»

«Sei in visita a qualche parente?»

«Oh, no. No. Siamo rimasti in pochi.»

Erica aveva avuto l'impressione che non avesse contatti con quei "pochi" parenti; in generale le era sembrato un uomo disperatamente solo e bisognoso di compagnia.
Avevano parlato anche della statua che lui veniva sempre ad osservare.

«È molto bella, non è vero?»

«Bella, bella, sì... Tuttavia non mi piace.»

«Oh! E come mai?»

«La ragazza è così spaventata, rovina tutto.»

«Ma è naturale che sia spaventata! Sta per essere rapita, stuprata e costretta a sposare un uomo che non ama!»

«Ne sei sicura? A volte ci viene raccontata solo la versione di una storia. Chi decide dov'è il limite tra realtà e menzogna?»

Le era parso addirittura simpatico, ma ora non riusciva a capire come potesse essere stata così stupida da accettare il suo passaggio a casa.

"Accidenti, non vedo neanche le mie mani, dev'essere notte fonda qui... Dov'è qui, a proposito? E da quanto sono rinchiusa in questo posto?"

Erica era sicura di non aver posto quella domanda ad alta voce — ma ultimamente non si fidava molto di sé stessa, quindi poteva anche aver dato fiato ai suoi pensieri sconnessi — tuttavia dall'oscurità, densa e pastosa come un dipinto a olio, le rispose una voce antica come la notte stessa:
«Stai tranquilla, Kore. Non ti succederà niente di male.»

«Vaffanculo!» urlò lei, alle ombre che si muovevano sinuose oltre la debole luce offerta da una piccola lampada poggiata ai suoi piedi.
Non era solita lasciarsi andare alle emozioni, ma ora si sentiva fuori controllo: più la tenebra si stringeva attorno a lei, rimarcando la sua condizione di preda in trappola, più la ragazza la scandagliava alla ricerca di una via di fuga.
«Chi cazzo sei, eh? Un serial killer? Chi sei? CHI SEI, COSA VUOI DA ME?»

All'improvviso lui era lì. Era accaduta la stessa cosa della Galleria, un attimo prima accanto a lei c'era uno spazio vuoto e l'attimo successivo quello stesso punto era stato riempito dalla sua figura.
"Riempire è la parola giusta. È come se la sua presenza fosse necessaria per dare corpo a qualsiasi altra cosa, non posso... Togliergli gli occhi di dosso..."
Un nuovo pensiero, vago e allo stesso tempo spietatamente chiaro, risuonò nella sua testa:
"Non è di questo mondo."

Un'unica parola le riempì la mente, il cuore, la gola inaridita dalle urla e infine anche le labbra screpolate:
«Plutone»

L'uomo sorrise e per la prima volta si sfilò gli occhiali da sole, che sparirono nel taschino interno della sua giacca. Le iridi cupe risplendevano di una luce feroce e soddisfatta:
«Bentornata a casa, Kore.»

•••

La casa era stranamente silenziosa: non mostrava evidenti segni di incuria, ma mancava di quella vitalità invisibile che spesso aveva spinto i viaggiatori di passaggio a fermarsi per ammirarla.
Sembrava una casa morta, ecco: il cancello, solitamente spalancato, era chiuso con un lucchetto; nessun cane rincorreva i polli nell'aia, dato che tutti gli animali erano rinchiusi nei loro recinti; nessuno aveva piantato i fiori nel giardino, durante quei sei mesi invernali, perciò non c'era il solito profumo di ortensie e viole ad accogliere il suo ritorno.

Erica osservò ogni dettaglio come se lo vedesse per la prima volta: in un certo senso era così, perché di certo non era la stessa persona che era scomparsa nel nulla in una notte di metà Settembre.
I ricordi la colpirono veloci come lampi, facendola tremare: ricordi di mani forti e leggere insieme, di corpi sudati, accaldati, stretti in un amplesso così intenso da risultare doloroso.
Ricordava la vertigine provata davanti a quel mondo nascosto che le si dischiudeva davanti agli occhi esterrefatti e quelle labbra, dolci e peccaminose come il succo del melograno...

Erano bei ricordi, anzi, forse erano i ricordi migliori della sua vita, fino a quel momento piatta e anonima; tuttavia, anche quando giaceva sfinita accanto al corpo del dio, soddisfatta come una gatta davanti ad una ciotola di panna, una piccola parte di lei non poteva fare a meno di chiedersi se non fosse impazzita.

Era tutto vero? O accadeva solo nella sua testa? Oppure erano esatte entrambe le cose, come una volta aveva letto in un libro?

E quando alla fine riconobbe il sentimento che le attanagliava lo stomaco come amore, la domanda più insidiosa di tutte sorse spontanea:
"È un amore malato? Sono vittima della sindrome di Stoccolma, per cui vedo il mio rapitore come la mia anima gemella?"

Lui aveva capito, forse anche prima di lei, di cosa Erica avesse bisogno; del resto non sarebbe stata una scelta consapevole se non avesse avuto il coraggio e la forza di lasciarla libera.
Per cui eccola lì davanti alla grande casa di campagna di sua madre, a fare i conti con il suo passato e il suo immediato futuro.
C'erano domande a cui sapeva di non poter dare risposta: non poteva rivelare dove era stata, e con chi — nel migliore dei casi avrebbero pensato ad un esaurimento nervoso causato dal trauma subito.
Nel peggiore, Plutone avrebbe dovuto escogitare un modo per tirarla fuori dal sesto piano di un ospedale.

Quel pensiero le strappò una risatina: anche la sua risata era cambiata, era diventata più profonda e nascondeva una nota vibrante, come una malinconia repressa.
Il suo volto pallido si era fatto più pieno, le labbra rosate più esangui, ma gli occhi risplendevano come mai prima. Esitò giusto un istante prima di suonare al campanello, un attimo in cui avvertì una calda presenza nell'ombra alle sue spalle.

Allora procedette serena, sicura che da lì a sei mesi le braccia forti dell'uomo che veniva dal buio l'avrebbero stretta di nuovo.

Era un sacco di tempo che volevo scrivere una rivisitazione del mito di Ade e Persefone (o Plutone e Proserpina, data l'ambientazione romana 😝) e il concorso indetto da AfterDarkIT me ne ha data l'occasione. L'opera d'arte scelta è, ovviamente, la statua del Ratto di Proserpina davanti alla quale i due protagonisti si incontrano.
I genitori di Erica sono anch'essi versioni "moderne" di Giove e Cerere: lui giudice supremo ma fedifrago e lei immersa nella sua lussureggiante campagna.
Sono consapevole che il vero Plutone non avrebbe mai permesso ad una ragazzina di scegliere se rimanere con lui o meno: però, appunto, si tratta di una rivisitazione, quindi ho immaginato che anche lui si sia evoluto di pari passo con gli umani.
Enjoy!

   Crilu

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