II SCINTILLA - Luci sopra la collina
«Compare! Compare de Cimo', si so' portati via le vacche!»
«E che ce poss' fa' io? Si so' portati via pure la miè!»
Francesco alzò il capo verso il suo vicino, 'Frede de Pizzichì.
Il vecchio urlava e bestemmiava, calciava le zolle e lanciava insulti irripetibili verso i crucchi che la sera prima avevano sequestrato tutte le bestie delle stalle lì attorno per portarle con sé nella loro ritirata verso nord.
"Coraggioso come nu leo', 'Frede. Ma ieri davanti ai nazisti non ha apert' vocca."
Dopo che ebbe sfogato uno dei suoi proverbiali attacchi d'ira, 'Frede fissò i suoi occhietti neri e carichi di aspettativa su di lui.
Francesco rimestò la terra con la zappa, a disagio.
Il vecchio Pizzichì non gli piaceva: era arrogante, iracondo e aveva l'aria sghignazzante di chi ha poco cervello, ma si crede molto furbo. Gli piaceva darsi arie d'importanza, anche se tutti sapevano che era un bastardo di qualche famiglia bene, inviato fin laggiù da Roma in gran segreto e adottato da una coppia che aveva bisogno di un paio di braccia in più nei campi.
«Che vuo', 'Frede?» borbottò il ragazzo dopo qualche istante di silenzio, spazientito. Col babbo partito per la guerra, lui e la sua vecchia madre dovevano fare il doppio del lavoro per mandare avanti le terre del padrone.
«Aò, zauttiell', bada a come parli!»
Il vecchio si grattò la testa pelata, facendo un gesto vago verso la cima della collina.
«Si dice che le vacche l'han portate su ad Ancarà e l'han lasciate là.»
«Chi lo dice?»
«E se dice, se dice in giro!»
«E perché i crucchi hanno abbandonato 'ste bestie?»
«Ma allora 'ssi scemo! Stann' a arrivà li mericani, Francè! Chelli li crucchi n'i vò vedè manc' da luntano! Stann' a scappà, fascisti demmerda, e si lasciano dietro le vacche... La mia vacca!»
«Eh, e pure la miè!»
«Appunto!»
Lo sguardo del vecchio si fece interessato.
«'Sogna annalle a ripiglia'!»
Francesco scoppiò a ridere:
«E chi ci va fino ad Ancarà, tu?»
«No, tu!»
Il ragazzo aprì la bocca per mandarlo al diavolo, ma la richiuse subito dopo.
Il fatto era che 'Frede aveva una figlia; ne aveva diversi, in verità — Zè, Carolina, Ersilia e Maria, detta Ietta.
Ietta era bella, ma non nella maniera esuberante e un po' volgare delle sue sorelle, né aveva il fascino carismatico del fratello. Ietta era una cosa a parte: aveva ereditato l'arroganza del padre e l'aveva trasformata in una bellezza fredda e altera, che non dava confidenza a nessuno. E Francesco di quell'espressione algida, con le labbra sottili serrate e ostili, si era innamorato.
"Forse, se gli riporto la vacca, 'Frede mi dà il permesso di venire a trovare la figlia!"
«Senti mpò, com'è fatta 'sta vacca?»
«Allora, se chiama Bertolina...»
~
Tra Castorano e Ancarano c'erano una decina di chilometri — che il giorno prima i nazisti, coi loro camioncini e le loro macchine, avevano percorso in poche ore.
Francesco, a piedi, impiegò la bellezza di mezza giornata.
Il sole aveva già iniziato a tramontare quando, salendo sulla cima brulla di una collina, vide uno sparuto gruppo di mucche che brucavano placide in mezzo a un prato: evidentemente i crucchi non avevano abbandonato proprio tutte le bestie che si erano portati via.
Sceso lungo uno dei calanchi, che comunemente scavano i fianchi delle colline abruzzesi e marchigiani, il ragazzo si avvicinò alla mandria in silenzio, temendo di spaventarla. Ma le mucche non parvero dare molto peso a quel giovanotto smilzo che si aggirava tra di loro alla ricerca di una bestia bianca e nera con una macchia sull'occhio. Tutt'al più si limitavano ad alzare il capo dall'erba per pochi istanti, giusto il tempo di lanciargli un'occhiata annoiata.
Dopo mezz'ora il sole era già calato e Francesco dovette ammettere che la vacca di Pizzichì non era tra quelle.
"Mannaggia alla fregna impestata de li monache! Tanta fatica per nulla! Ora mi tocca pure tornare indietro col buio!"
Stava per riprendere il cammino, quando qualcosa lo urtò sulla spalla e voltandosi, incontro lo sguardo quieto e fisso di una mucca.
«Chicca! Stella de casa, stai bene?»
Era proprio la sua vacca che, avendo riconosciuto l'odore della sua stalla e il padrone che ogni tanto la portava a pascolare dove nascevano i cardi di cui era ghiotta, aveva pensato bene di salutarlo.
Francesco l'afferrò per il campanaccio che portava al collo e, un po' consolato, riprese la strada verso casa.
~
Si era perso.
Era in mezzo alle colline che conosceva da quando era nato, sulle strade che aveva percorso col babbo chissà quante volte, eppure si era perso — forse per il buio, o la stanchezza, o la paura che qualche crucco fosse rimasto indietro e lo freddasse con un colpo di fucile.
Chicca, accanto a lui, procedeva tranquilla, ignara dell'inquietudine crescente nel cuore del suo padrone.
"Sto andando per la via giusta adesso? E se non è così, dove finirò? 'Ste colline sembrano tutte uguali..."
All'improvviso gli venne da piangere, anche se aveva vent'anni ed era un uomo fatto.
Suo padre glielo diceva sempre che aveva il cuore troppo tenero, un po' come la mamma, che s'impressionava facilmente.
Gli venne da piangere per sé stesso, per il babbo che era lontano — forse vivo, forse morto — per la mamma che sicuramente a quest'ora era in pensiero. Per Ietta, che non sapeva ancora quanto lui l'amasse.
Pianse pure per quella stramaledetta vacca di Pizzichì che i tedeschi stavano portando in Germania.
"Ma poi, che se ne farà mai Hitler di una vacca? A noi serve, noi ci campiamo, ma i crucchi?"
Alzò gli occhi al cielo in un momento di sconforto e rimase a bocca aperta: oltre le come scure degli alberi s'intravedeva una scia di stelle cadenti che macchiavano la notte di bianco e azzurro.
Quella vista lo stupì tanto da fermare le lacrime.
"Madò, come è bello!"
Avrebbe voluto avere le parole per descriverlo meglio, ma non ne conosceva poi molte, perciò si limitò a osservare gli astri immoti che attraversavano il cielo seguendo la loro rotta millenaria, indifferenti al piccolo ragazzo sperduto in mezzo al bosco. Ignari del mondo degli uomini, della loro guerra, della fame, della miseria; belli come Ietta, una scintilla di perfezione in mezzo all'oscurità della notte.
E abbassando lo sguardo sulle campagne addormentate, finalmente Francesco riconobbe la collina illuminata da quella pioggia di stelle.
~
Arrivò alla fattoria dei Pizzichì di primo mattino, così stanco che non riusciva più ad alzare i piedi dal terreno; procedeva trascinando le gambe e appoggiandosi di tanto in tanto alla groppa di Chicca.
Nel cortile trovò Ietta intenta ad accudire le galline, che lo gratificò con un'occhiata curiosa e un mezzo sorriso.
«Bella 'sta vacca, Francè!»
«Ma come, non la riconosci?» replicò lui a voce alta, strizzandole l'occhio con fare furbo mentre 'Frede si affacciava sulla soglia di casa.
«È la vostra Bertolina! L'ho riportata sana e salva, contenta?»
Ietta si avvicinò alla bestia e la studiò, perplessa.
«Chessa n'assomiglia probbia a Bertolina...» mormorò, girandole attorno.
«Ma come no!» intervenne suo padre, avvicinandosi con un gran sorriso. «È essa, non vedi, è bianca e nera! Bertolina! Bertoluccia bella! Che t'hanno fatto li crucchi maledetti, eh? E la tuò, Francè? L'hai trovata?»
Il ragazzo scrollò le spalle.
«No. Mo' ormai sarà in Germania...»
I due uomini si scambiarono un'occhiata carica di significati.
«Vabbè, annamo, Bertolina, annamo nella stalla. Ietta! E dagli n'cco d'acqua a 'sto pover'uomo!»
Ietta s'avviò verso casa con la sua solita andatura fiera e Francesco la seguì tutto contento:
«Sienta 'mpò, Ietta, ma tu ce l'hai lu spuos' oppure...»
~
Francesco de Cimo' stava aspettando il furgoncino che portava il pane a domicilio.
Non era un'attività chissà quanto interessante, ma arrivati alla sua età anche camminare dal portone di casa fino al ciglio della strada poteva rivelarsi un'impresa faticosa.
"E pensare che 'na volta so arrivato fino a Ancarà a pè, pe trovà la vacca de Pizzichì..."
Quand'era successo? Cinquanta, sessant'anni prima?
A volte la memoria gli sfuggiva.
Non come alla sua Ietta, certo.
Lei aveva l'alzheimer, una brutta bestia: si era mangiato tutti i suoi ricordi, uno dopo l'altro, finché della donna che aveva amato non era rimasto altro che un guscio vuoto. Di anno in anno si era fatta sempre più piccola, svagata, muta; e lui le era rimasto affianco, impotente, aiutandola quanto aveva potuto prima che la malattia lo rendesse ai suoi occhi un perfetto sconosciuto.
"Ah, come cambiano le cose..." pensò il vecchio, mentre davanti a lui sfrecciava un camion scoperto carico di botti di birra.
Era ancora perso nei suoi ricordi — Ietta, il vecchio 'Frede, la vacca e tutto ciò che era venuto dopo, matrimoni, nascite, funerali... — che non si accorse del barilotto che si sganciò dal suo sopporto e rotolò a velocità folle sulla strada.
«Cimo'! Cimo', attento!» gli urlò il suo vicino dall'altro lato della strada.
Ma anche se avesse visto il barile e udito i richiami, c'era ben poco che Francesco avrebbe potuto fare, vecchio e invalido com'era.
La botte lo prese in pieno, sbalzandolo dalla sua solita posizione accanto al muretto di casa e trascinandolo con sé per alcuni metri prima di lasciarlo andare e terminare la sua corsa contro la siepe del giardino vicino.
Steso sul terreno, stordito e dolorante, Francesco socchiuse gli occhi e ansimò: aveva davanti uno spettacolo che non credeva di rivedere mai più.
Vedeva le luci sopra la collina, chiare e luminose come quella notte in cui gli indicarono la via nel bosco tra Ascoli e Ancarano.
E come allora, Francesco le seguì.
~
«Mamma»
«Mamma, mi sono fatto male!»
«Mamma, ci sposiamo!»
«Guarda, mamma, tua nipote!»
Ietta alzò gli occhi vacui, resi quasi trasparenti dalla cataratta, sul signore che le stava vicino.
«Chi sei?»
«Mamma, ti devo dire una cosa. Babbo... Babbo non c'è più.»
«Chi sei?» ripeté la vecchia a voce più alta. «Chi sei tu?»
L'uomo sospirò.
«Vieni, mamma. Vieni con me.»
La condusse in una stanza piena di altre persone sconosciute, sedute attorno a una grossa cassa scura.
All'improvviso Ietta riconobbe le loro espressioni: erano tristi.
"Triste vuol dire che qualcosa non va" le suggerì la sua mente confusa.
«Chi sei? Perché piagni?» strillò, mentre lo sconosciuto la faceva accomodare su una poltrona.
Quella nenia la ripeté con poche variazioni a chiunque si avvicinasse a lei — chi sei, cosa vuoi, perché piangi.
«Perché piangi?»
«Perché so contenta, Francè.»
Lei era stata sposata, ricordò quella sera, quando nella stanza erano rimaste ormai pochissime persone.
Lei era stata sposata con Francesco.
Di scatto si voltò verso l'uomo al suo fianco, drizzando la schiena: a vederla in quel momento si coglieva un'ombra della ragazza decisa e autoritaria che era stata.
«Dov'è part'te?»
L'uomo scoppiò a piangere e Ietta, miracolosamente, capì.
Le nuvole nella sua testa si diradarono e gli occhi s'inumidirono; avrebbe voluto alzarsi, salutare per l'ultima volta suo marito, ma di colpo, veloce come era apparso, quel guizzo di lucidità si spense.
«Chi sei? Che vuoi? Perché piagni?»
A testimonianza di quell'ultimo barlume di consapevolezza rimase un'unica lacrima solitaria sulla sua guancia — brillante, effimera scia di una memoria ormai perduta.
~
Zauott'/zauttiell' = ragazzo, ragazzino
Spuos = sposo, inteso nel senso di fidanzato
Part'te = tuo padre
(Se ci sono altre parole poco chiare in dialetto, ditemelo che le aggiungo 😝)
Ci sono così tante cose da dire su questo pezzo... Partiamo dai crediti: questa storiella è stata scritta per il contest estivo di magicartist2018 e su spunto della poesia "Ovunque tu sia" di PowerOffPSY , che l'ha dedicata a sua nonna scomparsa.
Ora, tra tutte le storie che mio nonno mi ha raccontato nel corso degli anni, quella della mucca di Cimo' è la mia preferita, me la sono fatta ripetere non so quante volte 😂
Quindi sì, i fatti narrati in questo capitolo sono accaduti davvero.
Mio nonno Zè era il fratello di Ietta e figlio di Alfredo, colui che accettò di buon grado di riprendersi la "sua" mucca sequestrata dai tedeschi in fuga: da come la raccontava nonno, suo cognato Francesco era un pezzo di pane che stranamente (o forse no) si era innamorato di zia Ietta che, invece, tanto malleabile non era.
Io purtroppo ricordo poco di loro; l'ultima parte della storia, la più triste, ha avuto luogo nei primi anni 2000, quando io ero ancora una bambina.
Però il ricordo di quelle frasi carpite dagli adulti che parlavano nella cucina di nonna — «ha capito, ma solo per un attimo... Si è messa a piangere, poi più nulla... Tutto daccapo...» — mi ha accompagnato per molto tempo.
Mio nonno è sempre stato la memoria della mia famiglia.
Una memoria che copriva quasi un secolo di Storia, in cui le campagne marchigiane in cui sono nata e cresciuta hanno subito moltissimi cambiamenti: il dopoguerra, la fine della mezzadria e il sogno di un futuro in cui tutto sembrava possibile — intrecciati con una storia famigliare di nascite, matrimoni e morti che nonno Zè ricordava con estrema precisione.
Quando se n'è andato, qualche mese fa, è come se fossero crollate le fondamenta di una casa: con lui se ne sono andati i suoi ricordi, un'epoca intera.
Qualche mese prima che morisse ho iniziato a registrare i suoi racconti.
Ho i file salvati in una cartella del mio computer e mi sono ripromessa che un giorno li metterò tutti per iscritto: non adesso, mi fa ancora troppo effetto l'idea di risentire la sua voce senza potergli parlare.
Ma la storia della vacca di Cimo' è solo il primo passo ❤️
Crilù
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