Brusi

Storia scritta per il contest indetto su instagram da 3ShadesofBooks e iltronodilibri

Prompt: scrivere un racconto breve ambientato in un paese nordico che inizi con "c'era una volta" e termini con "vissero felici e contenti"; la storia non deve superare le 5 pagine di un file PDF e dovrà includere elementi tipici delle fiabe nordiche e, se possibile, un insegnamento morale.

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BRUSI

C'era una volta, nelle lande fredde dell'estremo Nord, una brava donna che possedeva una locanda ed era rimasta vedova poco dopo aver scoperto di aspettare il suo terzo figlio.
C'erano stati anni in cui molti viandanti si fermavano volentieri nel suo albergo, anni in cui giravano monete d'oro e le strade erano ben fatte e sicure, ma quei tempi di agiatezza e gioia erano ormai un ricordo: il sovrano era partito per andare a guerreggiare in una terra lontana da cui non aveva mai fatto ritorno, le strade pullulavano di feroci briganti e nessuno si azzardava a viaggiare oltre le mura del proprio villaggio.

Un giorno in cui si ritrovò senza nessun avventore da servire la brava donna corse a piangere sul limitare del bosco:
«Oh, me sciagurata!» si disperava. «Come farò a sfamare i miei due bambini, ora che mio marito è morto e il regno sta andando in malora? E quest'altro che ancora deve nascere, di cosa camperà?»

E mentre se ne stava lì a riflettere sul suo triste destino si accorse di una formica che rischiava di annegare in una pozzanghera; la donna fu mossa a pietà e le gettò una fogliolina a cui aggrapparsi per poi trarla in salvo. Per poco non svenne quando la bestiolina, muovendo graziosamente le piccole antenne, parlò con voce umana:
«Non ti angustiare per la creatura che porti in grembo, poiché sarà il migliore tra tutti i tuoi figli!»

La brava donna non ebbe il tempo di riaversi dalla sorpresa che la formica scomparve. Tornò allora alla locanda col cuore più leggero.
"Di certo ho incontrato una fata" pensava, e si rallegrava del futuro che le era stato predetto. Rimase però perplessa nel dare alla luce un bimbo tozzo, scuro e brutto a vedersi, con occhi rotondi e sporgenti, un lungo naso adunco e due grandi orecchie a sventola:
«Ah, che brutto tiro che mi giocò la fata!» si lamentava la donna. «Mi disse addirittura che questo sarebbe stato il migliore tra i miei figli, ma nella notte si è infilata nella culla e l'ha scambiato con uno dei suoi mocciosi!»

Il bambino, a cui fu messo il nome di Brusi, crebbe diventando ogni anno più grosso e più brutto e dato poi che non parlava quasi mai e che sembrava aver paura anche della sua stessa ombra, i fratelli conclusero che doveva essere stupido, oltre che deforme; però faceva la zuppa migliore di tutta la contea e la madre pensò bene di confinarlo in cucina, dove nessuno degli avventori avrebbe potuto vederlo e deriderlo.

Un brutto giorno il pozzo della locanda si seccò e la brava donna fu costretta a mandare il suo primo figlio a prendere l'acqua nel bosco; lo aspettò un giorno, una sera e una mattina e poi chiese al secondogenito di andare a vedere cosa fosse capitato al fratello maggiore.
Ma il sole tramontò e sorse di nuovo e dei due ragazzi non c'era traccia. La brava donna andò dunque in cucina dove Brusi stava preparando il pranzo e gli disse:
«Prendi un secchio e va' nel bosco a vedere cosa è accaduto ai tuoi fratelli!»

Brusi tremava dalla paura e avrebbe ardentemente voluto sottrarsi a quel compito, ma davanti alle lacrime della madre prese il secchio e si incamminò tra gli alberi; camminò per tutto il giorno e per tutta la notte prima di imbattersi in un torrente troppo impetuoso per poterlo attraversare.
Il ragazzo si stava giusto chiedendo se fosse meglio tornare alla locanda con un secchio colmo o proseguire nella ricerca dei fratelli quando un nitrito lo fece sobbalzare: poco lontano dalla riva un cavallo bianco stava brucando i teneri germogli del sottobosco e scosse il capo con curiosità quando lo udì avvicinarsi; era una bestia magnifica e le briglie e il morso che aveva indosso erano d'oro zecchino.
"Forse il suo cavaliere è caduto nel torrente" pensò Brusi, osservando la criniera e la coda che ancora grondavano acqua.

«Beh, di certo non sei uno dei miei fratelli» disse, afferrando il cavallo per i finimenti. «Ma forse la mamma si consolerà un po' con questo bell'animale nella stalla!»

Non appena gli montò in sella, però, l'animale si lanciò al galoppo e Brusi si rese conto con orrore che nonostante i suoi sforzi non poteva scendere in nessun modo; fu costretto ad aggrapparsi alla criniera della bestia mentre quella si gettava con un balzo nel ruscello e riprendeva la sua corsa forsennata su un sentiero sotterraneo. Gli zoccoli producevano tuoni e lampi mentre battevano il terreno e i nitriti che lanciava facevano tremare le pareti e il soffitto della galleria: il cavallo corse a perdifiato fino ai cancelli di un palazzo dalle alte guglie, nero come la pece, che si estendeva sotto un cielo di pietra.
L'unica fonte di luce erano le centinaia di fiaccole appese ai muri del palazzo, che bruciavano e scoppiettavano come un fuoco vero; ma per qualche strano incantesimo le fiamme verdi e blu sembravano non consumare il legno che le alimentava.
Solo allora l'incanto si spezzò e Brusi poté scivolare giù dalla sella – e mentre ancora si guardava attorno stralunato, fu raggiunto da due guardie riccamente vestite: indossavano farsetti di seta nera e una cotta di maglia dello stesso colore; nero era l'usbergo, neri gli stivali e nere anche le alabarde che gli puntarono contro prima di trascinarlo in prigione.

«Povero me!» si lagnò Brusi, passeggiando avanti e indietro sul duro pavimento della sua cella, posta all'interno di una torre altissima e impenetrabile. «Mi hanno gettato in galera senza accuse né processo, solo perché ho preso per le briglie un bel cavallo! E ora come ne esco? La gente del posto non sembra molto amichevole...»

Fu allora che vide, attraverso le strette sbarre dell'unica finestra, una dama di incredibile bellezza nel cortile sottostante: Brusi non ne aveva mai viste di eguali e rimase incantato nel vederla passeggiare nello spiazzo, ammirandone la grazia innata e i lineamenti fini e cesellati; fasciata in un voluminoso abito rosso, era l'unica, accecante macchia di colore nella penombra di quel mondo sotterraneo. Passando sotto la torre in cui il ragazzo era rinchiuso, la dama alzò verso di lui uno sguardo grigio e triste come il nuvoloso cielo invernale. C'era un'inconsolabile malinconia nei suoi occhi, tale da commuoverlo.

«Nobile signora!» chiamò, sporgendosi oltre le sbarre della finestra. «Siate buona con un povero prigioniero sventurato e ditemi che posto è questo e chi vi regna. Se poi voleste essere così generosa da rivelarmi il vostro nome, io non avrei parole per descrivere la mia gioia e la mia gratitudine – ma se mai uscirò da qui, prometto che non dimenticherò mai il vostro dolce viso!»

La dama rimase muta, ma un vago rossore le colorì le guance di perla e un leggero fremito delle labbra sembrò celare un sorriso. Il giorno dopo, più o meno alla stessa ora, Brusi era affacciato alla finestra e vide nuovamente la giovane dama passeggiare nel cortile, le vesti ricamate d'oro e d'argento che si allargavano come un fiume attorno a lei, le labbra piegate in una smorfia triste:
«Nobile dama!» esclamò Brusi, corrucciato. «Cos'è che vi angustia e vi intristisce? Anche dall'alto di questa torre il mio cuore piange nel vedervi così afflitta!»

E così continuarono per giorni e giorni: la nobildonna passeggiava e sospirava nel cortile e Brusi sospirava e piangeva nella sua cella; erano due anime infelici, intrappolate sotto un cielo senza stelle da nemici invisibili. Oltre alla donna e alle guardie, infatti, il ragazzo non aveva visto nessuno aggirarsi per il castello.
Fu perciò sorpreso quando un valletto abbigliato nella stessa funerea maniera dei suoi carcerieri lo svegliò per condurlo attraverso i labirintici corridoi del castello, fuori dalla torre, fino al salone principale. Qui, a capo del banchetto più sontuoso che Brusi avesse mai visto, sedeva un principe dallo sguardo annoiato, che pareva mal sopportare la voce profonda del bardo che intratteneva lui e gli altri ospiti. Tra di essi, Brusi notò numerosi individui alti quanto un bambino di dieci anni, ma robusti e barbuti come uomini fatti: tutti erano armati e pervasi dalla stessa aura cupa che aleggiava sul regnante, che invece era un uomo alto e snello, bello ma estremamente pallido, come se non avesse mai visto la luce del sole. Accanto a lui sedeva la dama misteriosa, con i capelli raccolti sotto una sottile corona d'argento.

"Nell'osservarli l'uno accanto all'altro, non si può non notare la somiglianza: hanno gli stessi lineamenti fini e le stesse chiome nere e lucenti" pensò. "Avrei dovuto capirlo subito, che era di sangue reale!"

Nel vedere il prigioniero, gli occhi slavati del principe si accesero di una luce inquietante e un po' crudele:
«Finalmente avremo di che divertirci» mormorò, facendo cenno al musicante di zittirsi. «Osservate colui che ha oltrepassato il confine tra il regno degli umani e quello degli esseri immortali!»

«Vostra eccellenza, v'è un errore!» balbettò Brusi. «Io non avevo intenzione di oltrepassare alcunché, ma quel malefico cavallo è più veloce d'un lampo e mi son ritrovato qui senza neanche saper bene come»

«Le circostanze non sono importanti» ribatté il principe alzandosi in piedi per studiarlo più da vicino. «Le leggi sono chiare in proposito. Chiunque sconfini nello Svartálfaheimr ha il diritto di giocare la propria libertà con una partita a hnefatafl: se vincerà, catturando il mio re nero, verrà riaccompagnato in superficie con tutti gli onori.»

«E se perdo che succede?» borbottò il ragazzo, affascinato e incapace di distogliere lo sguardo dalla principessa.

«Rimarrai per sempre con noi» replicò il principe, lapidario, battendo il tacco sul pavimento: solo in quel momento Brusi si rese conto, con un gemito di raccapriccio, che quelle che aveva scambiato per lucide pietre erano in realtà ossa umane!

«Oh, beh» commentò dopo un attimo di silenzio. «Se proprio non ho altra scelta, orsù, sbrighiamoci a far questa partita!»

Il principe si fece portare una tavoletta d'oro, a cui si accompagnavano pezzi da gioco intagliati, fatti d'ossidiana e di diamante - nulla a che vedere con i rozzi pedoni con cui Brusi aveva giocato di tanto in tanto con i suoi fratelli, alla locanda.

«Qualche uomo ha mai vinto la partita e salvato la pelle?» chiese il ragazzo al valletto che gli aveva procurato uno sgabello su cui sedersi.

«Nessuno, da che si ha memoria. Il principe Arnleifr è il miglior giocatore di tutti i nove regni!»

Brusi non tardò ad accorgersi che quanto gli era stato detto corrispondeva a verità: per ogni strategia che attuava, Arnleifr aveva una contromossa efficace; per ogni pezzo bianco che i suoi pedoni mangiavano, il principe ne catturava due, finché il ragazzo non si trovò in evidente svantaggio numerico e iniziò a disperare di poterne uscire vivo. Tutta la corte seguiva la partita in religioso silenzio, compresa la dama, che si era sporta verso i due contendenti per osservare meglio ciò che accadeva sulla tavoletta dell'hnefatafl. Lo sguardo di Brusi fu attratto da uno scintillio che danzava ai bordi della tavola: era una lucciola, la cui coda brillava come un faro nella corte oscura del mondo sotterraneo, illuminando una casella che il ragazzo non aveva notato.

«Propongo un altro scambio!» disse allora, chiamando a raccolta tutto il suo coraggio e occhieggiando timoroso il bel volto della donna di cui si era innamorato, ora sconvolto da un'evidente tensione. Arnleifr inarcò un sopracciglio, in ascolto:
«Se vinco, voglio la mano di questa nobile signora che siede al vostro fianco.»

Il principe si voltò verso di lei come se si avvedesse per la prima volta della sua presenza, poi riportò la sua attenzione su Brusi, divertito:
«Vuoi mia sorella Arndis come sposa? E sia, dato che non vedo come potresti salvarti, adesso!»

Ridendo per la felicità e ancora incredulo per la sua buona stella, Brusi incastrò il re nero tra i suoi pezzi, vincendo la partita prima ancora che l'altro terminasse di parlare.
I cortigiani sussultarono e iniziarono a confabulare animatamente tra di loro, mentre il volto di Arndis si coloriva per il sollievo e quello di Arnleifr si faceva, se possibile, ancora più bianco: era così evidentemente sdegnato all'idea che un mortale l'avesse battuto che Brusi seppe, con qualche istante d'anticipo, che quella creatura non avrebbe tenuto fede al loro patto.
Con un grido di rabbia che fece tremare il palazzo fin nelle fondamenta, il principe rovesciò la tavola da gioco e alzò le braccia per invocare un forte vento che trascinò con sé ogni cosa: Brusi, Arndis, la corte di Svartálfehimr...

Quando la tempesta si fu placata, il ragazzo si ritrovò steso in un prato, sotto il brillante sole del mattino.
"Ho forse sognato?" si chiese, ma tra le mani stringeva ancora uno dei pedoni intagliati nel diamante, prova che il bizzarro viaggio non era stato frutto della sua fantasia.
«Oh, Arndis!» pianse, sconsolato. «Dove siete? Come farò a ritrovarvi?»

Pianse a lungo, seduto in quel prato, prima di alzarsi e vagabondare lungo i sentieri del bosco nel tentativo di trovare la strada di casa; giunse invece a una vecchia torre abbandonata e dato che stava per calare la notte decise di sostare e riposarsi un poco. Preparò una trappola con cui catturò una grassa lepre e la insaporì come sapeva fare bene, facendola rosolare pian piano sullo spiedo per renderla morbida e gustosa; stava giusto per addentarne una coscia quando sentì alle sue spalle un cupo brontolio e un rapido raschiare di artigli sul terreno.
Sudando freddo, Brusi voltò il capo e incontrò due iridi gialle e fameliche che luccicavano nell'oscurità: c'era un grosso essere deforme acquattato nelle tenebre, che aveva scoperto i lunghi denti aguzzi in un ringhio affamato. Quando si fece avanti la sua ombra oscurò la luce del bivacco, ma il ragazzo poté vedere la sua figura vagamente umana e le vesti stracciate che coprivano la pelle scura: la testa squadrata, gli artigli che adornavano le mani grandi quanto due vanghe e gli occhietti gialli, piccoli e cattivi non lasciavano dubbi sulla sua identità.
"Un orco!" pensò terrorizzato.

Nell'osservarlo meglio, però, Brusi fu colto da pietà: la bestia, per quanto grande e grossa, era magra e smunta, evidentemente provata da una lunga fame.
«Tieni, bestiaccia!» borbottò gentilmente, lanciandogli un osso. «E spero che tu sia abbastanza riconoscente da non cercare di mangiare anche me!»

Il mostro lo guardò con un'espressione sorpresa, prima di gettare indietro la grossa testa e ululare di gioia. All'improvviso la radura fu avvolta da una luce dorata così potente che Brusi fu costretto a chiudere gli occhi; quando li riaprì, davanti a lui sostavano un uomo e una donna. Il primo aveva una fluente barba grigia e il portamento di un condottiero ed era vestito con una vecchia armatura arrugginita che metteva in risalto il corpo forgiato dalle battaglie; non era bello, ma c'era qualcosa di nobile e insieme minaccioso nel suo viso che avrebbe indotto chiunque a portargli rispetto. La donna possedeva invece una bellezza eterea e senza età e fissava Brusi con un sorriso orgoglioso e una luce soddisfatta negli occhi viola:
«Sapevo di aver scelto bene, quando posai gli occhi su di te!» mormorò.

«Scusate, ma... Ci conosciamo?» domandò il ragazzo, confuso, spostando lo sguardo tra i due sconosciuti.

«No, ma dimmi il tuo nome, ragazzo, e ti coprirò d'oro!» tuonò l'uomo con fare gioviale. «Sono il re di questa terra e ora che finalmente hai spezzato l'incantesimo di questa strega, non hai che da chiedere e ciò che desideri sarà tuo!»

La donna gli lanciò un'occhiataccia:
«Vent'anni sotto forma di una bestia selvatica non sono serviti ad ammansire il vostro animo scortese, vedo» borbottò, tornando poi a rivolgersi a Brusi. «Noi ci incontrammo quando tu eri ancora nel grembo di tua madre: già allora mi ero pentita di aver gettato l'incantesimo su quest'uomo, lasciando il regno senza guida e sostegno, ma non potevo far nulla per scioglierlo. Avevo bisogno di un animo buono e gentile che sapesse vedere oltre le apparenze e tu mi sembravi la persona adatta. Di certo non mi aspettavo la tua piccola deviazione nello Svartálfehimr, ma con un piccolo aiuto sei fuggito da lì e sei finalmente arrivato dove ti stavamo aspettando, nel posto giusto e al momento giusto!»

«Eravate voi la lucciola che mi ha aiutato durante la partita?»

«Esatto. Senza offesa, mio caro ragazzo: sei un uomo buono e gentile, ma i giochi da tavolo non sono il tuo forte!»

Brusi la ringraziò profusamente per avergli salvato la vita e poi fu il turno del re di offrirgli di nuovo ricchezze e onori una volta che fossero giunti a palazzo... A quel punto il ragazzo si intristì e la fata non poté che accorgersene.
«Il futuro è roseo per te, Brusi: perché quel cipiglio?»

Lui esitò qualche istante per trovare le parole giuste:
«Signora, il re mi sta offrendo più oro e pietre preziose di quante ne potrei portare in spalla e son sicuro che la mia povera mammina non crederà ai suoi occhi quando lo vedrà. Ma vedete, io ero partito per trovare i miei fratelli e nel frattempo mi sono innamorato della bella Arndis: ora torno a casa ricco e potente, ma non v'è traccia dei miei fratelli o di Arndis e per questo temo che non potrò mai più essere felice!»

«Se questo è il tuo solo problema, è presto fatto!» esclamò la donna battendo le mani.
Con uno schiocco e un lampo, nella radura apparvero i due fratelli di Brusi e Arndis, spaesati e un po' timorosi, ma tutti illesi. Brusi scoprì così che i fratelli avevano avuto molte avventure, per mare e per terra, e che lo stavano cercando da settimane, mentre Arndis era stata imprigionata dal fratello in un'altissima torre... Ma questa è un'altra storia.

Per finire la nostra vi dirò che Brusi e Arndis si sposarono ed ebbero molti figli, belli quanto la madre e con il buon cuore del padre, che ricevette tutti gli onori che il re gli aveva promesso. Il regno tornò a prosperare, la vecchia locanda divenne una reggia e i due vissero a lungo, felici e contenti.

NOTE

Arndis = "dea dell'aquila"

Arnleifr = "erede dell'aquila"

Bäckahästen = maestoso cavallo bianco che appariva vicino alle fonti d'acqua, soprattutto quando c'era nebbia o foschia. Poteva fingere di star annegando per attirare i viandanti o semplicemente avvicinarli; lo scopo era quello di trascinarli sott'acqua, ucciderli e (secondo alcune fonti) mangiarli. Simile al Kelpie scozzese, ai Näcken germanici e all'Alastyn dell'Isola di Man. In questa storia è al servizio dei Døkkalfar, per cui procura uomini ignari da usare come "intrattenimento".

Brusi = "caprone"

Døkkalfar = traducibile, in senso lato, come "elfi neri". Abitanti dello Svartálfehimr e contrapposti ai Ljósálfar, gli "elfi di luce". Entrambe le razze non erano, di per sé, né malvagie né buone, anche se potevano rivelarsi crudeli con gli esseri umani; erano probabilmente entrambe parti di un culto ciclico di fertilità/morte. I Døkkalfar sono alla base del concetto di elfi malvagi del fantasy moderno. L'abilità di Arnleifr nel gioco dell'hnefatafl è presa in prestito dalla leggenda di Finvarra, re del piccolo popolo irlandese, che pure si credeva abitasse in un regno sotterraneo ed era il campione assoluto degli scacchi.

Hnefatafl = antico gioco da tavolo simile agli scacchi, in cui lo scopo dei pezzi neri è proteggere il re e quello dei pedoni bianchi è catturarlo, bloccandolo sui quattro lati o in una casella d'angolo.

Svartálfehimr = uno dei Nove Mondi secondo la mitologia norrena, situato nel sottosuolo; dimora dei nani e dei Døkkalfar.

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