31. La piccola morte

La neve era caduta per giorni e si era posata silenziosamente su ogni oggetto del campo, che fosse una cabina, un albero o un grosso canide parlante addormentato all'ombra del bosco. Era stato bizzarro perché la neve non cadeva a luglio, normalmente, ma le reazioni degli altri ragazzi erano state buffe, a tratti perfino esagerate: alcuni non facevano altro che parlare di quell'improvviso freddo e ormai l'argomento era diventato noioso, come ciarlare di candidati politici durante le elezioni. 

Era chiaro che non avessero mai avuto l'occasione di vedere il campo Mezzosangue imbiancato, prima di allora. Per Shoshanah quella non era una novità, solo una bizzarria fuori stagione: non erano passati che pochi mesi dall'ultima volta che aveva accarezzato con lo sguardo le piccole, fredde collinette bianche e che si era goduta una tazza di vin brulè seduta sulla veranda di casa propria. 

Il suo rapporto con l'inverno era diventato ancora più complesso, dopo la morte di Fabrice. C'era stato un tempo, quando ancora il mistero della morte le scorreva nelle vene nel più completo silenzio, semplice e innocua eredità di un padre dalle molte facce, in cui aveva provato curiosità nei confronti di ciò che non era vita, ciò che aveva o stava affrontando il confine del trapasso. Aveva trascorso giornate ad osservare l'inverno mietere vittime, cercando di comprendere l'enigma della vita e della morte e poi ancora quello della rigenerazione. Qualcosa dentro di lei le aveva sempre sussurrato che nulla era per sempre, ma aveva compreso appieno quel messaggio quando Fabrice era morto, con il cuore tagliato a metà della punta della lancia del suo migliore amico e il suo sangue le aveva macchiato le mani.

Era stata la prima volta in cui Shoshanah aveva finalmente percepito la vena ctonia ricordarle di chi era figlia e per quel suo fratello di infelicità aveva attuato il primo e unico rituale dionisiaco della morte e della vita. 

Da allora, le cose avevano assunto una strana piega. 

Non percepiva le voci, né riusciva a richiamare i defunti. Quello era un compito che spettava a Jasper. No: il potere di Sho era qualcosa di molto più selvaggio, molto più antico, molto meno controllabile. La piccola morte, come la chiamava, pensando a quanto poco gli esseri umani le dessero un peso nella loro vita, era un evento quotidiano, normale, faceva parte del rituale della realtà: ovunque animali, piante e microrganismi morivano, esalando il loro ultimo respiro. Shoshanah coglieva istintivamente quella loro inevitabile partenza, come se all'improvviso vi fosse una mancanza, un tassello mancante nel grande puzzle dell'esistenza, che sarebbe stato colmato di nuovo, di lì a poco. Forse non era un vero potere, forse era solo una sensazione, tant'è: non ne aveva parlato a nessuno, nemmeno a Robert. Sapeva che lo avrebbe spaventato, perché era quello che facevano le persone normali quando parlavano del più grande tabù mai esistito. Sapeva che nessuno degli altri, a parte Jasper, avrebbe potuto capirla appieno. Forse neanche lui, si diceva nei giorni in cui era particolarmente di pessimo umore: la morte che Jasper conosceva era qualcosa di molto umano, che riguardava anime, fantasmi e contrappassi. Non c'entrava niente con la sua piccola morte, che invece era selvaggia, incontrollabile come il Destino, tanto che, di sicuro, nemmeno Ade avrebbe mai potuto controllarla. 

Più di una volta Sho aveva acceso il fuoco sul suo altare e aveva tentato di parlare a suo padre. C'erano stati giorni, durante l'inverno precedente, in cui mille domande si erano affollate nella sua testa, perché sentiva scomparire molte vite attorno a sé e il fiato le era mancato. Aveva acceso le candele e aveva rivolto una preghiera a Dioniso, chiedendogli perché capitasse proprio a lei, perché tutto sembrava così complicato quando gli altri riuscivano solo a credere che suo padre non era altro che un beone antipatico, che amava far crescere vigneti d'eccellenza come uno Sting qualunque e al massimo poteva far impazzire qualcuno per gioco. Shoshanah sapeva che Dioniso nascondeva molto più di quello che voleva far credere, ma suo padre non aveva mai risposto alle sue domande. Ogni volta, le candele si erano spente in un soffio e il piccolo tronco di vite che sosteneva il suo letto aveva gettato grappoli d'uva americana, la sua preferita. Era un modo gentile per intimarle il silenzio, Sho lo sapeva e, malgrado tutto, lo accettava.

Quell'inverno arrivato all'improvviso, nel mezzo di un'estate calda e ronzante di vita, aveva avuto lo stesso effetto delle dita di un dio che spengono, in un solo secondo, la fiammella del sole: uno sbuffo di fumo, un sospiro forzato e infinite vite se n'erano andate in un fiato, lasciando anche lei priva d'aria. Era così che si era svegliata la mattina del primo giorno di neve: sentendosi mancare il fiato. La situazione non era ovviamente migliorata, perché la moria improvvisa di insetti e lucertole era stata seguita da quella lenta e penosa delle piante, delle rane del laghetto, delle api. Ogni morte, un sospiro. Shoshanah non si era sentita pronta per quella prova, ma si era costretta all'abitudine. 

Cercava semplicemente di non pensarci: si presentava come ospite alla cabina di Rob e passava buona parte della giornata con lui quando non aveva nulla da fare. Sedevano semplicemente in silenzio, vicino alla stufetta, tenendosi per mano. Non si dicevano niente perché non era necessario: era bello stare assieme senza preoccuparsi di sentirsi a disagio.

Però non sempre Rob aveva tempo per lei. In particolare negli ultimi due giorni era stato impegnato in lavori di manutenzione delle altre cabine, soprattutto quella di Ermes, dove c'erano spifferi in ogni dove e i ragazzi erano troppi per essere smistati altrove. Lei non sarebbe stata d'alcun aiuto visto che non aveva idea di come impugnare un martello, figuriamoci una sega, così cercava un appiglio altrove.

Quel pomeriggio, ad esempio, si trovava seduta su uno scalino della sua cabina, con addosso un cappottino viola, ai piedi stivali di gomma leopardati e una copertina a stampa di gattini che sprigionavano raggi laser dagli occhi - un brutto ma sentito regalo da parte di Jasper - sulle ginocchia. Davanti a lei, seduta composta nella neve, con il pelo rosso spolverato di fiocchi come zucchero a velo, stava Scarlett. 

"So che non dovrei essere contenta" stava ripetendo per l'ennesima volta in quel momento, con le orecchie basse ma una inconfondibile luce di eccitazione negli occhi. "Però...".

"Però questa neve ti piace".

"Sì". 

Sho tirò appena le labbra nell'ombra di un sorriso. Era diventata grande in quei due anni, sia fisicamente sia psicologicamente, ma Scarlett rimaneva Scarlett e lei si sentiva sempre una bambina divertita quando la volpe era nei paraggi. Era stata gelosa di lei quando Grant era apparso: per un paio di mesi si era comportata da fredda e insofferente nei suoi confronti, fino a quando aveva capito che un patrigno gentile - anche se un po' tonto - non era il male peggiore che le potesse capitarle. Ora le piaceva, anche se non era una creatura di suo padre, ma preferiva stare sola con Scarlett il più possibile. Quello che c'era tra loro era un legame importante, Shoshanah lo sapeva. Non c'era altra persona, a parte Rob, che amasse così tanto. 

"Papà non risponde alle chiamate".

"Perché hai chiamato il Padrone, Shoshi?".

Sho si strinse nelle spalle e indicò la neve attorno a loro. "Per questo?".

"Non penso che sia colpa degli dei".

"E di chi se no".

"Beh, anche se fosse colpa degli dei, dovresti chiedere al tuo divino nonno, bambina mia. Il Padrone non controlla gli elementi".

"Non posso telefonare a Zeus".

"Esatto. Quindi lascia perdere" rispose Scarlett. "Sue andrà a rompere le balle, le viene tanto bene. Ora ha il dente avvelenato per la questione delle sue sorelle, immagina te".

Qualcuno di grosso esalò il suo ultimo respiro nel folto della foresta e Shoshanah si sentì mancare il fiato. Con un movimento a lei non congeniale scattò in piedi. La volpe voltò il muso verso di lei, confusa e preoccupata, drizzando le orecchie.

"Che c'è, Shoshi?".

"Possiamo fare un giro?".

"Ma certo. Dove vuoi andare?".

Shoshanah sapeva di avere diciassette anni, ma a volte le piaceva tornare una bambina e chiedere un piccolo permesso. 

"Posso chiedere in prestito le carte a Jasper?".

Scarlett sospirò e si strinse nelle spalle pelose. "Devi chiedere a lui, non a me".

"Ma non è un problema per voi se gli chiedo di evocare Brice?".

"Non l'hai visto due giorni fa?".

"Ho bisogno di parlare con lui. Ancora un pochino".

Scarlett la fissò con attenzione, poi sospirò e si accucciò nella neve. "Vieni qui. Andiamo dal piccolo Mortimer".

"Sono troppo pesante, Scarlett".

"Sono una volpe di tre metri al garrese, quella ciccetta sui fianchi è soffice e leggere come una nuvoletta in cielo per me. Vieni qui, ho detto".

Shoshanah fece come gli era stato ordinato, ma prima di approfittare del suo taxi personale a forma di volpe, si parò davanti al suo muso. Ci posò sopra le sue piccole manine grassocce, una bianco latte e l'altra viola mosto. Scarlett era nata, era morta, era risorta. Era la prova che la vita era davvero un flusso. Sho si prese un secondo per ricordarsi quella verità, prima che il percepire altre vite svanire la facesse andare in crisi, dopodiché posò un minuscolo bacino sul tartufo umido della volpe. 

"Sei stranamente sentimentale oggi" commentò confusa Scarlett. "Sicura vada tutto bene?".

"Sì" mormorò Sho. Ed era vero: sarebbe andato tutto bene una volta che avesse parlato a Brice. Lui era l'unico che poteva comprenderla. 

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