27. Homie
Uscì dalla porta della cabina per primo, stringendosi nel giubbottino tecnico che la buona stella di sua madre gli aveva infilato nella sacca prima di partire. Già rimpiangeva il calduccio di prima ma la riunione era finita e Sue era stata molto chiara nel distribuire i compiti. Doveva andare a rifare la valigia per trasferirsi in una delle cabine più calde e coperte. Aveva già ricevuto un paio di proposte, da parte di Winton e Iris, così come aveva ricevuto da Jasper il divieto di trasferirsi lì. Aveva programmato di correre subito alla cabina uno ma il vento gelido gli congelò i pensieri nel cervello. Le guance, dopo qualche passo, persero sensibilità. Casa sua in Michigan non era uno degli stati più caldi e assolati. Sulle rive del lago da cui prendeva il nome l'intero stato tirava spesso vento forte e d'inverno le strade si ricoprivano di neve anche abbastanza spesso. La prospettiva, però, di tornare a casa e di mangiare al calduccio nella sua cucina con la mamma per poi andare agli allenamenti di basket assieme ai suoi amici era una prospettiva più allettante che quella di bivaccare probabilmente in una cabina sovraffollata divorati dal dubbio che la neve, per quanto bella e immacolata, potesse essere un presagio di morte.
Una sferzata di vento gli mozzò in fiato in gola costringendolo a girarsi controvento per riempire i polmoni senza fatica. Il respiro si condensava immediatamente in piccole nuvolette minacciose, disperse subito dalla rabbia del vento. Jesse stava attraversando il campo a balzelloni stringendo la mano di un intirizzito esemplare di Dwayne. Li vide sparire oltre l'angolo di una cabina in direzione della casa grande. Grant, che era stato dato per disperso, aveva trovato la semidea che per sua sfortuna era stata mandata a cercarlo e ora, in formato canino, si comportava esattamente come tutti i canidi durante le tempeste di neve. Gli occhi brillavano alternando momenti di paura a momenti di estati totale, cercando di prendere i fiocchi di neve con la bocca. Faceva impressione vedere quelle mascelle che, senza alcuna fatica, sarebbero state capaci di staccare la gamba di un uomo robusto in un solo morso, chiudersi dubbiose attorno a una cosa effimera, unica e inafferrabile come un fiocco di neve. Inutilmente la povera ragazza cercava di richiamare la sua attenzione battendo le mani e chiamandolo, il grande Lelapo era perso a giocare come un cane qualsiasi. Solo Scarlett avrebbe potuto richiamarlo all'ordine ma, pensandoci con attenzione, probabilmente anche lei avrebbe sentito l'intenso richiamo della sua parte più animale.
Si infilò due dita in bocca e cercando di riattivare la circolazione in faccia fischiò in direzione del mitico cane. Le orecchie del cucciolone fuori misura si alzarono immediatamente. Ci mise meno di due secondi a individuare la fonte e il proprietario di quel suono. Si dimenticò della neve, si dimenticò della ragazza e subito scattò in direzione di Gabriel. Si era stupito fin dalla prima volta che era successo. Il cane si inchinò con il muso gigante alla sua altezza, lo sguardo di adorazione che solo gli animali hanno e le zampe tese per terra in uno strano mix tra una posa minacciosa e una di gioco. Lelapo aveva mostrato una particolare predilezione per lui fin dal primo giorno, così come Sho pareva riuscire ad attirare tutti i quasi felini selvatici nel circondario.
La storia delle affinità animali era vecchia ormai e funzionava in due direzioni. I cavalli non erano fan dei figli di Atena, così come non lo erano i ragni. Gabriel aveva già scoperto questa comodissima applicazione del proprio sangue semidivino due anni prima, a New Troy quando aveva convinto un gruppo di formiche affamate a non mangiarsi Marissa e a trasformarsi nelle formidabili guerriere Mirmidoni. Da quel giorno aveva scoperto di essere un ottimo repellente per le formiche che fino a pochi anni prima si erano sempre divertite a far passare le loro scure carovane in mezzo alla cucina. Bastava una gentile richiesta e la capofila muoveva le antenne per poi far fare dietrofront all'intero plotone. Non era figo come saper evocare fulmini a piacimento o come poteva essere saper volare, ma gli andava bene così. I suoi poter preferiva tenerli ben chiusi dentro di sé, evitare che prendessero il sopravvento. Non che gli facessero ancora paura, o non tanta quanto prima per lo meno, ma erano complicati. Vi attingeva con parsimonia, approfittando dei momenti in cui era già alterato o stanco. O quando l'aria all'inizio dell'estate si caricava di elettricità e allora sentiva il richiamo e usciva in giardino, sul retro di casa sua, per ascoltare le scariche elettriche che parlottavano fra loro. Si diceva che i figli di Zeus potessero anche volare o evocare i venti, tuttavia non era così curioso di scoprirlo.
Il nuovo potere che si era aggiunto, in apparenza, era il controllo su Lelapo a causa della sua discendenza. Il cane in grado di prendere qualsiasi cosa era stato al servizio di Zeus e ancora oggi riconosceva il padre degli dei come suo padrone.
"Grant, Scarlett ti sta cercando da almeno mezz'ora" cercò di dire con il tono più delicato possibile. Osservò con una punta d'ansia le orecchie del cane ma per sua fortuna non si abbassarono in segno di contrizione, anzi. Si alzarono decise, cosa che esprimeva affermazione. La grossa testa annuì seria per poi perdersi un attimo per smusare la mano di Gabriel. Lasciò scorrere la mano sul ispido ma caldo della testa dell'animale, sentendo come tremasse per l'emozione poi, non appena le sue dita di sollevarono, lo vide sparire alla velocità della luce verso il centro del campo dove, l'istinto gli diceva, avrebbe trovato la sua Teumesi.
Uno sternuto trattenuto richiamò la sua attenzione alle spalle. Gabriel si congelò.
Sia si stava soffiando il caso in un grosso fazzoletto di stoffa. Era rossa in viso dal freddo ma il sorriso che le galleggiava negli occhi scuri sembrava vero e genuino.
"Scusa non volevo spaventarti" si scusò soffiando di nuovo il naso. "È il vento..."
"Non c'è niente di cui scusarsi" ridacchiò Gabriel imbarazzato pensando alla scena di educazione canina a cui la ragazza aveva appena assistito. Avrebbe voluto continuare la frase ma si interruppe osservando lo sguardo stralunato di Sia che viaggiava tra un fiocco di neve e l'altro. Fissando ciascuno come una piccola gemma perfetta appena uscita da una lunga e difficile sessione di taglio. Fu in quel momento che gli venne in mente. Sia veniva dal più grande stato di tutti gli Stati Uniti, dal profondo e lontano Alaska dove le notti sono lunghe e il clima è freddo.
"Sicura di non aver freddo?" abbozzò insicuro non appena notò che quello che da lontano aveva scambiato per un giubbino imbottito.
La ragazza si guardò le mani che aveva tenuto sugli avambracci come se non fossero sue. Le fissò guardando la neve passare tra le dita, spinta dall'aria.
"no... Non posso avere freddo. Sono a casa, io".
La risposta però non aveva senso alcuno. Per quanto potesse essere immersa nell'atmosfera, era per sempre un'anomalia. Qualcosa che non dovrebbe succedere.
Fu in quel momento che si avvicinò e notò e rabbrividì. Il collo era attraversato da un sottile filo rosso, come una scia di qualcosa di appuntito.
Pensò fosse un graffio e con la coda dell'occhio osservò le mani di Sia notando tutte le unghie corte.
La tempesta cessò di esistere attorno a lui.
Non solo il filo rosso sul collo. Anche le braccia erano costellata di lividi violacei quasi invisibili nel mezzo del turbinare bianco. Qualsiasi cosa fosse successa la ragazza non se l'era provocata da sola. Tutti i puntini dell'enigma che era andato risolvendo qui giorni si collegarono e la faccia vittoriosa è strafottente di un figlio di Apollo comparve.
Callan. Riddock.
Non aveva dubbi. L'aveva picchiata. Pur sapendo che l'ultima volta aveva visto anche lui... Forse, ancora peggio, nella sua mente pensava che avrebbe semplicemente chiuso un occhio come tutti gli altri attorno a loro.
Poi fu chiaro che era proprio così.
Sia tremava nella sua maglietta troppo leggera ma non pareva accorgersene assorta com'era a contemplare l'inverno che, Gabriel immaginò, le ricordava tanto casa.
Seppe subito cosa fare e, prima che il cervello potesse vagliare per bene le conseguenze di ciò che aveva appena detto, le parole rotolarono fuori dalla sua bocca.
"Sia, sai che bisogna trasferirsi nelle altre cabine, vero?"
La ragazza riportò la sua attenzione su di lui e un lampo di consapevolezza le brillò negli occhi, forse temendo il peggio. Forse chiedendosi se anche i ragazzi della cabina di Apollo avrebbero dovuto cambiare dormitorio.
"Pensavo di venire da voi. - continuò Gabriel sorridendo tra una parola e l'altra - sembra decisamente la più calda e la più accogliente. Non dormirei mai da solo con quello spostato di Jasper".
Sia rilassò le guance in un qualcosa che somigliava a una smorfia sorridente poi una folata di vento le spedì una ciocca di capelli neri in faccia. La sua pettinatura, sempre così ordinata e perfetta veniva sembrò animarsi quando l'aria virò dal basso verso l'alto, sollevando confusa la massa scura di capelli. Per un secondo la ragazza sembrò perdersi via con la neve. Avrebbe potuto sollevarsi e farsi portare via dal vento lontano, verso nord, fino in Alaska. E non ci sarebbe stato niente di strano.
"Sicuro che vuoi venire a soffocare di caldo vicino alle fucine?" riuscì finalmente a rispondere la ragazza.
"Sempre meglio che gelare nella cabina 1. Ci sei mai entrata? È praticamente una galleria del vento!"
Una volpe e un cane giganti passarono più in là sollevando dei mini tsunami di neve che investirono e seppellirono una sfortunata Helen Bucket.
Sia non sorrise.
"Senti, ora vado a prendere le mie cose. Se mi aspetti alla tua cabina arrivo in 10 minuti. Va bene? Così possiamo parlare bene".
"Parlare?" chiese terrorizzata in tutta risposta. Il tono e l'inflessione con cui lo disse lanciavano chiari segnali di paura. Come se si aspettasse che "parlare" volesse dire anche per Gabriel "minacciarti e picchiarti".
"Sì, parlare. Quando vorrai parlare con qualcuno di quel che ti fa quell'idiota?" se ne uscì con forse troppa foga. Tentò di correggersi all'ultimo. "Nel senso, Sia. Non puoi continuare a tacere. Dopo se non te la senti possiamo anche fare un pupazzo di neve e basta".
La proposta non sembrò divertire Sia più del necessario. Si strinse nelle spalle e, come se si rendesse improvvisamente conto del freddo, si accartocciò in se stessa. Non rispose né sì né no. Si allontanò e basta nella neve verso la sua cabina e Gabriel non poté fare a meno si stringere i denti così forte da farsi male.
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