20. Contempla, o mondo, la tua rovina
L'impressione di svegliarsi urlando non era qualcosa a cui era abituata, proprio per niente. Il caldo soffocante aveva trasformato la camera in cui dormiva in una specie di fornace non autorizzata e i capelli spessi e ricci le si erano incollati alla faccia. Il sole aveva battuto per tutto il pomeriggio sul tetto della Casa Grande, garantendo ottimo riscaldamento a quelle stanze dove dormiva il personale assunto del campo. Se non fosse che era giugno inoltrato.
Il fiato le si spense in gola quando se la sentì così riarsa. L'urlo cessò quando i suoi sensi incamerarono una serie di informazioni tali da distrarla a sufficienza dall'idea del sogno che aveva appena fatto. Il caldo, prima di tutto. Poi la gola riarsa. Infine i capelli appiccicati alla faccia. Il cuore, che da qualche parte in quel corpo umano c'era, batteva a ritmo accelerato. Gli dei non fanno incubi, no?
Gli dei non possono fare incubi. Le divinità sono sopra queste cose. Il sonno stesso è una divinità!
Quindi perché la sua mente, forgiata secoli prima quando ancora gli uomini raccoglievano miele selvatico dagli alberi, le aveva fatto uno scherzo del genere?
Cercò a tentoni la bottiglietta d'acqua che aveva lasciato accanto al letto la sera, prima di addormentarsi. Era tiepida, ma la sensazione di qualcosa che le scendeva per l'esofago le diede l'improvvisa impressione di essere al sicuro. La luce che filtrava dalle imposte chiuse indicava chiaramente che era quasi l'alba. Aveva dormito probabilmente tre o quattro ore. Nel sogno erano sembrate un'eternità. Sue mise le gambe giù dal letto e sentì con sollievo il pavimento sotto i piedi. Quel corpo umano, così fragile e soggetto a scomodi cambi di temperatura, era una delle cose migliori che avesse avuto nella sua esistenza. Le pareva ingiusto, frustrante e quasi crudele che proprio ora iniziasse a essere difettato. Che la sua mente divina stessa davvero diventando tanto simile a quella degli umani?
Scacciò il pensiero con una scrollata di testa e richiuse gli occhi, provando a smettere di vedere quello che davvero c'era di fronte a lei, ossia l'armadio e la scrivania, e tornare a vedere quello che la visione gli aveva portato. Sapeva che i semidei erano soggetti a quel tipo di sogni. Rob li aveva sempre descritti come delle esperienze così vicine alla realtà che, a volte, accorgersi che si trattava di un sogno era pienamente impossibile.
Il campo. Sì, il campo era nel sogno assieme però a qualcosa che non c'entrava. Il freddo. Il freddo e una tormenta, a nord. Il cielo delineato da un fronte di nuvole così dense e così cariche di neve da far venire freddo al solo pensiero. Gravide di una tormenta che non appena avesse iniziato ad abbattersi sul campo, avrebbe fatto tabula rasa di tutto quel che conosceva. Poi oltre quelle nuvole così strane e minacciose nonostante il loro candore, era arrivato il vento guidato da una biga con otto cavalli alati a trainarla. Candidi, freddi e pericolosi. Sue aveva alzato lo sguardo e si era resa conto che i suoi lontani parenti aerei divini non erano venuti in pace. Avevano alzato le armi e raffiche fortissime avevano squassato le radici stesse di Long Island, facendo tremare tutto. Le cabine erano crollate su se stesse e la Casa Grande aveva perso parte del suo porticato. Poi i rumore della neve turbinante si era fatto assordante costringendola a tapparsi le orecchie per il terrore di rimanerci sorda.
La cosa più strana di tutte, però, era stato il fatto che in tutto il sogno non aveva provato a scappare. Era rimasta ferma a farsi portar via dalla furia degli elementi, invocando nella mente l'aiuto delle sue sorelle e di suo padre. Ma non aveva sentito nessuno perché in quel sogno lei sapeva che non c'era nessuno. Ora, da sveglia, sentiva la sua connessione col Monte Olimpo forte e chiara come sempre. Avrebbe potuto tornare indietro là in qualsiasi momento, ne era certa. Aveva sempre pensato che il giorno in cui quel filo dorato che la teneva legata al monte degli dei si fosse spezzato sarebbe stata solamente felice, mentre ora che aveva provato in una visione a non sentire più quella presenza confortante, era terrorizzata alla sola idea. Che cosa stupida, pensare che si possa fare a meno di qualcosa solamente perché lo diamo per scontato. Era rimasta a farsi uccidere dalla tempesta non solo per quello. C'era dell'altro che non riusciva a cogliere e che la turbava profondamente. Non un semplice cessare di esistere, no era stato qualcosa di diverso e doloroso.
Le mani le tremavano ancora, per quanto tentasse di premerle una contro l'altra per tenere dentro tutte quelle cose che non riusciva a capire. Per Zeus! Come poteva essere una dea così debole? Apollo avrebbe riso di lei. Resistette ancora qualche minuto prima che la tensione fosse troppa, allora lasciò andare il nodo che le si era formato all'altezza dello stomaco.
E il nodo si sciolse in grosse lacrime luccicanti che si misero a scorrere copiose giù dalle guance e sul naso, dove poi saltavano giù come da uno scivolo. Si alzò di scatto e senza nemmeno cercare un fazzoletto con cui asciugarsi il viso corse dall'altro lato della casa. Anche il corridoio, una delle stanze più spoglie di tutta la Casa Grande, un passaggio col pavimento in legno e delle tristissime applique un po' polverose alle pareti, le sembrò lungo come la strada per Maratona. 2 metri, 42 chilometri. L'unico porto sicuro in quell'improvvisa tempesta era la camera in fondo al corridoio, dall'altro lato rispetto alla sua. Quella dove, un tempo, erano state custodite armature arrugginite e altra robaccia. Spalancò la porta senza bussare e il calore accogliente della casa di Scarlett riportò tutta la realtà al suo normale corso.
La volpe Cadmea avrebbe potuto fare l'arredatrice. Le pareti verde chiaro erano state ricoperte di scaffali e mensole su cui stavano ordinati libri, tazze decorative e anche qualche bandierina con gli slogan dei diversi anni al Campo Mezzosangue. Un poster della cantante Foxies e uno di un film francese con una grande volpe davanti a tutti i personaggi. Scarlett non sapeva il francese e Sue era convinta che avesse preso il poster solo per la volpe in posizione d'onore. La cosa più strana di tutta la stanza era la sua inquilina. Nascosta sotto un leggero lenzuolo, Sue notava solo le gambe, che uscivano di un bel pezzo dal materasso, ma lei non se ne curava. Non c'erano altri letti matrimoniali nel campo. Quello passava il convento.
"Cadmy!" sussurrò feroce, arrivando vicino al suo letto.
Lei si tirò su a sedere di scatto. "Ho mangiato io il figlio del macellaio!"
Il silenzio cadde tombale.
"Hai mangiato il figlio di un macellaio?".
"Perché stai sussurlando?" sbiascicò la volpe squadrandola dalla testa ai piedi mentre si grattava un sopracciglio. Aveva i capelli spettinati, alcune ciocche, secche come paglia, le ricadevano sugli occhi. Scarlett diede loro una manata per rimetterle al loro posto.
"Sto facendo cosa?".
"Sussurlare" ripeté imitando il sussurro ringhioso con cui era appena stata svegliata. "Mi hai spaventata".
"Tu stavi sognando di mangiare qualcuno e io dovrei essere spaventata?".
Le due donne aggrottarono le sopracciglia e sospirarono, sconfitte. "Cosa ci fai nella mia stanza, Peak? Mi stalkeri nel sonno? Guarda che ti posso denunciare".
"Non ti stavo spiando mentre dormi, Scarlett. Sarebbe semplicemente inquietante!".
"E allora?".
"Ho fatto un sogno... un incubo".
La volpe sembrò prenderla sul serio ma poi stringere le labbra non bastò a trattenere la risata. "Una dea... che fa i brutti sogni".
"È stano, vero? Infatti secondo me non era un sogno normale! Anzi, non lo era affatto".
"Dai, siediti qui sulla copertina. Tanto Grant e a fare la ronda tra le cabine. Occhio non vede cuore non duole".
La dea sospirò divertita e si sedette sulla lisa copertina rossa che era stesa sul letto di Scarlett, l'unico oggetto a cui forse Lelapo, il cane divino, teneva di più dopo Scarlett. "Raccontami tutto".
Come un fiume di parole il sogno uscì dalle sue labbra, prendendo corpo dalle parole che lo descrivevano. Forse era perché Sue in fondo era una musa, o forse era perché dopo anni con gli umani aveva imparato a fare quello che loro sapevano fare meglio: narrare. Sta di fatto che le immagini di quell'Apocalisse in miniatura presero forma di fronte agli occhi atterriti della volpe che piano piano iniziò a sentire il freddo e a vedere tutto ciò che l'occhio della mente dell'amica aveva visto. Quando Sue tacque, l'intero mondo parve tacere con lei. Nulla faceva rumore, nemmeno la vita dall'altra parte del globo dove era ancora giorno. Tutti dalla Corea all'Alaska tacevano.
"Io... io non so cosa vuol dire, Scarlett. Io non so come interpretarlo".
"Non penso ci sia molto da interpretare" disse a mezza voce fissando il vuoto oltre la spalla di Sue. "Contempla, o mondo, la tua rovina".
Fu silenzio di nuovo, prima che Sue interrompesse con un dito impertinente alzato in alto.
"Citazione da dove? Non mi torna".
La volpe tornò a guardarla e alzò un sopracciglio. "Non lo so, tipo me la sono inventata ora".
"Suonava bene sai?".
"Certo che suona bene, Peak! Sono una volpe rinata, non mangio più la gente villica e illetterata della Beozia!".
"Senti, sai cosa? Penso che ci sia davvero qualcosa che non va. Assomigliava terribilmente al sogno di Rob".
"Non potresti tipo andare a fare una visitina a Olimpo Beach?" buttò lì l'altra, giocherellando distratta con un bordo della copertina.
La rispostaccia acida morì in gola alla musa la quale, per quanto odiasse ammetterlo, aveva pensato anche lei stessa fosse una bella idea. "L'ultima volta non ha aiutato".
"Sì, ma questo non vuol dire che tutte le volte che Rob fa un brutto sogno si stia per partire per una battaglia sanguinolenta dove io muoio".
"Anche questo è vero... Dei! Odio ammettere che hai ragione!".
"Ehi, questa la prendo sul personale!".
"No, non perché sei tu. Per il fatto che hai ragione e devo andare sull'Olimpo. È due anni che non vedono la mia faccia".
"Intendi dire è due anni che non vedono il tuo nasone vero?"
La tensione calò improvvisamente e Sue si rese conto che forse stava solo esagerando. Una gita sull'Olimpo non l'avrebbe uccisa come, d'altronde, nemmeno un brutto sogno.
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