14. Manuale dei giovani Dwayne: come sfuggire agli orsi rossi australiani
"Sveglia, bambolina. Il sole è sorto, gli uccelli cantano e siamo appena stati reclutati per una intensa sessione di combattimento".
Dwayne pensò di essersi sognato quel buongiorno. Ne era tanto convinto che aggrottò la fronte, strizzò gli occhi e si voltò sull'altro lato, facendo cigolare infelicemente la branda. Tornò a dormire serenamente, ma il suo cervello non aveva neanche sfiorato il traguardo del sonno REM che tutto il suo mondo iniziò a traballare, muoversi e, infine, il suo corpo cadde.
L'atterraggio sul pavimento della cabina non fu morbido, né piacevole. Il suo naso urtò contro la sua scarpa con un crick sinistro e un lamento di gattino in amore sfuggì dalle sue labbra, inconsapevolmente. Con la forza di volontà di un bradipo alzò gli occhi, cercando di aprire le serrande che si trovava al posto delle palpebre, e mise a fuoco la ragazza che, purtroppo per lui, non era un sogno.
Sandra Orlando era la femmina più brutta che avesse mai visto. In una faccia magra e oblunga, ricoperta dal campo minato lasciato da un'acne degna della guerra del Vietnam, brillavano due occhietti scuri e vispi come quelli di un corvaccio, la cui cattiveria non veniva diluita nemmeno dalle spesse lenti a fondo di bottiglia che era costretta a portare sul naso aguzzo. Era brutta non solo perché aveva un corpo strano e sgraziato, secchi capelli stoppacciosi e il viso butterato, ma anche perché sembrava davvero malvagia.
Gli avevano spiegato che i figli non riconosciuti dalle divinità - ancora non riusciva a capacitarsi di dover chiamare papà un dio greco, ma tanto il problema non si era ancora posto perché quel dio greco probabilmente era ancora a comprare le sigarette in Messico – dovevano stare nella cabina dei figli di Ermes, che accoglieva tutti i piccoli apolidi e dava loro riparo.
La cabina si era in realtà rivelata una catapecchia – almeno, rispetto alle altre bellissime casine davanti a cui Dwayne aveva sfilato con la bocca spalancata in una posa da Picasso – e, ancora peggio, era una catapecchia piena di persone. Aveva scoperto che i dieci ragazzini contenuti al suo interno – uno con la faccia più scaltra e crudele dall'altro – erano ufficialmente figli del dio dei ladri e che di semidei non riconosciuti il campo in quel momento contava solo lui. La direttrice Peak gli aveva detto che era una buona cosa, perché a breve qualcuno si sarebbe palesato anche per lui. Dwayne riusciva solo a pensare che quella fosse l'ulteriore e definitiva prova che la sua vita non valeva un granché.
Eppure, quando il peggio sembrava già arrivato e digerito, ecco che era spuntata fuori la capocasa della cabina di Ermes, quella brutta diciannovenne maleducata che fin dal principio l'aveva trattato come un bamboccio. Dwayne l'aveva trovata così antipatica fin dal principio da non ascoltare una singola parola pronunciata da quella bocca piena di denti storti, cosa che, a quanto pare, aveva solo divertito la semidea. Gli aveva fatto montare da solo la brandina quando lui le aveva chiesto di dormire in un letto vero. Sì, forse era stato un po' sgarbato, ma l'ospite era sacro, no? No! Si era ritrovato a dormire in una specie di lettino per cani che sapeva di umido – e di cane, per davvero – mentre i fratelli di Sandra ridacchiavano e gli davano la buonanotte. Dwayne li aveva odiati, uno per uno. Ma non tanto quanto odiava in quel momento la padrona di casa.
"Eh?" miagolò, guardandola male e cercando i suoi occhiali, che erano stati incastrati nell'altra scarpa abbandonata sul pavimento della cabina.
"Continui a non ascoltarmi" lo rimbrottò Sandra, con un sogghigno e le braccia incrociate su un busto privo di seno. A Dwayne ricordava una pera. Avrebbe voluto chiamarla così: Pera Orlando. Sarebbe suonato forte, se solo avesse avuto degli amici. Temeva che se l'avesse detto ad alta voce, i suoi fratelli, che sembravano pendere dalle sue labbra, l'avrebbero sotterrato in giardino, solo per piantare un paletto con scritto Carota Houssain. Meglio non rischiare.
"Cosa vuoi?".
"Te lo ripeto per l'ultima volta: alzati e datti una mossa, abbiamo una sessione di allenamento".
"Allenamento?" Dwayne si mise seduto e la guardò storto. Pensava che lo stesse prendendo in giro. Eppure Sandra sembrava serissima, anche se divertita dal sacco di patate pieno di riccioli che si trovava davanti.
"Sì, bambolina. Le direttrici hanno deciso di iniziare un allenamento speciale, soprattutto per i nuovi arrivati. È appena arrivato il nostro campione al Campo, sarà un onore per te assistere a una sua lezione".
"Allenamento? Campione? Ma cosa stai dicendo, donna?" brontolò Dwayne, alzandosi faticosamente in piedi e cercando di rassettare i pantaloni del pigiama – un pigiama che doveva avere circa dieci anni, pieno di buchi di tarme e un qualcosa di disgustosamente appiccicoso che sapeva di fragola sulla chiappa sinistra – per non apparire debole di fronte alla capocabina.
Sandra non gli diede altre spiegazioni. Sogghignò, si strinse nelle spalle e ribatté: "In ogni caso non mi ascolteresti. Perciò tanto vale che lo scopri da solo. Chiedi a Mark di accompagnarti. Buona fortuna, bambolina".
Dopodiché Sandra Orlando e i suoi fianchi troppo larghi rispetto al busto si voltarono di centottanta gradi e se ne andò, rapida com'era arrivata. A Dwayne rimase solo l'amaro in bocca per essere stato di nuovo blastato da quella brutta teenager con un problema di acne.
"Certo che non sei molto sveglio".
Dwayne si mangiò la lingua, se la masticò ben bene e cercò di deglutirla senza soffocare, assieme al commento velenoso che aveva sulla punta della lingua: stava già abbastanza antipatico alla capocasa, non avrebbe dovuto far arrabbiare anche il suo braccio destro. Sarebbe stato un doppio carpiato in bocca agli squali. Squali con la faccia aguzza, gli occhiali e il sorriso da furbi.
Mark Baker non era migliore di Sandra Orlando. Anzi. Dwayne aveva un po' paura della ragazza, mentre pensava che suo fratello fosse solo uno sciocco orso che approfittava del terrore che quella italo-americana con tendenze mafiose riusciva a promuovere all'interno della loro cabina. Un furbone, in pratica. A Dwayne i furboni non piacevano, soprattutto perché non era mai riuscito a far parte della risma.
"Perché?" Si limitò a chiedere, nonostante il commento gli avesse dato un mondo di fastidio.
"Perché non si fa arrabbiare Sandra. Soprattutto quando vuole essere gentile con te. Ieri sei stato maleducato" rispose allegramente Mark, strappando un filo dell'erba dal lungo prato che costeggiava il sentiero e ficcandoselo tra le labbra. "E lei ora non te lo perdonerà".
"Ieri ero stanco".
"Ieri ero stanco" lo scimmiottò Mark. "Pensa a come rientrerai oggi, allora. Dopo che Rob ti avrà massacrato per bene". Dwayne guardò il ragazzo spalancando gli occhi e Mark sogghignò come se stesse aspettando proprio quell'espressione. Calcò ancora la mano, aggiungendo: "Oh sì, spero che Rob oggi ti faccia nero".
"Chi è Rob?".
"Lo sapresti, se ieri avessi ascoltato Sandra".
"No, dai".
"No dai cosa? Cosa vuoi sapere?".
"Cosa succederà oggi?" Domandò Dwayne, che iniziava ad avere un poco di paura. "Chi è Rob?".
"Oh, nessuno di particolare... solo il più cattivo, grande, grosso e pericoloso di tutti i semidei. Ti hanno detto che è amico stretto di Sandra? No?".
"Stai scherzando?".
"Figurati. Io non scherzo mai".
Purtroppo Dwayne non poteva sapere che quella di Mark era la supercazzola più importante della sua vita, ma il figlio di Ermes era sufficientemente un buon attore per morire dalle risate solo dentro di sé, senza dare a vedere nulla fuori. Dwayne non ebbe indizi che quella fosse una bugia, così percepì la prima ansia nata dal senso di colpa di aver maltrattato quella brutta capocabina. Ecco, forse avrebbe dovuto cominciare a evitare di pensare che fosse brutta. Si lambiccò il cervello nel tentativo di trovare una scusa adatta nel caso quel famoso Rob gli avesse chiesto perché avesse trattato male la sua amica, ma nel momento in cui le sinapsi connettevano e davano come risultato un solo: "Perché ero sotto shock, non ero capace di intendere e volere, mi creda, agente!", ecco che Mark lo afferrò per una manica, lo strattonò di lato e indicò un punto davanti a loro, dietro un casotto che Dwayne, ovviamente, non aveva mai visto.
"Eccolo lì" bisbigliò Mark, indicando la porta aperta su un lato, su cui era proiettata una larga ombra scura. Dal locale proveniva un gran sferragliare e anche qualche bassa imprecazione.
"Oh no, è già arrabbiato di prima mattina".
Dwayne deglutì a fatica.
"Cosa sta facendo?" Sussurrò, quasi sentendosi male dalla paura.
"Non senti?" Chiese Mark, portandosi una mano all'orecchio. Lo guardò, sgranando gli occhi e sillabò: "Sceglie la sua arma".
"Per fare cosa?".
"Mettere alla prova i novellini come te. È la prova di iniziazione, lo sapevi? Ecco, l'avresti saputo se avessi ascoltato Sandra, ieri".
"Mi dispiace!" Esclamò Dwayne. "Davvero, mi dispiace! Io non voglio morire!".
"Dispiace anche a me" rispose solenne Mark, "ma non sono io che decido. È lui".
Nello stesso istante dalla porta aperta uscì il ragazzo più massiccio che Dwayne avesse mai visto. In realtà non era né un gigante né un body-builder, ma cosa non fa la paura! Il ragazzino capì improvvisamente di aver appena scritto il proprio nome sopra una fossa scavata per l'occasione. Sua madre gli aveva sempre detto che i capelli rossi portavano sfiga e quel famoso Rob non aveva solo i capelli di quel colore, ma anche i peli e la pelle. Era rubizzo. Pessimo segno.
Ancora peggio: aveva in mano un grosso martello. Dwayne non riuscì a immaginare un altro fine per quello strumento, se non quello di uccidere lui o quantomeno menomarlo. O renderlo sterile. O spaccargli una per una falange, falangina e falangetta. Chissà. I metodi di tortura avrebbero potuto essere centinaia.
Trasalì bruscamente quando Mark gli diede un pizzicotto. Tremava e Dwayne – mal – comprese che anche lui era spaventato. Questo fomentò il suo terrore.
"Io ti devo lasciare" balbettò il figlio di Ermes. "S-scusa, Dwayne. Io ho già dato".
"Cosa? Quando?".
"Due anni fa" Mark finse un brivido di terrore, mentre fissava l'orizzonte, balbettando: "Mi ha rotto tre costole e due vertebre".
"E cammini ancora?".
"Sì, perché lui sa dove romperle! Non vuole che tu stia sulla sedia a rotelle, non sarebbe divertente poi bullizzarti durante l'anno!".
Dwayne pensò che questa cosa avesse senso e Rob ai suoi occhi divenne anche un sadico.
"Tipo tortura cinese" abbozzò.
"Sì! Vuole tenerti vivo e abbastanza sano da distruggerti ancora e ancora, pezzo per pezzo!" Indicò di scatto il martello che il ragazzone stava osservando e tastando. "Non vedi? Il suo unico amore è quell'aggeggio".
"Oddio" rispose Dwayne con un filo di voce. "Oddio".
Si irrigidì come un paletto quando Mark, raddrizzatosi, lo spinse avanti.
"Vai. Devi conoscerlo anche tu".
"Sei matto?!" Dwayne cercò di arretrare, sperando che il gigante non l'avesse visto, ma Mark gli sbarrò la strada del sentiero e rispose: "Il tuo tempo è giunto, Houssain. Tutti i novellini passano per le mani di Robert Schiacciasassi. Forse l'avresti saputo, se solo avessi ascoltato Sandra".
Dopodiché anche lui, come sua sorella, gli diede le spalle e se ne andò di corsa, senza voltarsi indietro. Dwayne fece immediatamente per seguirlo, non gliene fregava niente di quella prova del fuoco, lui non voleva avere falangi scassate o rotule rotolanti per il Campo. Sarebbe corso da Sandra, si sarebbe gettato ai suoi piedi e le avrebbe baciato le scarpe in cerca di perdono.
Proprio un bel piano, davvero. Un gran bel piano. Peccato che una mano grande quanto un badile calò in quell'esatto istante sulla sua spalla e Dwayne fu certo di aver appena esalato l'anima.
"Hey. Cosa stai facendo qui?" domandò la voce profonda del famoso Rob.
Dwayne non rispose, paralizzato dalla paura. Non osò neanche voltarsi. Si limitò solo a farsi la pipì addosso e poi cadde a terra, facendo finta di essere morto. Dicevano che con gli orsi funzionava. Dwayne sperò che funzionasse anche con quell'energumeno.
"Oh no, un altro che sviene come Matthew".
Dwayne non sapeva chi fosse Matthew ma immaginò che fosse morto male.
Rob si tolse il pesante guanto di cuoio nero e si asciugò le mani in uno strofinaccio, chiedendosi come mai quel qualcuno fosse finito nelle fucine. Si passò la fronte e si spinse indietro i capelli appiccicati dal sudore.
"Sarà il caso di chiamare Sia" borbottò fra sé e sé, prendendo uno degli attizzatoi freddi e toccandogli lievemente il piede per capire se fosse davvero svenuto o meno.
Improvvisamente il forte odore di pipì gli urtò le narici e si ritrasse di colpo tappandosi il naso. Il fatto di non vederci aveva reso i suoi altri sensi più acuti e in questo particolare caso non era un bene.
Imprecò con parole che Sarah Hussain avrebbe probabilmente voluto lavare via dal cervello del figlio con l'acido muriatico e poi, sempre tenendo il naso tappato scavalcò il corpo apparentemente privo di sensi del ragazzino.
"SIA!" urlò il gigante a gran voce, facendo tremare il poveretto. "SIA! Vieni qui!"
Pochi secondi dopo un altro paio di scarpe comparve nel campo visivo di Dwayne. Delle sneakers grigie abbastanza consumate e delle caviglia pallide e grosse. Stava già immaginando una gemella pallida di Sandra Pera Orlando, quando la voce che parlò infranse la sua teoria. Una voce dolce, timida e accorta.
"Ma... E questo?!"
"Penso sia difettoso. Perde".
Dwayne divenne tutto rosso, ma rimase zitto. La vergogna sarebbe stata più facile da digerire che un paio di vertebre rotte.
Non aveva ancora capito che Mark, nascosto da qualche parte nell'erba alta, si era pisciato sotto allo stesso modo. Ma per un altro motivo.
"Così impari a non ascoltare Sandra".
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