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«Dunque, li hai portati?»
Marco estrasse i due abbozzi che aveva posato a terra prima dello spuntino offertogli dall'amico e li sollevò. Emilio li prese entrambi con un rispetto quasi riverenziale. Li contemplò per qualche istante, poi il suo volto di luna piena si aprì in un sorriso. «Eccellenti, semplicemente eccellenti! Riusciranno a far colpo sul Patronus, senza dubbio! Quando potrai iniziare?»
«Anche subito. Non c'è grande affollamento in bottega.»
Emilio lo fissò al di sotto delle folte sopracciglia ad ala di gabbiano che gli davano l'aspetto di una civetta curiosa. «Ancora difficoltà?»
«Non ricordo di averle mai viste finire.»
«Cosa dicono i tuoi assistenti?»
Marco fece spallucce, giocherellando col calice di Biblino che l'amico gli aveva messo a disposizione. «Cosa possono dire? Nutrono per me una devozione incredibile e sanno che non potrebbero trovare lavoro da nessun'altra parte. Mnesippo non può permettersi di stare disoccupato per via della famiglia, e Callisto...» Strinse le labbra in un'espressione di disappunto. «So che rimarrà con me finché la trireme non affonderà.»
Emilio considerò con una lunga, sorridente occhiata il bozzetto di pergamena steso sul tavolino. Raffigurava il suo patronus, Gaio Clinio Mecenate, circondato dalla sua schiera di protetti, tra cui Cornelio Gallo, Plozio Tucca, Valgio Rufo, Caio Melisso, Lucio Vario Rufo, Domizio Marso e i due novellini, Quintilio Varo e lui, Emilio Macro, intenti a discutere sulle ultime opere, sulle date propizie per le recitationes, sui vari accorgimenti stilistici e le modifiche da apporre alle neonate opere. Il bozzetto era piuttosto buono, ma Emilio sapeva che il suo amico, il più grande pictor di quei tempi, a suo dire, avrebbe saputo fare molto meglio una volta che avesse cominciato a dedicarsi alla parete del suo salotto, dove intendeva dare una magnifica cena in onore di Mecenate. Sapeva che quelle figure statiche ed inanimate avrebbero preso vita sotto il suo magico tocco. Sapeva che quella stanzetta di pietra sarebbe diventata più accogliente della vera sala messa a disposizione del circolo di scrittori da Mecenate, più chiassosa e reale di quanto quei pochi tratti in nerofumo lasciassero intendere. Ma sapeva anche che, a causa del suo perfezionismo, Marco non avrebbe completato l'opera se non in tre o quattro mesi.
«Sai, Cherea» gli disse ad un certo punto, «se solo ti decidessi a farti un po' di pubblicità...» Lo vide irrigidirsi e schiudere le labbra in una protesta, e sollevò una mano. «No, ascoltami. Il mio collega Rufo dà una recitatio per promuovere le sue Elegiae. Ci sarà Mecenate, naturalmente, e tutta la sua cricca. Se allestissi il fondale scenico, sono certo che lui potrebbe notare il tuo talento. L'ho sentito lamentarsi proprio l'altro giorno per la scarsità di valenti pictores al giorno d'oggi.»
«Non lavoro con i ricconi, Macro, e sai bene il perché.»
Emilio sorrise sotto i baffi. «Apuleia te la fa ancora pagare, eh?»
Quella ricca e pretenziosa matrona aveva commissionato a Marco un enorme affresco nella stanza dove il marito senatore riceveva i suoi clientes per la salutatio mattutina. Iniziata come un'opera piuttosto semplice, si era rivelata uno strumento di tortura. Dopo avergli fatto rimbiancare la parete per ben sette volte e modificare e aggiungere dettagli a non finire, Apuleia si era vista scortesemente congedata da un Marco spazientito. Lei lo aveva rincorso, strillando che non poteva lasciarla con una parete dipinta per metà. A quel punto, Marco aveva replicato con parole talmente irriverenti da lasciarla a bocca aperta. Ed era stato un vero peccato, perché da allora si era ritrovato chiuse le porte di tutti gli influenti amici di Apuleia e del marito senatore, costringendolo a lavorare per popolani poco abbienti, ma, a suo dire, molto più cortesi.
Il suo amico non batté ciglio, conservando la sua stoica espressione di indifferenza verso il mondo. Poi raccolse la sua sacca, alleggerita del peso del bozzetto e appesantita da un gruzzoletto di sesterzi, e sentenziò: «Verrò domattina con i miei assistenti verso l'ora quarta.»
Emilio sapeva che era irritato dalla sua uscita, ma in fondo, esisteva qualcosa che non lo irritasse? Spesso si chiedeva perché avesse fatto di un simile, ombroso individuo il suo migliore amico, ma la risposta giungeva solerte. Marco Cherea era l'uomo più leale, generoso e schietto che gli fosse mai capitato di incontrare. Non correva il pericolo, come invece con i suoi colleghi del Circolo, di sentirlo parlare male di lui alle proprie spalle, né si aspettava tiri mancini o crudeli voltafaccia. Marco faceva fatica a stringere amicizia con qualcuno - Emilio poteva annoverare sé stesso, il suo defunto fratello che era stato capo e patrono di Marco, la sorella di lui Marcella, la sua cuoca e nutrice Marzia e i due assistenti di bottega - ma quando lo faceva, era per sempre.
Si sforzò di non prenderlo in giro per la sua espressione corrucciata e per la fronte increspata. «Sarebbe meglio il tardo pomeriggio. Ho un appuntamento con Gallo e Melisso, quindi se non vuoi vedertela con mia moglie...»
«Ricevuto.»
Emilio si mise in piedi e si avvicinò al tavolo grande, versandosi una generosa dose di Biblino. «Speravo davvero che col tempo vi sareste abituati l'uno all'altro.»
«Senza offesa, Macro, ma io e la tua augusta moglie apparteniamo a due mondi diametralmente opposti. Abbiamo convinzioni e stili di vita molto diversi.»
«Ma siete accomunati dalla cattiva abitudine di reagire alle provocazioni.» Avrebbe voluto far cadere la questione, ma come sempre si scoprì in dovere di dire qualcosa in difesa della sua scontrosa e gelida moglie, l'unione con la quale Marco non aveva mai compreso né accettato. «So che Plozia può essere molto difficile, a volte...» Notando l'espressione battagliera dell'amico, sollevò la mano libera. «D'accordo, chiudiamo qui l'argomento. Ho una sorpresa per te.»
«Di che genere?» domandò Marco senza soverchio entusiasmo, accettando il secondo calice di vino.
«Come sei messo quanto a schiavi?»
«Ne ho anche troppi.»
«Mmmh.» Emilio lo osservò sorseggiare il Biblino, gli occhi socchiusi dal divertimento. «Marzia mi ha riferito diversamente, ma sai, con la tua abitudine di invitarmi tanto frequentemente nella tua abitazione non saprei davvero se darle credito.»
«Continua ad essere la tua infiltrata?» gli domandò Marco, con una smorfia.
«Preferisco considerarla un'affezionata amica di entrambi. Mi ha raccontato che stai avendo qualche attrito con la tua paelex greca.»
«Per usare un eufemismo» borbottò lui.
«Cos'è successo?»
Capendo che Emilio non lo avrebbe lasciato andare via tanto facilmente, Marco ritornò a sedere, spazzando via i morbidi cuscini in piuma d'oca. «Si è montata la testa, tutto qui.»
«Quindi la colpa è solo sua?»
Emilio sapeva che avrebbe capito l'implicita domanda. Dopo averlo osservato in silenzio, forse domandandosi se Emilio Macro non avesse sbagliato carriera, scegliendo di scrivere trattati di medicina invece di indagare l'animo delle persone, sbuffò: «È una disdetta che mi trascino dietro da quando ho l'età della coscienza.»
«Si è innamorata di te» concluse quindi Emilio, compatendo la sventurata.
«Pensi di trarne lo spunto per la tua nuova opera? Come sanare i cuori infranti?»
«È un sentiero morto» confessò Emilio, senza grande rammarico. «Mecenate mi ha fatto capire nei toni più cortesi possibili che se ci sarà qualcuno interessato ai Theriaca sarà un erborista pazzo o un medico truffaldino. A nessuno importa come curare i morsi dei serpenti, specie se i Greci ci sono arrivati prima di noi. Ma torniamo alla mia schiava. Si chiama Gala. Non so molto di lei anche se è con noi da quasi un anno. Non è una che parla a vanvera. È molto riservata, perfetta per un orso scontento come te.»
Marco scolò d'un sorso il suo calice. «Grazie per l'offerta, ma come ben sai non ho liquidi da investire nell'ampliamento della mia familia né ho alcun interesse a farlo.»
«Te la voglio regalare, Cherea» spiegò paziente Emilio, ben sapendo quanto Marco detestasse la 'beneficenza', come lui chiamava i regali spontanei, specialmente quando il pensiero che li aveva mossi non aveva alcuno scopo percepibile. «Prendilo come un tardivo dono di compleanno. Non troverai ancella migliore di lei, puoi starne certo.»
«Allora perché vuoi cedermela? Non dirmi che è puro spirito di generosità.»
«Diciamo che il rapporto che la lega a mia moglie non è... non è dei migliori.»
«Mi stupirebbe sentirti dire il contrario. È gelosa delle attenzioni che le riservi?»
«No, ma cos'hai capito! Lei è solo una sguattera, non una paelex. Per questo c'è la mia Corinna, e Plozia non la tratta neanche lontanamente male come tratta Gala.»
«Per quale motivo?»
Emilio si strinse nelle spalle, sorridendo. «La testa di una donna è piena di misteri e contraddizioni. Non mi sono mai azzardato a setacciarla in cerca di risposte.» Congiunse le punte delle dita, inarcando le sopracciglia. «Allora, che ne dici?»
Marco aveva fissato la sua attenzione nel contenuto vermiglio del calice ancora intatto dell'amico. Emilio glielo tese, ma lui non lo accettò, costringendolo a ritirare la mano e a bere, mentre una risata gli gorgogliava nel fondo della gola. Lo adorava quando metteva il broncio. Era come avere a che fare con un bambino orgoglioso che non accetta che qualcuno si preoccupi per lui e si ritiene abbastanza grande per cavarsela per conto proprio.
«Cosa sa fare?» si arrese a chiedere infine Marco, con evidente malavoglia.
Emilio aveva previsto quella domanda, e si era preparato a sorprenderlo. «Parla correntemente latino e greco e i dialetti del Ponto Eusino. Sa leggere, scrivere e fare di conto, ha una voce meravigliosa e mani capaci di sciogliere ogni tensione dalle tue spalle, oltre che suonare abilmente aulos e cetra. Ma la sua qualità migliore devi vederla con i tuoi occhi.»
Non un brillio di entusiasmo colorò gli occhi in questione, non un fremito di passione gli mosse le labbra. «Deve essere piuttosto attempata per aver sviluppato tutte queste qualità.»
«È semplicemente cresciuta in una buona famiglia, che le ha garantito un certo livello di istruzione. Vuoi che te la faccia preparare?»
Marco rimase in silenzio, pensieroso. Non era da lui ponderare in quel modo una decisione. Solitamente agiva per impulso. Emilio sentiva che non aveva alcun interesse a vedere la sua schiava, ma che si sentiva in obbligo, per non ferire l'amico. Tutto questo glielo comunicò il suo sospiro di riluttanza, quando rispose: «No. Voglio vederla com'è davvero, non tutta unta di olio, col viso imbellettato e i capelli cosparsi di polvere d'oro.»
Emilio si mise in piedi, con un sorrisetto. «Accorgimenti superflui, per lei.»
Non rispose allo sguardo interrogativo dell'amico e scomparve oltre la soglia, proprio mentre la porta del cubiculum di sua figlia Celia si richiudeva alle spalle di sua moglie, che stringeva con ferocia un polso di Gala. Quando vide il marito, si fermò e gli rivolse uno sguardo che lo sfidava a togliergliela di mano. «Cosa succede, Plozia?»
«Succede che questa sguattera tiranneggia tua figlia, Emilio» sibilò la donna. «Le parla in confidenza, aizzandola contro la morale e i principi di una buona matrona. È arrivata fino al punto di screditare me ed Emiliana! Ti rendi conto della gravità della cosa? Ora sta per ricevere la punizione che merita e ti giuro che questa volta non sarò tenera.»
Emilio guardò la schiava, che teneva gli occhi fissi a terra, come faceva sempre in sua presenza. Trovava la sua ritrosia e pudicizia molto stuzzicante, e ben si addiceva al suo aspetto minuto da bambina. «È vero, Gala?»
Plozia si infuriò. «E non chiamarla per nome! È una schiava, Emilio, un dannato relitto della società! Non è una ragazza. Non è Gala. Gala è un nome da persona libera, renditene conto!»
«Calmati, Plozia, stai diventando ridicola. E abbassa la voce. Ricordati che abbiamo ospiti.»
«Non fa nulla. Mi divertono le scenette familiari.»
I coniugi si voltarono verso Marco, che si era avvicinato senza fare alcun rumore. Plozia gli lanciò uno sguardo freddo, cui lui rispose con altrettanta cortesia. «Kyria Plozia» fecero le sue labbra, che tornarono a sigillarsi subito dopo.
Plozia fece un brevissimo, scontento cenno col capo che voleva essere un amichevole inchino ed Emilio cercò di stemperare la tensione indicando la schiava con un dito. «Ecco. È lei quella di cui ti parlavo.»
Gala sentì tre paia di occhi fissarsi su di lei e si fece rossa, mantenendo gli occhi puntati a terra.
«Cosa gli hai detto su questa schiava?» domandò Plozia.
«Ho elencato al nostro illustre ospite i vantaggi che ricaverebbe se la prendesse.»
Plozia socchiuse le labbra. «Stai dicendo che... vorresti vendergliela? Senza prima consigliarti con me?»
«Regalargliela, in realtà. Un pensiero per il suo compleanno.»
Plozia lo trafisse con lo sguardo, e se ne fosse stata in grado, pensava Emilio, lo avrebbe ammazzato. Per un istante pensò addirittura che avrebbe osato schiaffeggiarlo di fronte a Cherea. Invece, raccogliendo tutta la dignità, lasciò il polso della schiava e si allontanò a passo affrettato e mento sollevato. Emilio rivolse un sorriso di scusa all'amico, ma lo vide intento ad esaminare Gala.
La ragazza teneva il capo chino, il viso nascosto da un groviglio di capelli corvini. Aveva una corporatura esile e minuta, con un'altezza che non avrebbe superato quella delle sue spalle neanche se si fosse raddrizzata, pensò Marco, prima di rivolgersi ad Emilio, senza guardarlo: «Senti, Macro, potresti andarmi a prendere un bicchiere di Biblino?»
Emilio ubbidì e si allontanò solerte, senza premurarsi di aggiungere il solito commento sul fatto che tutto quel bere non potesse arrecargli che danni.
Una volta soli, Marco tese un braccio verso la ragazza, sollevandole il mento per guardarla in faccia. Era sporca, con la pelle chiazzata qua e là di fuliggine, i capelli arruffati e brutte occhiaie, ma Marco si rese conto di trovarsi di fronte a qualcosa di speciale. Lui era un artista, sapeva cogliere l'essenza delle figure. E aveva colto la sua.
I suoi grandi occhi, di cui non riusciva a vedere il colore, dal momento che li teneva abbassati, spiccavano nel volto a cuore, in quel momento rosso e rovente. Le lunghe ciglia scure si arrotolavano sulla punta e ombreggiavano zigomi talmente pronunciati che Marco si domandò se non provenisse da qualche provincia romana dell'Africa. Il naso era dritto e sottile, la bocca piccola, le labbra delicate e rosee, le sopracciglia folte e arcuate. Nonostante l'inquietante magrezza del fisico, le guance erano piacevolmente piene e sovrastavano una mascella dalla linea delicata.
Sentendola tremare nella sua stretta, la lasciò, e la cascata di capelli tornò a ricoprirle il viso, come cortine che calano a nascondere i mimi in teatro.
Accettò il calice di vino rosso offertogli dall'amico appena sopraggiunto e lo sorseggiò pensieroso, prima di limitarsi a dire: «D'accordo.»
Quello sospirò di sollievo, asciugandosi del sudore immaginario. «Giove ti ringrazio! Cominciavo già a riflettere sulle possibili punizioni che Plozia avrebbe potuto infliggerle sapendo che avevi anche solo preso in considerazione di andartene con la sua vittima prediletta.»
Emilio tese il braccio e Marco lo strinse. «Ora sarebbe meglio che mi facessi dare un'occhiata al salotto» disse Marco, del tutto dimentico della nuova schiava. «Per stabilire le giuste proporzioni. Così domani posso già iniziare a dare la prima mano...»
La sua voce si perse in lontananza e Gala rimase sola, accanto all'impluvium, mentre la disperazione minacciava di sopraffarla. Non avrebbe mai pensato che una cosa del genere sarebbe successa a lei. Molte delle schiave con le quali si era ritrovata a condividere il carro del mercante avevano subito quella fine, e lei le aveva amaramente compiante. Avevano un aria talmente afflitta, mentre si facevano esaminare dagli uomini, che Gala non era riuscita a trattenere un sospiro di sollievo quando era stata affidata ad Emilio Macro. Anche lui l'aveva esaminata, ma non come avevano fatto molti altri. Non come paelex.
Le gambe iniziarono a tremare ma non poteva sedersi. Non poteva fare nulla senza permesso nella casa di Plozia. Si costrinse a stare in piedi, sebbene provasse un vago senso di nausea e la testa avesse iniziato a girare come una trottola. Non aveva dubbi sul perché quell'uomo desiderasse comprarla. Non le aveva chiesto nulla. L'aveva squadrata da capo a piedi, stringendole il mento per impedirle di nascondersi come lei avrebbe tanto desiderato, e Gala si era sentita più nuda di quando era stata esposta nella piattaforma al mercato.
Una voce la chiamò per nome. Gala si voltò e vide Celia venirle incontro. «Stai bene?» La ragazza annuì e Celia sorrise, come se si fosse tolta un peso dal cuore. «Sai dov'è mia madre?»
«Si è diretta alle sue stanze, domina.»
Celia fece per oltrepassarla quando la sorella maggiore la bloccò, passandole un braccio attorno alle spalle. «Hai detto addio alla tua schiavetta preferita?»
«Vai da qualche parte?» domandò Celia sorpresa.
Gala non rispose, continuando a fissare il pavimento.
«Certo che sì» rispose al suo posto Emiliana, con un ghigno. «Diventerà la sgualdrina di Cherea.» Gala arrossì e la padrona lo notò. «Dai, non fare tanto l'innocentina. Non lo sarai più tra qualche giorno.»
Celia aggrottò la fronte. «Evita di parlare in questo modo. Comunque io non sono d'accordo. Gala è la mia ancella. Non possono portarmela via come se niente fosse!»
«Prova a parlargli, ma non credo servirà a molto. Marco Cherea» e sciorinò quel nome come se stesse gustando una frittella al miele, «l'ha già vista e approvata.» Spostò lo sguardo su Gala. «Gli sei piaciuta subito, sai? Ti ha osservata come se ti immaginasse già nuda nel suo letto.»
«Emiliana!» esclamò Celia, mentre Gala si faceva rovente come quando lui le aveva sollevato il mento, desiderando sprofondare... o magari annegare nell'impluvium, se solo fosse stato possibile annegare in meno di un piede d'acqua.
«Non scandalizzarti, sorellina. Credi che non sappia che tu pensi a queste cose esattamente quanto ci penso io, se non di più?»
A questo punto toccò alla sorella arrossire, di rabbia più che di vergogna. «Dovresti vergognarti. Se solo ti sentisse tata...»
«Smettila di tirarlo in ballo in ogni discussione!» scoppiò all'improvviso Emiliana, spingendola via. «Adesso non stiamo parlando di lui!»
«E di cosa stiamo parlando, allora, se non del fatto che...»
«Sei solo gelosa perché sei la preferita di papà e non di mamma.»
«Non stiamo parlando della mamma!» gridò Celia, rossa in volto. «Sei tu ad essere invidiosa! Quando parli, tata non ti prende mai in considerazione, perché ormai è abituato a sentirti dire solo sciocchezze. Quando parlo io, invece...»
«Sì, non c'è bisogno che me lo fai notare. Lo so che prende per oro colato ogni parola che esce da quella tua bocca insulsa.»
«I miei discorsi valgono quanto la toga del princeps in confronto ai tuoi! Se è vero che le parole sono la voce della mente, allora la tua deve essere piena di ragnatele.»
«Ma senti chi parla! La mocciosa più popolare di Roma! Se tu sei tanto brava, com'è che ti trovi ancora senza marito? O forse hai già provato a farti conoscere da qualcuno?»
«Abbassa lo specchio e parla con me, Emiliana.»
L'interessata spalancò la bocca, interdetta di fronte all'ardire della sua timida sorellina. «Cagna!» sbraitò poi.
«Serpe!»
Le due si scagliarono l'una contro l'altra, in una zuffa fatta di morsi, graffi e tirate di capelli. Emiliana, la più robusta delle sorelle, ci andava giù pesante, mentre Celia urlava e si dibatteva, prima per rispondere ai colpi, poi per proteggersi da quelli della sorella maggiore.
Gala non esitò. Dimenticando la sua condizione, afferrò Celia per un braccio, allontanando Emiliana con uno spintone, e riuscì a portarla in salvo, dietro di sé. Emiliana, furiosa le si scaraventò addosso. Gala l'aveva preso in considerazione, ma aveva sottovalutato la sua velocità. Fece appena in tempo a spostare Celia fuori dalla sua traiettoria che venne catapultata a terra.
La testa batté con forza sul marmo, ma non le fece male quanto le mani della padrona che le tiravano i capelli e le graffiavano le guance. Poi Gala intravide un luccichio in quei crudeli occhi chiari e, mentre un sorriso le distorceva la bocca, Emiliana serrò le mani attorno al suo collo.
E premette. Premette.
Gala si sentì mozzare il respiro. Le unghie di Emiliana le scalfivano la gola. Gala non provò ad attaccarla, ma cercò di strisciare via. Una cosa era mettere le mani addosso a un cittadino libero per salvarne un altro, un'altra era aggredire per difesa personale. Questo non le era consentito. Lei era una schiava e i suoi padroni, volendo, avrebbero potuto ucciderla in qualsiasi momento.
Quando vide il dramma che si stava consumando davanti ai suoi occhi, Celia balzò con un pigolio sulla sorella, afferrandola per la vita e cercando di spostarla.
Mentre il mondo iniziava ad appannarsi, l'istinto di sopravvivenza ebbe la meglio e Gala, rantolando, artigliò le mani candide di Emiliana che in risposta premette ancora più forte. Gala cercò di respirare ma le era impossibile.
«Emiliana!»
La ragazza improvvisamente si allontanò da lei e iniziò a ruotare su sé stessa nel tentativo di mantenere l'equilibrio, ma cadde all'indietro con un'esclamazione sorpresa, colpendo la sorella minore e trascinandola con sé, in un fracasso di vetri infranti e strilli acuti.
Gala inalò più aria possibile, tossendo, e si portò una mano alla gola in fiamme. Mentre la nebbia pian piano iniziava a dissolversi, percepì una mano che si posava dietro la sua nuca e gliela sollevava.
Quando la foschia svanì, Gala riuscì a mettere a fuoco il viso che la stava fissando. Era il viso di un uomo. Di quell'uomo. Dell'uomo per cui Celia aveva una cotta. E tutt'un tratto, ne capiva perfettamente il motivo.
Gala lo osservò con le labbra socchiuse, dimenticando tosse e dolore. La fronte ampia e spaziosa era parzialmente coperta da un ciuffo di folti capelli neri. Il naso aquilino, che preso singolarmente sarebbe parso imponente e minaccioso, era sistemato con naturale eleganza tra zigomi poco pronunciati e labbra dalla splendida linea.
Spostò lo sguardo sui suoi occhi e provò un brivido, perché non aveva mai visto nulla di simile. Erano del colore dell'ambra, luminosi e solari, il colore delle iridi dei felini. Erano gli occhi dorati di un leone, un predatore, un cacciatore di vittime che, come lei, ne restavano ipnotizzati.
Gala si tirò indietro e percepì il tocco tiepido della mano di quello sconosciuto premere contro la sua nuca. Lui, forse percependo la sua paura, si mise piedi, facendola restare senza fiato. La sua altezza era impressionante non meno della sua figura. Le braccia muscolose spuntavano dal tessuto di una dalmatica blu marino, al di sotto della quale lei poteva intravedere la larghezza di un paio di spalle che avrebbero fatto concorrenza con quelle di molti energici gladiatori, dai quali li divideva il fisico asciutto anziché imponente.
Celia le si avvicinò, senza toccarla, per timore di venire giudicata male, ma osservandola ansiosa e gettando di quando in quando un'occhiata all'uomo, parziale responsabile delle chiazze rosse che le invadevano viso, collo e spalle.
Gala si alzò sulle gambe tremanti, spazzolandosi la tunica lacera e cercando al contempo di sistemare i capelli, sfuggiti dallo sporco fazzoletto che li tratteneva quando Plozia si era messa a strattonarla. Distrattamente, si passò una mano sulle guance e quando la ritrasse era sporca di rosso.
Marco Cherea si rivolse ad Emilio, che aveva appena spedito la figlia maggiore nel suo cubiculum con uno scapaccione. «Hai un linteum?»
Emilio annuì, e si allontanò. Gala vedeva bene che era furibondo. Fu di ritorno poco dopo con l'oggetto richiesto. L'ospite lo prese e le si avvicinò. Gala lo fissò impaurita come un animale appena braccato. L'uomo rimase fermo davanti a lei per qualche secondo. Infine le porse lo straccio e si voltò verso Celia. «Cos'è successo?»
«Una zuffa con mia sorella, signore» mormorò Celia, arrossendo e tenendo gli occhi bassi. «Gala... questa ancella... ha cercato di dividerci quando ha visto che non sarei riuscita a difendermi. È sempre stata Emiliana, quella forte.» Fece una risatina che si concluse in un raglio, poi guardò alternativamente Gala, che come lei teneva gli occhi bassi, e suo padre che, al fianco di Cherea, la guardava con disapprovazione, le labbra serrate in una linea invisibile. «Perdonami, tata, se ti ho deluso.»
Emilio serrò le mascelle. «Sì, Celia, tu e tua sorella mi avete deluso, ma è stato il tuo comportamento insensato a ferirmi di più, oltre a mettere nei guai Gala. So di avertela regalata come premio per la tua bravura nella matematica, ma ora mi chiedo se tu ti possa meritare un dono del genere. E la risposta a cui sono giunto è no. Perciò ora salutala, perché non la rivedrai più. È venduta.»
Gli occhi di Celia si riempirono di lacrime. Sapeva che quello del padre era solamente un pretesto per lasciare andare via la schiava, ma si sentiva profondamente amareggiata e piena di senso di colpa. Alzò gli occhi sul padre e cercò un qualche segnale di un possibile cedimento. Se anche ne avesse trovato uno, lo sguardo che gettò su Cherea fece morire le sue speranze. Osservava il capo chino di Gala e Celia era certa che nulla, né le lacrime né le suppliche, avrebbero potuto distoglierlo dal suo proposito.
Così si voltò verso la sua ancella perduta e le mise le mani sulle spalle. Gala sollevò lo sguardo quando riconobbe quel tocco gentile. Erano tante le cose che avrebbe voluto dirle, le scuse che avrebbe dovuto farle e i ringraziamenti che si sarebbe meritata, ma nulla di tutto questo uscì dalle sue labbra. Reprimendo un singhiozzo, deglutì. «Addio, Gala. Spero che starai bene, ovunque andrai.»
Gala si accorse con disappunto di non essere insensibile alle lacrime che scorrevano sul volto sgraziato della fanciulla, ma ordinò a sé stessa di non mettersi a piangere, soprattutto davanti al suo nuovo padrone. Non voleva che si facesse un'opinione sbagliata su di lei, che la considerasse una debole ragazzina facile alle lacrime.
Celia si voltò verso il padre. «Vado nella mia camera, se hai bisogno di me.»
Emilio annuì, consapevole della penosa situazione che la figlia stava vivendo. Gala non era stata solo la sua ancella prediletta. Era stata anche una sua amica e preziosa confidente. Mentre correva via, le labbra serrate e i pugni contratti, Emilio si rivolse a Gala. «Va' a preparare i tuoi bagagli.» Fintanto che si allontanava, si rivolse al suo amico, e notò con piacere che aveva seguito la ragazza con lo sguardo. Forse Marco Cherea non era proprio un caso senza speranza, pensò soddisfatto. «Spero mi vorrai fare l'onore di rimanere per cena, questa sera.»
Era una domanda di rito. Sapeva che non avrebbe mai accettato di pranzare alla stessa tavola di Plozia, specie dopo quanto era accaduto.
«Ti ringrazio, ma no. Ho alcune questioni urgenti da sbrigare.»
Emilio ne dubitava, almeno stando a sentire Marzia, ma non insistette. Era meglio lasciar calmare le acque, prima. Lo scortò fino alle fauces, e da lì in strada. Il sole del tardo pomeriggio riversava sulla terra una tenue luce arancio e gli alberi di mirto proiettavano ombre cupe sulle mura in mattoni grigi della domus.
Emilio chiamò un giovane che si aggirava nel giardino con un cesto in mano, perché preparasse il cavallo di Marco. Non c'era verso di far capire al suo amico che stava sfidando l'ira di Giulio Cesare e le sue leggi sul traffico. Cavalcare era la cosa che gli piaceva di più, dopo la pittura, e avrebbe ben corso il rischio di pagare una multa pur di starsene qualche minuto in pace sul suo Aliseo.
«Hai pensato a cosa intendi farne di lei?»
Marco aggrottò la fronte, perché con la mente era già altrove. Emilio aveva notato che in quei mesi era molto più distratto e cupo del solito e si domandò se i timori di Marzia non fossero affatto esagerati come lui aveva creduto. Inoltre, conosceva bene la stima che quella donna aveva per il suo padrone. L'aveva visto nascere, ne era stata la balia, l'aveva stretto al seno quando era mancata sua madre e l'aveva seguito dopo la separazione dal padre. Era lecito che si preoccupasse, ma non era il tipo da drammatizzare una sciocchezza.
«Mi stai chiedendo se intendo venderla? Non penso. Dopotutto è un tuo regalo e dalle meraviglie che mi hai decantato su di lei, sarei un pazzo se volessi privarmi di una simile rarità.»
Emilio ignorò il pungente sarcasmo delle sue parole, perché in quel momento stavano giungendo sia Aliseo, splendido ed orgoglioso nel suo mantello grigio perlaceo, le zampe lunghe e vibranti di salute e gioventù, che la piccola Gala, che avanzava con il suo misero fagotto tra le braccia. Emilio le sorrise. «Spero che tu non sia in collera con me per questo improvviso cambiamento.»
Sorpresa, Gala osò sollevare lo sguardo sull'uomo. «Domine, non oserei mai serbarvi rancore! Siete stato fin troppo buono nei miei riguardi. Non dimenticherò mai voi e la vostra famiglia.»
Mettendole una mano sulle spalle, Emilio la guidò verso il suo amico, che attendeva in sella. Dopo un rapido scambio di saluti, Marco diede di sprone al cavallo. Gala attese che la superasse di qualche passo, poi lo seguì, tenendosi vicina alla groppa dell'animale. Ben presto si lasciarono la domus di Emilio Macro alle spalle e con essa anche un pezzo della sua vita.
Emilio li guardò allontanarsi, i pollici infilati sotto le ascelle, domandandosi se non avesse agito con troppa leggerezza. Ci volevano tempo e pazienza per abituarsi ad un uomo come Marco. Lui stesso ci aveva impiegato quasi dieci anni e ancora rimaneva scosso e infastidito da certi suoi atteggiamenti. Gala era una bambina dolce come poche. Sperò di non aver commesso l'errore peggiore della sua vita, affidandola nelle mani di Marco Cherea.
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Spero non vi siate fatti scoraggiare dalla lunghezza del capitolo ;)
Fu così che una schiava venne regalata ad un nuovo padrone... e tutto ebbe inizio.
Si delineano già la cattiveria di Plozia, il carattere arrogante e sarcastico di Marco, la bontà d'animo e la lealtà di Gala.
Un altro piccolo regalo per i miei grandi amici lettori. Stringete i denti, manca poco al cartaceo! E in pochi giorni vi mostrerò anche la copertina ufficiale...
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