Ⅳ. Una stanza al Lasya Malothra
Le strade del centro erano del tutto irrespirabili a quell'ora, cariche di sole e di folla come solo Asoya poteva essere durante la mattinata. Un ragazzino che trasportava una gerla carica di pane le imprecò contro mentre si chinava a raccogliere le pagnotte che Celeria aveva buttato a terra urtandolo.
«Mi dispiace,» gli gridò, ma non sembrò avere un grande effetto pacificatore. Del resto, era difficile rimanere composti con tutto quel caldo che appiccicava i vestiti alla pelle e bruciava gli occhi. Lanciò l'ennesimo sguardo sconsolato al signor Gardot, che non pareva troppo contento dell'interruzione del loro cammino. Era stretto nel suo soprabito blu scuro foderato di pelliccia, e lei rischiava un colpo di calore solo a guardarlo. I numerosi strati degli abiti Eistreti avevano forse senso nel clima più aspro della loro patria, ma ad Asoya era come cercare una sentenza di morte.
«Ma non avete caldo?» ansimò, evitando una signora carica di buste di verdure. Lui sorrise.
«Per l'ennesima volta, signorina Dherafern, io sto benissimo. Voi avete l'aspetto di una che sta per svenire, piuttosto.»
Celeria avrebbe voluto obiettare, ma non trovava nessuna argomentazione. Da quando si era ammalata le temperature erano diventate davvero insostenibili, forse perché lei era rimasta indebolita, o forse perché faceva più caldo e basta. Non riusciva a capire come il signor Gardot, che fondamentalmente era uno straniero, riuscisse a sopravvivere con quel cappotto addosso. Per la Dea, se quell'uomo era strano.
Il giovane espirò un'ampia voluta di fumo verdastro. Voleva farla star male sul serio, se al sole cocente aggiungeva quell'odore rivoltante.
«Mi dite dove stiamo andando?»
Sapeva di suonare come una bambina lamentosa, ma credeva anche di averne il diritto. Il signor Gardot l'aveva svegliata quella mattina senza il minimo riguardo per il suo presupposto stato di malattia e l'aveva trascinata fuori senza troppe spiegazioni. E ogni volta che aveva fatto domande sulla loro destinazione, lui aveva sbuffato e le aveva detto «Dopo.».
Perciò, quando percepì che stava per ottenere la stessa risposta, smise subito di camminare e lo strattonò per un braccio.
«Giuro che se non me lo dite adesso mi metto ad urlare che state cercando di rapirmi.»
Il signor Gardot alzò gli occhi al cielo.
«Sono seria,» disse, trattenendolo quando cercò di riprendere la strada. Non sarebbe comunque servito mettersi a urlare per causare loro dei problemi, dato che più intralciavano il traffico, più iniziavano a ricevere occhiate in tralice e commenti sprezzanti soffiati sottovoce. Lui scosse la testa.
«Stiamo andando,» disse, ed estrasse dalla tasca un pezzo di carta stropicciato, «alla clinica per bambini Lasya Malothra.»
Celeria corrugò la fronte. Avrebbe desiderato sapere che il suo primo pensiero fosse chiedersi il motivo di una tale destinazione, ma invece l'unica cosa che le venne in mente fu che per arrivarci avrebbero potuto prendere il treno ed evitarsi tutta quella strada sotto il sole. Poi le giunse la domanda giusta, e fece per aprire bocca, ma il signor Gardot le fece segno di tacere con un cenno talmente secco da farla ammutolire.
«Non con tutte queste persone intorno. Fidatevi di me, signorina Dherafern, non vi sto facendo camminare per nulla.»
In realtà sì, pensò, ma tacque. Lungi da lei sopravvalutare il suo nuovo collega e arrivare a pensare che c'era una ragione anche per quello, ma per salire sul treno avrebbero dovuto compilare il registro d'entrata, e forse non era l'idea migliore per due persone che volevano passare inosservate. Ma anche andarsene in giro con un cappotto foderato di pelliccia non rientrava esattamente nei modi più efficaci per non farsi notare.
Le suole dei suoi stivali avevano iniziato a bruciare sul serio quando arrivarono, e Celeria dimenticò le vesciche che di sicuro le sarebbero spuntate non appena vide gli alti cancelli battuti della clinica. Tutto quel viavai di folla la metteva ancora più a disagio di quello del mercato. Gli sguardi devastati di genitori che se ne andavano via senza i loro figli, gli strilli acuti di bambini che venivano trascinati verso l'ingresso reggendosi a malapena in piedi e quelli che invece saltellavano allegri tenendo la madre per mano combattevano gli uni contro gli altri in una visione confusa e terribile. L'aria bollente parve raffreddarsi all'ombra di quei cancelli spalancati come una bocca a inghiottirli tutti.
Si voltò verso il signor Gardot. Osservava la scena senza la consapevolezza di essere guardato ed era... diverso da qualsiasi volto gli avesse visto indossare quella mattina. Durante il loro tragitto non aveva fatto altro che oscillare tra quell'arroganza beffarda che aveva mostrato anche il giorno prima e un inspiegabile silenzio in cui sembrava nulla fosse importante se non la strada davanti a sé, ma in quel momento, no. In quel momento aveva la fronte aggrottata e le labbra piegate in una smorfia stretta, come se assistere a quel dolore lo facesse star male fisicamente a sua volta.
Fu solo un attimo, però. Si rese conto dei suoi occhi su di lui e si riscosse tossicchiando, con un'aria appena imbarazzata, come se l'avesse colto sul fatto in una situazione compromettente invece che in una manifestazione di sincera empatia.
«Non volete sapere perché siamo qui? »
Celeria sussultò. Si era, tra la camminata estenuante e la visione che aveva di fronte e quella strana reazione del signor Gardot, quasi dimenticata del motivo per cui era uscita quella mattina.
Annuì con vigore.
«Sì. Sì, certo.»
Lui si guardò in giro – per assicurarsi che nessuno li stesse ascoltando, forse – poi si voltò verso di lei. Il suo tono di voce era fin troppo serio quando parlò, appena più forte di un sussurro.
«In questa clinica,» un uomo si diresse di corsa verso l'ingresso, urtandolo con la spalla. Il signor Gardot barcollò all'indietro come se l'avessero travolto in pieno, e Celeria gli offrì il braccio per evitare che cadesse. Non pensava che la spinta fosse stata così forte.
Le rivolse un sorriso non del tutto allegro.
«Grazie. Dunque. In questa clinica si trova la figlia della parlamentare Dhavale.»
Pensò di non aver capito bene. Erano morti tutti. Avevano fatto un funerale di stato ed era stato orribile. Orribile, con la gente che si strappava i capelli e piangeva il membro del parlamento forse più amato, dopo suo padre. Ovviamente.
«Come? »
Il signor Gardot lanciò un'altra occhiata alle sue spalle. Abbassò ancora di più la voce, tanto che dovette avvicinarsi per sentirlo.
«A quanto pare, l'attacco non ha ucciso proprio tutti quanti. Non si sa come, o perché, ma l'unica sopravvissuta è... una bambina. Una bambina che ora si trova in quella clinica, sotto stretta sorveglianza, in segreto.»
Celeria sgranò gli occhi.
«E che sa come sono andate le cose, minuto per minuto,» mormorò.
Per la prima volta, vide il viso del giovane aperto in un sorriso soddisfatto. Sorrise anche lei, quasi di riflesso, anche se non voleva manifestare alcun apprezzamento nei suoi confronti. Era comunque un cultore del Caos, e malgrado le parole di suo padre, Celeria non era del tutto convinta dell'affidabilità di una persona del genere.
«Vedete, signorina Dherafern, noi iniziamo a capirci,» disse lui allegro. A quanto pare non vedeva un gran problema nelle loro differenze ideologiche, e il modo irritante in cui le si era rivolto era, sospettava, dettato semplicemente dall'opinione altissima che sembrava avere di se stesso.
Contento lui.
«Così pare,» replicò, non molto genuina.
Il signor Gardot iniziò a farsi strada tra la folla con velocità, e Celeria dovette corrergli dietro per evitare di perderlo di vista. Sbuffò. Non era come il mercato, dove a nessuno importava più di tanto di scontrarsi o meno; doveva stare attenta ai suoi passi, qui, o avrebbe potuto far male a qualcuno.
Lui, pensò, avrebbe dovuto curarsi di farle tenere il passo e di restare sempre a portata d'orecchio. Lavoravano insieme, dopotutto, anche se sapeva benissimo di non essere granché utile alla causa. Il pensiero che suo padre l'avesse impiegata in un compito inutile per tenerla lontana dal dipartimento la tormentava. Le dava un contentino e in realtà la mandava ad affrontare qualcosa che forse non esisteva, e che di sicuro lei non poteva risolvere. Al dipartimento, certo, non avrebbero fatto altro che relegarla a incarichi minori e guardarla dall'alto in basso ritenendola una ragazzina viziata, ma almeno lì aveva un'occasione per provare se stessa, un'occasione per risalire. Suo padre non avrebbe mai cambiato idea su di lei.
Non la prendeva sul serio, e perché, poi? Mai aveva fatto qualcosa di male. Quando era piccola frignava spesso e si spaventava ancora più spesso, ma adesso era cresciuta e aveva bisogno di fare esperienza da sola, senza il costante occhio di riguardo di suo padre che la ostacolava in ogni cosa.
L'interno della clinica era affollato tanto quanto l'esterno, e ciò le permise di sviluppare la pia illusione che nessuno si sarebbe accorto di loro.
Ovviamente, qualcuno si accorse subito di loro.
Una giovane donna vestita del verde dell'ospedale si avvicinò a piccoli passetti ordinati. Sulla giacca era ricamato, in un verde un po' più scuro, il nome Versha, che Celeria suppose fosse il suo e poi, appena più sotto, accettazione.
«Miei cari signori,» si rivolse loro in un tono dolce e modulato – impostato, certo, ma pur sempre piacevole, «posso aiutarvi in qualche modo?»
Notò che il velo le incorniciava in modo molto grazioso il suo viso olivastro, e che i suoi occhi avevano un taglio particolare, quasi Quiteh. Notò anche che sorrideva smagliante al signor Gardot. Oh.
«Noi, eh... ecco...» balbettò, rendendosi subito conto che non avevano preparato alcuna scusa per poter entrare lì. Ci volevano delle autorizzazioni speciali, qualche certificazione da ottenere prima di poter visitare i pazienti? Quella paziente, in particolare, doveva essere per forza difficile da raggiungere. Non si sapeva nemmeno che era ancora viva, era impossibile semplicemente andare lì e chiedere di vederla. Che grandissimi idioti, tutti e due. Si voltò verso il signor Gardot, gli occhi spalancati in una richiesta d'aiuto.
Lui volse lo sguardo al cielo, poi si rivolse alla giovane donna con un sorriso cortese. Celeria lo maledì.
«Buongiorno a voi,» mormorò, la voce bassa e suadente «Mi chiamo Liev Gardot. Mi sono trovato nell'infelice situazione di dover subentrare a Sadhana Dhavale come parlamentare, e – »
Se avesse potuto, gli avrebbe pestato un piede con tutta la forza che aveva in corpo, ma vista la punta degli stivali rinforzata in metallo, era probabile che si sarebbe fatta male più lei di lui, oltre a offrire una scena pietosa. Si limitò a lanciargli un'occhiataccia che non notò, e che non ebbe alcun risultato.
«E la ragazza di fianco a me, lei è Celeria Dherafern.»
Di male in peggio; la giovane dell'ospedale sgranò gli occhi, come se finalmente avesse collegato tutte le informazioni dopo averla guardata con più attenzione. Celeria era consapevole di poter passare inosservata, in abiti civili. Non aveva un viso che spiccava e non era apparsa così tante volte in pubblico, ma somigliava a suo padre, e questo era visibile a chiunque le dedicasse un secondo sguardo. Ora mi guarda, pensò amareggiata.
«Signori,» bisbigliò la ragazza di nuovo, con gli occhi che brillavano di emozione, «io non... capisco. Come posso esservi d'aiuto?»
Il signor Gardot sorrise di nuovo. Celeria si sentì avvampare dalla rabbia; a quanto pareva, la parola discrezione non rientrava nel suo vocabolario, e aveva appena mandato tutto in fumo. Avrebbe tanto voluto sapere che cosa, per la Dea, gli passasse per la testa, disobbedire ad ordini diretti del presidente. Scosse la testa.
«Ci è giunta voce che fosse ricoverata qui la piccola Aasmi Dhavale. Ci piacerebbe incontrarla, ed io... penso che sia mio dovere, considerata la posizione che mi ritrovo a ricoprire... assicurarle ogni cosa di cui potrebbe avere bisogno.»
Lei sbatté le palpebre per un po'. Non era nemmeno comprensibile se avesse registrato del tutto le parole che le erano state rivolte, e Celeria sperava in cuor suo che scoppiasse loro a ridere in faccia e poi gl'intimasse di non farsi più vedere, truffatori maledetti. Purtroppo, lei somigliava a suo padre e il signor Gardot sembrava avere un talento per apparire gentile e affabile, il bel viso corrucciato in un'espressione di preoccupazione per quella bambina che nemmeno conosceva. Assicurarle ogni suo bisogno, come no. Erano lì per ottenere informazioni ed andarsene, con la massima discrezione. Sempre che fosse ancora possibile, dopo che lui aveva sbandierato la loro identità al primo ostacolo.
Poi, la signorina Versha sorrise. Un sorriso lento, placido si fece strada sulle sue labbra mentre annuiva.
«Questo vi fa onore, signor Gardot. Le sue visite sono quasi terminate, e quando sarà nelle condizioni di ricevervi vi farò chiamare. Per ora potete aspettare qui?»
«Senza dubbio.»
Con un cenno delle spalle che somigliava in modo preoccupante a un inchino, la giovane si congedò. E Celeria si girò verso il signor Gardot, finalmente libera di rivolgergli tutta la sua frustrazione.
«Ma siete impazzito?» sibilò. Non sembrò troppo sorpreso da quella reazione, ma non sembrò nemmeno che aver appena distrutto il loro lavoro prima di cominciare gli dispiacesse.
«Tra poco tutta Asoya saprà che siamo stati qui, perché la visita di un parlamentare e della figlia di un presidente è un'ottima, ottima pubblicità. E tutti si chiederanno cosa ci facevamo qui, e prima che ci sia il tempo di capire cosa sta succedendo, mio padre avrà la mia e la vostra testa per aver disobbedito ai suoi ordini.»
Le parole si accavallavano una dopo l'altra in un sussurro indignato. Le sue mani si agitavano di conseguenza, in gesti scattanti e inferociti.
Il signor Gardot alzò un sopracciglio, come a dire, hai finito? E Celeria avrebbe voluto colpirlo. Si mise a tacere, e strinse gli occhi.
«Non succederà nulla di tutto questo, signorina Dherafern. E sapete perché? Perché nessuno può sapere che Aasmi Dhavale è ricoverata qui. Ci sarebbe una furia di centri che si combattono per avere la sua custodia, e tutto si trasformerebbe in una grande farsa politica su chi si prende il predominio su quella povera bambina. Quindi no, nessuno saprà che siamo stati qui, per il suo bene.»
Il suo sguardo era d'improvviso duro, quasi fosse deluso che non fosse arrivata a quella conclusione subito. Ed era lo stesso sguardo che le rivolgeva suo padre, quel mi aspettavo di più da te che la faceva impazzire. Forse, vedendo quanto ogni persona,persino chi a malapena la conosceva, fosse decisa a ricordarglielo, era anche vero. Non le importava, avrebbe comunque continuato a lavorare e fare ciò che suo padre le aveva detto, gli piacesse o meno. Scrollò le spalle.
«Di sicuro più discreto che presentarsi senza alcuna scusa e farsi cacciare come truffatori,» ammise borbottando «Quello sì che avrebbe attirato l'attenzione.»
Il signor Gardot ridacchiò piano.
«Non preoccupatevi, non saremmo arrivati a quello. Avevo un piano di riserva.»
«Ah, sì?»
«Ovviamente. Entrambi concepiti nei tre minuti in cui mi sono accorto che non potevamo passare inosservati.»
Suo malgrado, Celeria sorrise. Trovò qualcosa di confortante nel sapere che, alla fine, aveva un senso dell'organizzazione distorto tanto quanto lo aveva lei – qualcosa che glielo fece piacere un po' di più.
«Ora mi dovete dire qual era, però.»
Il signor Gardot le rivolse un'occhiata divertita, come se le stesse per fare la battuta più divertente del secolo. Celeria aggrottò la fronte.
«L'avrei sedotta, ovviamente. Non mi avrebbe mai detto di no.» Lo disse con un tono talmente sicuro di sé che non poté trattenere una risata. L'espressione di lui si mutò subito in offesa.
«Cosa c'è? Mi avrebbe detto di sì.»
Celeria scosse la testa, ancora ridendo. Prese un paio di respiri e lo guardò, tentando di ignorare quel formicolio al viso che stava per trascinarla di nuovo nell'ilarità.
«No, non credo. Vedete, i vostri baffi – »
Il signor Gardot sgranò gli occhi e si tastò il viso, come se non potesse reggere un simile attacco.
«Cos'hanno i miei baffi che non va?»
Celeria gli sorrise. Trovava bizzarro, in realtà, il modo in cui il suo compagno potesse cambiare atteggiamento così in fretta, dalla severità a un comportamento esagerato e goliardico volto solo a intrattenerli. Per quanto ci provasse, faceva ancora fatica a inquadrarlo, a farsi un'opinione su di lui. Di sicuro aveva un ego smisurato, ma non significava che dovesse per forza essere una cattiva persona.
«Ad Asoya, gli uomini o hanno i baffi o la barba folti, oppure se li rasano. Radi come li avete voi vi danno un'aria un po' untuosa... sì, insomma, inquietante.»
Il signor Gardot la fissò per qualche secondo senza dire nulla. Poi tossicchiò e si sistemò il colletto della camicia.
«Vedrò di sbarazzarmene, allora. Non sia mai che risulti untuoso, o addirittura inquietante.»
Celeria alzò le sopracciglia, divertita dal modo in cui lui sembrava aver risentito di quell'improvviso bagno di umiltà. Stava per replicare, ma colse con la coda dell'occhio la signorina Versha che si avvicinava con la sua andatura composta, e non ebbe più molta voglia di parlare. Lei, a discapito degli ideali di bellezza Asoyani, non pareva avere alcun problema con i baffi radi del signor Gardot, anzi. Poteva essere vittima del fascino dello straniero, ma non aveva importanza. C'erano ben altri problemi rispetto a valutare la possibilità del signor Gardot di fare colpo sull'impiegata dell'accettazione.
«Miei cari signori, la signorina Dhavale ora è pronta. Se volete seguirmi.»
Senza più pronunciare una parola, si avviarono dietro di lei, che aveva il passo leggero e rilassato, quasi li stesse accompagnando in un giro guidato dell'ospedale. Celeria si aspettava che, dovendo l'identità e la presenza stessa della figlia della parlamentare rimanere segrete, lei li guidasse in una serie di corridoi labirintici fino ad arrivare a una camera blindata all'inverosimile. Invece, bastò una rampa di scale e poi la signorina Versha indicò loro una porta bianca, che recava una grossa farfalla rosa dipinta sopra. Era una porta come tante, niente guardie all'ingresso.
Nascondere i segreti in piena vista, un po' come avevano fatto loro. Un po' come quando, da bambina, lasciava il suo diario segreto infilato nella pila di libri di fianco al letto: se non si voleva far capire che qualcosa era importante, il modo migliore era comportarsi come se non lo fosse affatto.
«Per me è stato un grande onore assistervi, signori. Ho fatto allontanare gli infermieri dalla stanza per garantire la massima segretezza nell'incontro. Se dovesse sentirsi male, potete suonare il campanello di fianco al lettino.»
Furono le ultime parole che rivolse loro, prima di congedarsi con quel suo inchino abbozzato. Celeria la guardò allontanarsi. Un vero peccato.
«Dunque,» disse il signor Gardot, la mano esitante sulla maniglia della porta.
«Dunque, direi che è ora di avere le nostre risposte,» affermò lei.
Fu la prima ad entrare, dato che l'altro decise di prendersi ancora qualche secondo per prepararsi alla vista.
Nella stanza decorata di disegni di personaggi infantili, animaletti colorati e figure fiabesche – Celeria ne riconobbe qualcuna che raccontavano anche a lei, con un sorriso nostalgico – una bambina minuscola era sdraiata in un letto immacolato. Agitava con le manine fasciate una bambola con un copricapo imponente di Ikigash e il vestito di perline bianche.
«Ciao,» sussurrò, e Aasmi Dhavale alzò il capo. Per poco non le prese un colpo.
Il viso era coperto da bende pallide da cui spuntavano solo gli occhi, i più scuri che avesse mai visto, e una bocca sottile e screpolata.
Sapeva che era meglio così, che se non le avesse avute la vista sarebbe stata ben peggiore, ma ciò non rendeva in ogni caso quella attuale piacevole. La realtà dell'avvenimento le piombò di colpo sulle spalle. Qualcuno aveva massacrato quella bambina, qualcuno l'aveva ridotta così, e quel qualcuno era lo stesso che aveva macellato le sue madri e tutta la sua famiglia. Lasciò andare un respiro tremante, in cerca delle parole da usare.
«Io...»
Un tocco lieve sulla spalla la fece sussultare. Il signor Gardot le sorrise piano, e le rivolse uno sguardo rassicurante, o per quanto rassicurante potessero essere quelle iridi d'oro intenso.
Il giovane si inginocchiò di fianco al letto della bambina.
«Che bella bambola che hai,» osservò, il tono ancora diverso, gentile ma non compassionevole. Genuino.
Aasmi scrollò le spalle.
«Dicono che sembra la mia mamma, ma lei era più bella.»
Celeria aveva visto spesso la parlamentare Dhavale, con i suoi lineamenti aquilini e i capelli lucidi tirati indietro. Non somigliava affatto alla bambola Ikigashi, ma forse la bambina si riferiva alla compagna della parlamentare. Lei, Celeria non l'aveva mai vista. Nemmeno conosceva il suo nome, ed era morta.
«Non è il mio gioco preferito, ma ho questo. Chi sei?»
La schiettezza della bambina la fece sorridere. Aveva una parlata sciolta, nonostante la voce un po' soffocata dalle bende, e il suo accento aristocratico si sentiva molto bene. Poteva benissimo essere lei stessa alla sua età. Solo che aveva appena perso tutto, e forse se ne rendeva conto appena. Sapeva di non avere più nessuno?
Ordinò a se stessa di non piangere. Se Aasmi Dhavale non versava una lacrima, chi era lei per farlo?
«Mi chiamo Liev. Lei è Celeria. Siamo venuti a farti compagnia, se ti va. Ti va?»
Dopo qualche secondo di riflessione, la bimba annuì.
Il signor Gardot le rivolse un sorriso fulgido, come se avesse appeso le stelle in cielo.
«Ti ringrazio molto. Qual è il tuo gioco preferito, allora?»
«Avevo un castoro, quando ero a casa, finto, ovvio, non vero. Però l'ho perso e mi hanno dato questa.»
Il giovane annuì. «Mi dispiace molto. Da dove vengo io ce ne sono un po', di castori. Sono animali molto territoriali, ma estremamente carini.»
Fece una pausa, come per riflettere sulle parole da dire dopo.
«Ti piacerebbe se tornassi a trovarti e ti portassi un pupazzo nuovo? Non per forza un castoro, quello che vuoi.»
La bambina chiuse piano gli occhi, palpebre arrossate e ciglia bruciate – forse la luce le dava fastidio, pensò Celeria. Magari aveva gli occhi affaticati. Avrebbe voluto sapere cosa fare con lei, starle vicino e parlarle, ma non ne era capace. Faceva fatica anche solo a guardarla, e il signor Gardot se la stava cavando benissimo da solo. Si chiese quanto tempo ci sarebbe voluto prima che iniziasse a farle domande, però immaginava che ci sarebbe voluto molto tempo. Poteva aspettare.
«Un castoro va bene. Mi piacciono i castori. Da dove vieni?»
Lui non aveva smesso per un attimo di sorriderle, ma a quella domanda vacillò per un attimo. Solo per un attimo.
«Mio papà veniva da Asoya, ma io sono nato a Eistreth, e mia madre era di lì. Sono stato lì per tanto tempo.»
La bambina annuì. Aveva smesso di giocare con la bambola, e ora le dita erano attorcigliate al lenzuolo che la copriva. Doveva avere caldo, con tutte quelle fasciature e il lenzuolo addosso. Non si potevano aprire le finestre?
«E non ti manca casa? La tua mamma?» il tono di Aasmi era malinconico, e a Celeria si strinse il cuore al pensiero di quella bambina chiusa lì per tanto tempo, senza che nessuno oltre al personale della clinica la visitasse, perché non le era rimasto nessuno.
«Non molto,» ammise il signor Gardot in un sussurro «Mia madre, lei è... non andiamo d'accordo. E poi, Asoya mi piace di più di Eistreth, anche se non ci sono altrettanti castori.»
Le ultime parole furono pronunciate in una lieve risata.
«A te manca la tua famiglia?» aggiunse il giovane, quasi timidamente.
Aasmi sussultò, presa in contropiede, e serrò gli occhi. Celeria si domandò se quel semplice gesto le facesse male.
«Un po'. Vuoi sapere cosa gli è successo, vero?»
Nessuno disse nulla per un po'. Poteva non essere il momento migliore, ma era un momento in cui poteva dirglielo, e con un po' di egoismo, Celeria decise di non aspettare che l'altro scegliesse per lei.
«Solo se tu vuoi dircelo, Aasmi,» offrì, un tono che cercava di emulare al meglio quello gentile e amorevole del compagno. La bambina aprì gli occhi di botto, sorpresa nel sentirla parlare. Anche lei era un po' sorpresa di se stessa, a dire la verità.
Il signor Gardot si riprese subito dall'attimo di stupore, e tese la mano alla bimba, che la prese dopo qualche secondo di titubanza. Era minuscola, tra le dita affusolate dell'uomo.
«Mi prenderai lo stesso il pupazzo, se lo dico?» mormorò in un tono pieno di vergogna.
«Certo che sì, Aasmije,» disse lui, e Celeria sorrise all'utilizzo del vezzeggiativo. Aveva avuto una nutrice Eistreta, per qualche anno, e si ricordava come il suo nome suonasse buffo con quel suffisso aspirato. Poi la bimba la fissò negli occhi – guardò lei, per qualche motivo – e ciò che vide nel suo sguardo color pece dissipò la dolcezza del ricordo.
«Credo di averli uccisi tutti io.»
Che parto, signori della corte.
Che.
Parto.
Lo so che lo dico ad ogni capitolo che scrivo, ma vale per ogni capitolo che scrivo. Dopo la maledizione del capitolo tre ho dovuto affrontare la maledizione del capitolo quattro, e credo che ogni capitolo nuovo sarà una maledizione da affrontare. A parte quelli in cui la gente limona, credo. Ma non facciamo spoiler.
Comunque, altro giro altro regalo! E il regalo è che finalmente qualcuno tenta di fare qualcosa, c'è del foreshadowing, e ci sono rivelazioni scioccanti.
Voi che dite?
Teorie, opinioni, insulti?
Fatemi sapere tutto e non odiatemi troppo per la lunga attesa.
Baci,
Elia.
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