Ⅴ. Raina degli alberi

Celeria non aveva avuto una lunga carriera al dipartimento, prima che suo padre la destinasse a tirapiedi di un parlamentare con i baffetti della pubertà ancora sopra il labbro. A diciannove anni, aveva appena terminato l'Accademia, ed era stata costantemente relegata a incarichi minori: mesi e mesi passati a questionare con passeggeri che non avevano pagato il biglietto del treno, a sentire le testimonianze di venditori che sostenevano che la loro merce fosse stata sabotata dalla bancarella davanti alla loro, a occuparsi di cani scomparsi e faide tra vicini su chi avesse diritto di tagliare quella pianta che era proprio sul confine dei due giardini. Nonostante tutto, ne era grata. Sapeva di non essere benvoluta all'interno del dipartimento, e che se un qualsiasi membro alle prime armi avrebbe dovuto farsi una bella gavetta, lei avrebbe dovuto passare una vita a sentirsi dire di non essersi guadagnata il posto che occupava – e se anche aspirava ad altro, stava in ogni caso aiutando a riportare l'ordine, nel suo piccolo, le andava bene così.

Non le era mai capitato di ritrovarsi faccia a faccia con criminali veri, con pericoli reali, ma almeno aveva i racconti dell'agente anziano Haradas.

Vakpati Haradas era un uomo indurito dal tempo e dal lavoro, che dimostrava molti più anni di quanto non ne avesse in realtà. Una volta era stato un membro illustre del dipartimento, sempre sul campo nelle missioni più rischiose, insignito di decine di medaglie, finché non aveva perso entrambe le gambe in un picco di Caos; da allora era stato relegato al lavoro di scrivania, ma più che altro passava il tempo a fumare e a masticare bastoncini di liquirizia. Aveva la pelle bruna rugosa, due bei baffi argentati e uno sguardo sicuro, anche se velato da una patina opaca – nel dipartimento girava la voce che si facesse di yachta per il dolore, ma ovviamente nessuno aveva il coraggio di denunciare un membro anziano per uso di sostanze illegali. E poi, il vecchio Vakpati non faceva male a nessuno, se non a chi si annoiava a sentirgli continuamente raccontare di tutte le volte che era quasi scampato alla morte. Celeria, però, non si annoiava mai, e pendeva dalle sue labbra come se fosse sotto ipnosi, ascoltandolo tessere racconti di efferati assassini, di attentati e di rivolte di imbrigliatori. Era stato nelle congreghe del Nord, dell'Est – «Lo sapete, piccola Dherafern, che gli imbrigliatori si danno tutti del tu? Il più pulcioso dei contadini può andare nel palazzo di vetro del Magister dell'Est e parlargli come se fosse suo fratello. » – e persino a Raenica, tra la popolazione più selvaggia del continente.

Si domandava, però, se Vakpati Haradas avesse mai assistito a una bambina che, distesa in un letto enorme e con la promessa di un pupazzo, confessava il brutale omicidio di tutta la sua famiglia.

Celeria sì; e si sentì le gambe farsi improvvisamente molli, incapace di sostenere il suo stesso peso. Si aggrappò allo stipite della porta per non cadere, mentre Aasmi Dhavale abbassava lo sguardo sulle sue manine fasciate, che stringevano con forza le dita affusolate del signor Gardot.

«Siete arrabbiati?» domandò, un tono pieno di vergogna, come se avesse appena ammesso di aver rubato delle caramelle. A Celeria venne da vomitare per la perversione della situazione.

Che gli dei li proteggessero, certo che Aasmi era stata l'unica sopravvissuta, se era stata lei ad ucciderli tutti... una bambina, una bambina minuscola che giocava con tutta tranquillità con una bambola dalle fattezze simili a quelli della madre prima che loro arrivassero, che aveva parlato dei suoi giocattoli preferiti con la stessa innocenza con cui aveva confessato un massacro. Non riusciva a capacitarsene, e sapeva che per il signor Gardot era lo stesso.

Celeria si aspettava che il signor Gardot rispondesse per lei, ma non successe. Il volto del compagno aveva d'improvviso perso ogni traccia di vitalità. Il suo sorriso conciliante gli aveva abbandonato le labbra, ora strette tra di loro fino a farle diventare pallide, e quando la guardò, Celeria notò che nei suoi occhi c'era una luce del tutto diversa: traboccavano di sconvolgimento, sì, ma anche di compassione, ma soprattutto di una confusione incredula. Poteva immaginare cosa stesse pensando in quel momento – pregava che si trattasse di un errore, o di uno scherzo di cattivo gusto, si ripeteva "non è vero, fa che non sia vero".

Provò un moto di pena per lui. Era un ragazzo di famiglia ricca ma sconosciuta, più eistreta che asoyano, che indossava abiti realizzati in tessuti pregiati e stivali con la punta d'oro, e avrebbe potuto passare tutta la sua vita con il decidere quale vino abbinare ai banchetti come massima preoccupazione. Ma aveva deciso di entrare in politica, forse perché pensava di cambiare il mondo o perché voleva aumentare la sua autostima o chissà che altro, e se molti politici giovani come lui passavano anni di gavetta prima di ricoprire la posizione di parlamentare, Liev Gardot era stato gettato nella fossa dei leoni con la stessa esperienza di un bambino che non ha ancora imparato a non giocare con il fuoco. Qualunque cosa avesse desiderato per la sua carriera, però, lei era certa che non comprendesse trovarsi faccia a faccia con un assassino, men che meno tenere la sua minuscola mano tra le proprie e promettergli un giocattolo nuovo.

Il giovane non proferì parola. Aprì la bocca per parlare, certo, ma non ne uscì alcun suono se non un respiro strozzato, dunque la richiuse, e quando Aasmi Dhavale si voltò verso di lui, ne evitò lo sguardo.

«Eaca tosha,» mormorò nel momento in cui finalmente fu in grado. Non serviva essere nativi eistreti per capire cosa diceva, e Celeria l'aveva sentito dire spesso dalla sua balia, a volte in tono esasperato, altre vezzeggiativo, altre ancora di rimprovero. Bambina mia. Poi proruppe in un singhiozzo improvviso, e strinse la bimba a sé. Poi, senza dire null'altro, si alzò e lasciò la stanza; lei rimase sola con una bambina in potenza omicida e di certo molto confusa.

«Dove va? È tanto arrabbiato?» Aasmi si rivolse a lei per quella che era con grande probabilità la prima volta nella loro visita, chiedendole l'unica cosa a cui non avrebbe potuto rispondere. In realtà, aveva fatto affidamento sulla dialettica del signor Gardot e aveva sperato di non dover arrivare a prendere in mano la situazione, perché non aveva idea di come muoversi. Sì, il suo compagno era un ragazzo ricco, viziato e alle prese con un problema più grande di lui, ma come poteva lei essere da meno? La sua parentela con il presidente l'aveva sempre costretta a camminare sulla linea sottile che c'era tra incarichi dall'inutilità siderale – quelli che suo padre avrebbe voluto che svolgesse – e questioni più rilevanti, che invece sarebbero stati marchiati come frutto di nepotismo e niente più.

Non poteva permettersi di entrare nel panico, ma sperò con tutto il suo cuore che il signor Gardot non l'avesse abbandonata per una passeggiata panoramica, e soprattutto che tornasse il più presto possibile. Forse aveva gli serviva un po' di tempo per riprendersi, e Celeria capiva: anche lei era incapace di guardare Aasmi Dhavale senza sentire il suo stomaco rivoltarsi come in preda a convulsioni, di sorriderle senza pensare ai racconti del corpo martoriato della parlamentare Dhavale e della sua compagna, ma aveva bisogno della parlantina sciolta del giovane. Lei con le parole, non era particolarmente a suo agio.

Ciononostante, evitò di prendere in considerazione l'idea di non intervenire – stare in silenzio a fissare la bambina come una sorta di carceriera in attesa del signor Gardot avrebbe solo indisposto di più Aasmi Dhavale nei loro confronti, e per quanto ciò che aveva fatto fosse mostruoso, era anche l'unica persona che poteva dire loro come si erano svolti i fatti con precisione, tanto più se era stata lei stessa a commettere il delitto. Il concetto sembrava una burla perversa solo da pensato, eppure l'aveva ammesso. Una bambina di otto anni.

Si avvicinò al letto di ospedale, ma non occupò il posto su cui il suo compagno sedeva fino a poco prima, nell'eventualità che lo volesse di nuovo una volta finita qualsiasi cosa stesse facendo là fuori. E poi, una parte di sé temeva la vicinanza di quella bimba all'apparenza indifesa, anche se si rifiutava di ammetterlo.

«Nessuno è arrabbiato, Aasmi,» disse, sforzando la voce nel tono più dolce che le riusciva, ed era la verità. Lei, tra lo sconvolgimento, il terrore e l'orrore che la attanagliavano in quel momento, non provava alcuna rabbia nei suoi confronti. Non ne aveva la forza. «Il signor Gardot è solo uscito a prendere un po' d'aria. Ad Eistreth fa molto più freddo che da noi, e c'è molto più vento. Ancora fa fatica, con questo clima.»

La bambina annuì, e sembrava abbastanza convinta per quella che era una scusa pessima, o perlomeno fingeva di esserlo. Celeria fissò i dipinti sulle pareti. Non raccontavano una sola storia, ma erano invece popolati di figure celebri nelle fiabe per bambini: la giovane guerriera Somaya dall'arco argentato, il cui mantello portava con sé tutto il firmamento, che inseguiva un grosso Ugi'i dorato, (alla piccola Celeria c'era voluto molto tempo per capire l'allegoria con la luna e il sole, e se n'era vergognata parecchio), Biraj, lo spiritello burlone che caricava sul suo maiale volante tutti gli oggetti smarriti agli umani, e Raina degli alberi, e altri, altri, altri, a formare un'accozzaglia sconclusionata di racconti diversi.

«Li hanno fatti fare apposta per me,» la voce di Aasmi la informò, «nessuno viene mai a trovarmi, volevano rendere la camera più bella. Ma nessuno viene a trovarmi comunque.»

Celeria annuì. Nulla in quella situazione aveva senso: certo nessuno andava a trovare Aasmi Dhavale, la sua famiglia era stata sterminata da lei stessa. Perché fingere una mancanza di consapevolezza simile, dopo che aveva confessato di averli uccisi, oltretutto? O forse era talmente piccola da non rendersi conto della gravità di ciò che aveva fatto. In entrambi i casi era stomachevole. Avrebbe voluto prenderla per le spalle, scuoterla e costringerla a spiegare cos'aveva fatto, come e perché. Cosa l'aveva spinta a massacrare così la sua famiglia, e da dove aveva tratto le forze per farlo, lei così fragile e minuta?

Non lo fece.

«Mi dispiace che tu sia sola,» rispose invece, combattendo la sensazione di nausea che le saliva su per la gola, «Qual è la tua storia preferita? A me piaceva quella di Somaya.»

Aasmi scosse la testa con decisione.

«Somaya è stupida. L'Ugi'i non aveva fatto male a lei o alla sua famiglia, poteva ignorarlo e ora lo dovrà inseguire per sempre.»

Sapeva che a diciannove anni era un po' troppo grande per irritarsi a causa di una bambina che aveva definito la sua eroina d'infanzia stupida, perciò decise di approcciare la questione evitando l'indignazione con cui si sentiva di reagire. Forse la stupida era lei, a discutere di fiabe con una bambina invece di interrogarla sull'omicidio della famiglia. Ma sperava che il signor Gardot sarebbe arrivato in fretta, e lei non avrebbe dovuto gestire il tutto, e prendeva tempo facendo conversazione.

«Ma aveva distrutto tutti i campi delle altre famiglie, le case del villaggio. Doveva stare a guardare solo perché non aveva distrutto la sua?»

Dopo qualche minuto di riflessione, Aasmi scrollò le spalle.

«Io dico che è finita nei guai per niente. Ma gli Ugi'i sono davvero così cattivi?»

Celeria esitò.

«Non saprei. Anche se fossero, però, vivono molto, molto lontano da qui, perciò non dovrai mai preoccupartene.»

La bambina annuì, e malgrado la sua dovessse essere una rassicurazione, a Celeria parve di scorgere nei suoi occhi un briciolo di delusione. Tentò di non pensarci troppo: è vero, i bambini hanno paura dei mostri, ma si ricordava anche quella fascinazione primordiale per i racconti spaventosi, di pestilenze e bestie feroci e tiranni crudeli – soprattutto le ultime, spesso frutto della tradizione successiva alla rivoluzione. Non era diventata un'assassina, anzi, si era unita al dipartimento, unico mezzo per mantenere l'ordine e la giustizia e proteggere la capitale dalle bestie feroci e dai tiranni crudeli – anche se ora stava discutendo di storielle con una bimba di otto anni.

Un cigolio le fece sobbalzare entrambe. La porta si socchiuse e all'interno il cappotto impolverato e i capelli scarmigliati, reggendo un involucro di carta leggera, scivolò il signor Gardot. Celeria tirò un sospiro di sollievo, mentre Aasmi si lasciò andare a un versetto estasiato.

«Scusate l'assenza,» disse, e il suo stato d'animo pareva del tutto stravolto rispetto allo sconvolgimento precedente, ora tranquillo e rilassato, come si era posto all'inizio della loro visita, «Ho portato un regalo.»

La bambina batté le mani fasciate in uno scatto giubilante. «Un regalo? Che bello, cos'è?»

Il suo compagno sorrise gentile, ma nascose l'oggetto dietro la schiena. «Questo te lo do alla fine, Aasmije. Hai trattato bene Celeria, mentre non c'ero?»

Celeria sbatté le palpebre. Era come se da quella rivelazione non fosse cambiato nulla, come se la crisi del signor Gardot non fosse mai avvenuta, e lei era rimasta unica testimone di quella confessione orribile mentre tutto era ritornato in un falso equilibrio.

«Sì, » rispose, sentendosi chiamata in causa, la voce un po' flebile «anche se non apprezza la mia fiaba preferita.»

«Somaya è stupida,» ripeté la bambina, cocciuta.

Il signor Gardot rise, di una risata leggera e genuina. Doveva fingere, o qualcuno l'aveva sostituito con una copia senza coscienza di se stesso. Tuttavia, se stava fingendo, certo lo faceva per un buon motivo – da quando si fidava così tanto dei cultori del Caos? – e decise di stare al gioco.

«Temo di non poter essere di gran contributo alla conversazione, ad Eistreth i bambini leggono solo le parabole di Larjin il Benevolo.» Questo non le era nuovo ed in effetti, se anche Celeria fosse cresciuta in un paese in cui la religione permeava ogni aspetto della vita dei cittadini, in ogni momento, fino addirittura alle storie della buonanotte, chissà, magari si sarebbe data anche lei a estremismi come il culto del Caos.

«Una vera noia,» il signor Gardot si chinò verso la bambina, strappandole un risolino, e strizzò l'occhio. «Allora, Aasmije, qual è la tua fiaba preferita, se questa Somaya è stupida?»

A Celeria scappò uno sbuffo, ma fu del tutto contenuto.

Aasmi rispose senza esitazione.

«Raina degli alberi.»

Oh.

Ecco, quella era davvero una storia cruenta,

Quando era piccola, sua madre insisteva per metterla a letto, nonostante potesse delegare il compito a una balia, e raccontarle una storia della buonanotte. Le prendeva da un massiccio libro dalla copertina blu e oro, che conteneva anche la storia della Caccia di Somaya, o a volte ne inventavano una insieme, quando si stancavano di sentire sempre le stesse.

L'unica che si era sempre rifiutata di narrarle, però, era quella di Raina degli alberi, tanto alla fine aveva pregato il figlio di un giardiniere di raccontargliela; il ragazzo aveva obbedito con un ghigno stampato in viso, e dopo quella volta la piccola Celeria aveva sofferto di incubi per una settimana intera.

Il signor Gardot, però, era ignaro di tutto – e comunque aveva già più di vent'anni, di sicuro avrebbe potuto sopportare una storia sanguinosa.

«Di cosa parla?»

Aasmi si raddrizzò, ringalluzzita dal poter parlare di qualcosa che le piaceva.

«Allora, c'è questa ragazza bellissima che si chiama Raina. Suo papà le fa fare da sguattera e non vuole che nessuno la veda, perché altrimenti se si sposa non può più fargli da sguattera. Quindi si trasferisce in una grotta, e sta sempre al buio, e la convince di essere cieca, per cui non può uscire dalla grotta e non le interessa di vedere com'è il mondo fuori. Però lui per fare la strada da fuori alla grotta usa una lanterna, e una volta si dimentica di spegnerla, per cui Raina scopre che ci vede. Allora capisce che suo papà è cattivo e cerca di scappare, ma lui la insegue e cerca di prenderla, ma lei scivola in un fiume e muore affogata. Però... lei muore, ma cioè, la sua anima no, e si vuole vendicare di suo papà perché per colpa sua è morta, oltre alla storia della grotta. Quindi chiede aiuto ad Eudereia... sai, la dea che protegge Asoya, la matrona dello scambio equo, e lei la trasforma in un picchio. E Raina un po' si arrabbia perché non è una vendetta, ma poco dopo suo papà si ammala e muore, e allora Eudereia trasforma lui in un albero. Capito? Così Raina può torturarlo per l'eternità e ha la sua vendetta.»

Il signor Gardot sbatté le palpebre, e a Celeria venne quasi da sorridere. Le era capitato di ascoltare qualche parabola di Larjin il Benevolo per via dei predicatori che importunavano i fedeli in uscita dal tempio nel tentativo di convertirli, ma erano spesso storie miti, tenui, di miracoli e buone azioni. La fiaba di Raina degli alberi era una storia orrenda, di genitori che uccidevano i figli e i figli che seviziavano i genitori, e di certo lui non avrebbe ritenuto opportuno che si raccontassero storie del genere ai bambini, o che esistessero e basta.

Ma poi il signor Gardot parlò, e quello che disse non c'entrava nulla con una rimostranza morale.

«Per questo hai ucciso le tue madri, Aasmije?»

Il tono era gentile, comprensivo, come se stesse parlando di un errore a scuola o una marachella. Un brivido freddo le corse lungo la schiena, ma la bambina scosse la testa. Le spalle sottili le tremavano, e quando tirò un respiro spezzato Celeria comprese che, dietro il volto fasciato, la bambina era scoppiata in lacrime.

«Io non... non volevo. Non erano cattive. Io non volevo mettermi le – le scarpe per andare... al tempio, e – »

Un singhiozzo tagliò la frase in due, e il signor Gardot le accarezzò la schiena con una mano, mentre Aasmi prendeva dei respiri affannosi che sembravano costarle la salute dei suoi polmoni già piuttosto malridotte.

«E allora io ho detto... Ho detto "Adicun vi prenda se mi obbligate!" ed è una cosa bruttissima da dire, l'avevo sentito dire alla mia baimé una volta che litigava, ma non sapevo quanto era brutta, l'ho solo ripetuta perché ero – ero arrabbiata, e la mamma era furiosa, ma poi... poi l'ho fatto,» gracchiò, e poi riprese a singhiozzare.

Celeria deglutì. Era una cosa orribile da dire, ma dubitava fosse quella maledizione, detta senza conoscerne il vero significato, ad aver scatenato quella catastrofe in casa della parlamentare. C'era una sottile linea di confine tra rozza superstizione e religione, una che lei, se non il cultore del Caos suo compagno, riusciva a comprendere. Adicun era un dio bestiale e malvagio, ma non avrebbe mai scatenato il suo potere perché una bimba qualunque si era arrabbiata in modo puerile con le sue madri. Strinse le labbra, e attese che qualcun altro parlasse.

«Aasmije... tesoro mio, potresti spiegarmi cosa hai fatto?»

La bimba inspirò di nuovo, e per un attimo apparve così svuotata, spezzata, una marionetta priva del suo burattinaio, che Celeria fu tentata di implorare il signor Gardot di smettere con quell'interrogatorio, perché sembrava crudele, insomma, come infierire su un animale ferito per il gusto di vederlo soffrire, e loro... erano lì per quel motivo.

«Tutto, all'improvviso, è diventato molto caldo... e ho visto che il lampadario di metallo gocciolava, e per questo ho capito quanto caldo faceva, e la mamma era spaventata e ha chiamato baimé, e mi sono spaventata anche io, ma c'era un vento fortissimo, e poi si è alzata la polvere, e ho iniziato a correre perché voleva inghiottirmi, ma poi si è abbassata e ho visto – » seppellì il viso fasciato nella giacca del signor Gardot, e non proferì più altra parola.

«Va bene, Aasmije, va tutto bene. Adesso sei al sicuro.» La voce del giovane era cantilenante, e ad essa accompagnava un movimento calmo e ritmico, come la stesse cullando tra le braccia, finché i respiri della bimba si fecero più regolari.

Qualcosa di bagnato sfiorò le labbra di Celeria, e subito dopo calda, salata, una lacrima le scivolò giù per il mento. Non si era nemmeno accorta di star piangendo. Pensava a una bambina che correva in mezzo a un tornado di Caos – perché quello aveva descritto – e lasciava il suo pupazzo preferito a bruciare insieme alla sua famiglia.

«Vuoi vedere il tuo regalo?» sussurrò il signor Gardot, e Aasmi annuì piano. La aiutò a scartarlo, perché le dita si inceppavano spesso nelle fasciature pallide. Il muso di pezza di un castoro ricambiò lo sguardo annacquato della bambina con due lucidi, amorevoli bottoni neri. Per un po' Aasmi tacque, e Celeria si chiese se fosse stato il caso di regalarle un giocattolo che le ricordava tanto la tragedia accaduta. Poi la bambina gettò le braccia al collo del signor Gardot e strinse così forte che dovette incassare la testa tra le spalle.

«Grazie, Liev, grazie grazie grazie,» esclamò, e poi singhiozzò di nuovo, e si stese di nuovo sul suo letto stringendo forte il castoro di pezza.

Il signor Gardot le accarezzò la testa, poi si alzò e si spolverò la giacca.

«Solo un'ultima cosa, tesoro mio, e poi ti lascio riposare, d'accordo?»

Seppur a fatica, Aasmi annuì. Doveva essere davvero stanca, e Celeria si chiese ancora una volta se fosse necessario.

«Voglio che chiudi gli occhi e ti concentri, e poi mi dici cosa percepisci con gli altri sensi, soprattutto il tatto. D'accordo?»

Nel frattempo, raccolse l'involucro di carta e lo gettò nel cestino di fianco all'uscita.

«Dei passi... carta che si accartoccia... c'è un odore un po' strano, come di frutta marcia,» a quello, il signor Gardot fece una smorfia. Celeria dovette trattenere una risata, «l'odore dell'unguento e del profumo per le lenzuola, le garze sono ruvide e le lenzuola invece sono molto morbide,» terminò la bambina.

«È tutto?» chiese il signor Gardot. La bimba non poteva vederlo, ma aveva aggrottato le sopracciglia, assumendo un'espressione corrucciata

«Sì, Liev. Posso aprire gli occhi, adesso?»

Il giovane si avvicinò di nuovo e le lasciò un bacio sulla fronte.

«Ma certo, tesoro mio. Però devi pensare a riposarti, d'accordo? Io tornerò a trovarti presto.» E Celeria si ritrovò a sperare che non le stesse mentendo.

Nel momento in cui si chiusero la porta alle spalle, il signor Gardot si girò a guardarla. La rilassatezza era svanita dal suo viso, così come il sorriso gentile che aveva mantenuto per tutto il tempo – l'espressione era tornata pensosa, e il suo sguardo dorato così intenso che un poco la spaventò.

«Ovviamente la responsabile della morte della parlamentare non è Aasmi, ma credo che qualcuno l'abbia convinta che lo sia. Ha aspettato il momento giusto per farle credere di aver commesso qualcosa di cui non sarebbe mai in grado.»

Iniziò ad accelerare il passo, come al mercato, e Celeria dovette trottargli dietro, in modo molto imbarazzante, se doveva essere onesta.

«Scusate, sono sicura che siete mosso dalle migliori intenzioni, ma non possiamo essere del tutto certi che la bambina non sia assolutamente in grado di padroneggiare il Caos.»

La risata del signor Gardot arrivò amara.

«Il Caos? Neppure i Magistri sono in grado di padroneggiare il Caos, e Aasmi Dhavale non è nemmeno un'imbrigliatrice. È del tutto incapace di percepire la magia attorno a sé, perciò sì, sono del tutto certo.»

Celeria non sapeva cosa dire. Aasmi poteva star mentendo nel non aver percepito tracce di magia, ma perché accusarsi da sola allora? Era un ragionamento e uno schema fin troppo contorto per una bambina di otto anni, e se Aasmi non era responsabile, questo li lasciava –

«Mi state dicendo che non abbiamo nulla su cui lavorare?»

E per la prima volta da quando avevano lasciato la stanza di Aasmi, quando anche i cancelli della clinica si chiusero dietro di loro, il giovane sorrise.

«Al contrario. Ho detto che i Magistri non sono in grado di padroneggiare il Caos, ma i capi delle congreghe non sono gli unici imbrigliatori potenti che esistono. Aasmi ha parlato di un vento molto forte.» Con un gesto automatico, tirò fuori la pipa dalla tasca e l'accese, facendo un lungo tiro. Espirò, di nuovo, del disgustoso fumo verdastro.

«Signorina Dherafern, quanto volete scommettere che quel vento veniva da Ovest?»

It's a bird! It's a plane! It's a nuovo capitolo di Ode al Caos!

Faccio mea culpa: quest'assenza è stata di una lunghezza vergognosa, but alas, ero in gran blocco da prima delle vacanze e ho scritto questo capitolo (non particolarmente carino) solo perché mi sono fisicamente costretto a farlo. Vabbè.

La trama si infittisce (piomme). Che ne pensate? Avete teorie, domandone pazze insulti super giustificabili? Fatemi sapere.

Il prossimo sarà un capitolo moolto speciale ;) restate sintonizzati mi raccomando

Sperando di non sparire di nuovo,

Elia

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top