PROLOGO
Alla signorina Olwen Bevat piaceva definirsi una donna concreta, che per il soprannaturale aveva spazio solo se divino. Del resto, non aveva tempo per altro: gestiva l'orfanotrofio di Eistreth da cinquantadue anni, e non ne era passato uno con un bambino andato a letto senza cena, o uscito a giocare con le scarpe bucate. Piuttosto aveva mangiato zuppa di pane e acqua ed era rimasto all'interno indossando calze spesse (se c'era una cosa di cui la signorina Bevat andava fiera era la sua capacità di risolvere i problemi).
Prima di quei cinquantadue anni era stata la sua cara madre a gestirlo, e prima ancora la sua dolce nonna, e l' illustrissima bisnonna prima di lei – che Larjin il benevolo le esaltasse e le premiasse per la loro misericordia e le ospitasse per sempre nel suo giardino – ma la signorina Bevat era convinta, senza offesa per nessuna di loro, di essere la migliore direttrice che quel ritrovo di sventurati avesse mai visto.
Tutto scorreva liscio e senza alcun disagio all'orfanotrofio di Eistreth, armonizzato dai valori che lei aveva messo a fondamenta della sua vita: ordine, rigore. Fede, certo, ma sempre con moderazione, perché avere la mente nelle alte sfere celesti non aveva alcun senso se i piedi non erano ben piantati per terra. E quelli della signorina Bevat, chiusi in alti stivaletti stringati, a terra si piantavano sul serio, tanto che chiunque si accorgeva del suo arrivo almeno cinque minuti prima che lei apparisse.
Anche quella era una caratteristica positiva, però, in quanto non sopportava di vedere qualcuno che fosse impreparato a una sua visita, soprattutto perché gli orari in cui faceva il giro delle camerate erano segnati su un grande tabellone nella sala da pranzo. Ai bambini serviva struttura per venire su diritti, per evitare che si perdessero in favolette che li avrebbero solo delusi.
E la signorina Bevat poteva dirsi quasi del tutto soddisfatta della solida struttura che aveva costruito in anni di duro lavoro e inflessibilità. Quasi, perché quella struttura sarebbe stata una fortezza, se quella seccatura non fosse stata una crepa nelle fondamenta. Lungi da lei parlar male dei morti, perciò si raccontava che la sua bisnonna era stata forse troppo accomodante, troppo generosa, e il risultato di quella bontà si protraeva anche tre generazioni dopo. Senza che si potesse fare o dire nulla in contrario.
Da come aveva imparato lei, le crepe si riempivano, si chiudevano per assicurare che tutto fosse stabile. Ma le era anche stato insegnato che quella crepa, in particolare, andava affrontata ogni volta che tornava a dare problemi, con pazienza e diplomazia, e che non bisognava mai, mai far percepire a nessuno la portata polifemica di ciò che turbava la perfetta concretezza dell'orfanotrofio di Eistreth.
Per questo motivo, quando lui si era fatto sentire di nuovo, puntuale come era sempre stato – inimmaginabile che almeno una volta se ne dimenticasse, aveva sbuffato lei – la signorina Bevat aveva cercato di tenere la questione al di fuori della casa, programmando tutti gli incontri in città o addirittura fuori città, sicura del fatto che, per quanto una presenza di certo sgradevole, lui non fosse ancora un rapitore di bambini. Lasciava il piccolo a qualche strada di distanza, così che nessuno potesse vedere la disturbante figura, neanche intravederla dalla finestra, e la sera lo riportava indietro in tempo per la cena. Qualcuno, tra bambini e volontari, si era fatto domande su quelle sparizioni, ma lei aveva fatto sapere in giro che il potenziale genitore adottivo era paralizzato, e per questo doveva essere il bimbo ad andarlo a trovare, e non il contrario.
Alla signorina Bevat sarebbe andato bene anche lasciare che lui prendesse con sé chiunque voleva senza passare dal via, ma quello insisteva ogni volta, con una certa pedanteria o forse una sottile e impercettibile sfida, a voler svolgere le procedure con tutti i crismi possibili. Questo, per fortuna, non significava che si dovesse coinvolgere il tribunale o qualche altro fastidio burocratico: sarebbe stato impossibile spiegare loro la situazione, e di sicuro sconveniente per le parti in causa. A dir la verità, lui avrebbe voluto riconoscere l'adozione anche a livello legale, ma era stata chiara nel dirgli che le sue pretese non dovevano causarle più problemi di quanti già non le toccasse risolvere, quindi non se n'era fatto nulla.
Voleva però dire che, nonostante tutti i suoi sforzi per mantenere le apparenze, quel giorno non avrebbe potuto evitare la sua presenza all'interno dell'orfanotrofio, perché lui voleva tanto aiutare il bambino a portare via le sue cose. Come se non fosse stato capace di portarsele via da solo. Sarebbe stata una stoccata letale nella fessura della corazza che aveva forgiato con tanta fatica, la fine della sua credibilità, se la sua più grande capacità non fosse stata la risoluzione dei problemi. Aveva mandato i bambini in gita in città a visitare la fiera del Solstizio insieme ai volontari. Erano rimasti, in quell'edificio enorme ma sempre troppo piccolo per ospitare tutti coloro che lo richiedevano, lei e il bambino.
Fino a quando il rumore del battente non l'aveva raggiunta, la signorina Bevat aveva fatto finta che non ci fosse nulla che non andava, che il motivo per cui non c'era nessuno fosse che aveva deciso di prendersi una giornata di riposo, per la prima volta in cinquantadue anni, e che la persona che le aveva chiesto udienza non fosse altri che un qualche venditore ambulante dedito al compito di appiopparle oggetti di cui non aveva bisogno. Ma persino il suono del battere alla porta non era il sordo tonfo usuale. Era delicato, cristallino, come la melodia dei gingilli che gli adepti di Hus tenevano tra gli abiti, metallo cavo contro metallo cavo. Dunque era arrivato. Maledetto essere.
Strinse le labbra. Sospirò. Magari non ci avrebbero messo molto, e lei avrebbe potuto liberarsi di quella storia per i prossimi vent'anni. Si affrettò giù per le scale, lanciando un grido di avvertimento al bambino, che si preparasse e facesse in fretta. Attraversando l'atrio, intravide il proprio riflesso nel grande specchio posto di fianco alla porta: aveva il volto sbiancato, lattiginoso per il nervosismo. Si pizzicò le guance per simulare una parvenza di colore naturale.
Lui era in piedi sull'uscio, tanto vicino al portone che quasi l'anta gli arrivò in faccia – non successe, constatò la signorina Bevat con giusto una punta di delusione, prima di rimproverarsi per quel pensiero. Che razza di fedele sarebbe stata, se avesse desiderato il male di altri esseri umani? Sempre che quello potesse essere considerato un umano, ovvio. Un immenso e immotivato fastidio la colse quando si accorse che, se il tempo che era passato dall'ultima volta aveva compiuto il suo losco lavoro su di lei, per lui non pareva passato nemmeno un giorno. Sempre con quel viso incorrotto, efebico, quegli abiti dall'aspetto circense e quei ridicoli occhialetti rosati che la irritavano più di ogni altra cosa.
«Buongiorno, signorina,» la salutò, la voce melliflua, con quell'accento bizzarro che non aveva motivo d'essere. Avesse avuto un accento Quiteh – qualsiasi accento avessero, a lei non era chiaro – se ne sarebbe fatta una ragione, ma l'inflessione era nettamente di Raenica, strascicava parole altrimenti aspre e la lasciava ogni volta a chiedersi chi diamine avesse insegnato un Quiteh a parlare Eistre alla maniera di Raenica. Nulla, in quella figura, sembrava essere coerente e regolare. La signorina Bevat lo odiava.
Lui spostò il peso da un piede all'altro.
«Posso entrare?»
Si scostò pigramente dalla porta, lo spazio necessario perché passasse. Non sembrava nemmeno toccare il suolo, quando camminava. Sbuffò.
« Beh, insomma, signore-»
«Magister, se non le dispiace.»
La signorina Bevat avrebbe voluto dire che le dispiaceva. Invece, sospirò di nuovo.
«Sì, insomma. Vuole caffè, tè, qualcosa... ho dell'amaro, se le va.»
L'essere alzò un sopracciglio.
«Non le pare un po' presto per bere?»
Lei tossicchiò, abbassando subito lo sguardo alle scarpe.
«Si fidi, quando si ha da gestire tutti questi bambini non è mai presto per bere.»
Se possibile, il suo sopracciglio si alzò ancora di più. Se possibile, lei si sentì avvampare ancora di più. La sua presenza la agitava, nonostante fossero passati per quel teatrino più d'una volta. C'era un che di minaccioso nell'apparente tranquillità di lui, un potere ancestrale che, malgrado l'aspetto da fenomeno da baraccone, i gioielli perlacei e i sorrisi concilianti, non poteva che spaventarla. Un solo schiocco di dita e sarebbe morta o impazzita. Poco importava che non tradisse alcuna intenzione di farla fuori, o che dicessero in giro che, tra tutti quanti, lui fosse il magister meno prono al conflitto. Una persona non sopravviveva tutto quel tempo senza commettere empietà, o senza trasformarsi in qualcosa di peggiore. Non era possibile.
«Con questo non intendo certo dire di essere un'ubriacona,» bofonchiò.
«Ovvio che non intende dirlo.» La sua replica parve tinta di un lieve accento canzonatorio. Decise di ignorarlo, per il bene di entrambi. Non era il momento per mettersi a litigare e, anche se Larjin il benevolo l'avrebbe sempre protetta, coltivare cattive relazioni con esseri dotati di un potere straordinario poteva non rivelarsi la mossa migliore del secolo. Decise di cambiare argomento.
«Brutta storia, questa della magia primordiale, vero?»
Lui si pulì le lenti degli occhiali sullo scialle verde smeraldo, per prendere tempo, ipotizzò la signorina Bevat. Oltretutto, a che gli servivano quei maledetti occhiali? Non davano certo l'impressione di aumentare la vista del proprietario. Considerato l'aspetto generale, poteva darsi che fossero un vezzo decorativo.Se li risistemò sul naso. Erano storti, e dovette appellarsi a tutto l'autocontrollo che aveva in corpo per non allungare una mano e raddrizzarli.
« Sì, insomma. Non posso certo dire che sia piacevole. Ma predicano da quando esistiamo, eppure... » esitò, e per un attimo lei poté giurare che il suo sguardo assente le stesse scrutando ogni angolo polveroso della sua anima. «Non hanno mai fatto nulla di scandaloso. Solo un gran rumore.»
La signorina Bevat sperò che il bambino finisse di prepararsi molto in fretta. Dopotutto, non avrà avuto un gran numero di effetti personali da cui non potesse separarsi; dunque, perché ci metteva tanto?
«Sono dei senza fede, comunque. Un culto così dovrebbe essere proibito, vero?»
Quello sospirò. Sorrise, ma la signorina Bevat non pensava di aver detto nulla di divertente, anzi.
«Mia cara signorina, ognuno ha le proprie illusioni. Cosa rende la sua migliore di quella degli altri?»
Lei sbatté le palpebre. «Non è un fedele?» domandò, pensando che il suo stupore non aveva poi tutto quel fondamento. Quasi s'era dimenticata di chi le stava davanti. Era, alla fine, ben lontano da qualsiasi cosa che fosse retta e appropriata. Vivevano in un altro mondo, quelli lì, un mondo che aveva un'altra idea dell'essere civili e morali.
L'altro rise, un suono candido e genuino che sarebbe stato piacevole, se non l'avesse fatta sentire tanto umiliata.
«Certo che non lo sono. Non sarebbe affatto ragionevole, da parte mia, non trova?»
La signorina Bevat storse le labbra. Non vedeva, in verità, la correlazione che c'era tra l'essere ragionevoli e l'aver fede. Era una persona estremamente ragionevole, lei, con tutte le sue regole e il suo pensiero pratico, ma riteneva buon senso avere un lasciapassare per trascorrere una buona vita dopo la morte. Anche se forse questa problematica non si applicava agli immortali.
«Ho vissuto molto a lungo, signorina. E penso che se esistesse un dio, a quest'ora mi sarebbe già capitato di incontrarlo. Non è successo, dunque o questo dio mi odia...»
Quella non era un'eventualità tanto impossibile, di certo non con una tale attitudine. Larjin il benevolo non sopportava chi, giunto alla luce della sua eterna misericordia, volgeva lo sguardo in direzione opposta, si schermava il viso, rifiutandosi di credere. Oltretutto, non c'era alcuna ragione per cui un dio si sarebbe dovuto abbassare a scendere sulla terra, luogo abitato da vizi e infedeli. Avrebbe voluto spiegarlo a quella creatura che poteva sì aver vissuto per qualche secolo, ma che rimaneva impertinente e irritante come uno dei suoi ragazzini.
Tuttavia, non ebbe tempo di dirgliene quattro, forse per intercessione divina; il bambino, che sembrava aver atteso solo quel momento per fare un'entrata in grande stile, ruzzolò giù dalle scale. In una mano teneva un anatroccolo di pezza sgualcito, nell'altra una borsa evidentemente troppo pesante per lui, che gli intralciava i movimenti in maniera piuttosto buffa.
«Per carità,» esclamò l'essere, «hai difficoltà a portare i bagagli? Ecco, lascia che io-»
In un attimo di follia, la signorina Bevat pensò che avrebbe preso la borsa sulle spalle. Non successe, ma la cosa era abbastanza scontata. Invece, con un movimento fluido della mano, il bagaglio si liberò con grazia dalla stretta del bambino. Non era la prima volta che assisteva alla sua magia, eppure la sensazione la colpì come se non le fosse mai accaduto prima. Quella le accarezzò i vestiti, le solleticò delicata la poca pelle scoperta, quasi le strappò una risatina. Il peso dei suoi anni e della sua fatica si sollevò per qualche secondo dalle sue spalle. Un'energia che non provava da anni la pervase.
Non durò a lungo, giusto il tempo di abituarvisi – dopodiché tutto ritornò alla normalità, lasciandola più stanca e stremata di prima.
Il bambino, da parte sua, aveva sul volto dipinta un'espressione di tale meraviglia che quasi bastò a farle cambiare opinione su quel surrogato di uomo. Poi si ricordò che tra una decina d'anni, quel bambino sarebbe diventato la sua copia esatta: un essere con la testa tra le nuvole, ubriaco di magia, infedele. Persi tutti gli insegnamenti che lei aveva tentato di impartire per metterlo sulla buona strada, non avrebbe avuto più alcun ricordo di cosa significasse stare con i piedi per terra. Smise subito di essere ben disposta.
«Bene,» affermò d'un tratto, brusca «se non c'è altro.»
Lui le sorrise. Il bambino gli si era avviluppato al braccio sinistro come una pianta rampicante. Il destro era ancora sollevato nel mantenere la borsa in aria.
«Non c'è. Grazie, signorina. Provvederò per far sistemare il tetto.»
La signorina Bevat sbuffò. Non avrebbe voluto accettare la sua elemosina, non era in linea con la sua morale; tuttavia, arrivavano dei periodi in cui era necessario metter da parte la dignità.
«La ringrazio,» mugugnò a malincuore. Poi si chinò verso il bambino. Aveva un baffo di sporco non meglio identificato sul viso. Lo sfregò via con vigore, con la sciocca speranza che, così facendo, qualcosa di lei gli sarebbe rimasto impresso.
«Fai il bravo. Recita le tue preghiere. Lavati la faccia.»
Queste furono le sue ultime parole a quel bambino, pronunciate appena prima che svanisse oltre la porta. Il piccolo aprì e chiuse la manina paffuta in cenno di saluto. Lei ricambiò, il viso che bruciava in un modo che le provocava imbarazzo. Si sarebbe dimenticata di lui, con il tempo. E lui di lei. Così doveva andare.
Erano già sul vialetto d'uscita, ma riuscì comunque a cogliere uno scambio bizzarro.
«Ti dico un segreto, signore.»
«Un segreto?»
«Sì. Non sono un vero bambino, mi sa.»
Fosse stato qualcun altro, la signorina Bevat si sarebbe preoccupata. Ma doveva smettere di preoccuparsi per lui.
Non era più un problema suo.
Bene.
Prologo in cui, se mi conoscete bene ve lo aspettavate già, non succede nulla.
Però conosciamo due personaggi fondamentali, di cui uno mi diverte molto scrivere. L'altro, chi lo sa.
Vabbè, non mi ricordo più come si fanno ste cose. Fatemi sapere che ne pensate.
Elia <3
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