ⅠⅠ. Polvere

La Zona Nulla era l'unico posto in cui Nurey sarebbe dovuta essere.

L'aveva sempre saputo, in un certo senso; credeva di averlo percepito già ancora prima che glielo dicessero, nel modo in cui la direttrice dell'orfanotrofio l'aveva salutata il giorno della sua partenza. E quando le capitava di fermarsi a osservare gli occhi spenti di Magister Ismael, in quello sguardo assente vedeva il riflesso del deserto, la distesa di terra devastata e spoglia che un tempo aveva ospitato i suoi – i loro – antenati. Un tempo, in realtà, lontano persino per Magister Ismael, che non aveva alcuna memoria di quando il popolo Quiteh era stato tale e per cui la lingua era un mistero come per il resto del mondo. Si ricordava la bruciante speranza provata quando l'aveva visto per la prima volta, inconfondibilmente Quiteh come lei nonostante i suoi lineamenti fossero più affilati. Non aveva mai incontrato nessuno con i capelli scuri come li aveva lei e nessuno con la stessa carnagione ambrata, perciò pensare che avrebbe avuto tutte le risposte che cercava era stato quasi naturale. Ma Magister Ismael non le aveva, e con il passare degli anni Nurey si era quasi rassegnata all'idea di non riceverle mai. Quasi.

Perché in quel momento, con gli occhi che non si riempivano d'altro se non terra spaccata e alberi secchi e montagne ocra che svanivano nell'aria carica di polvere e di magia, assieme a un soffocante nodo alla gola, lei aveva sentito qualcos'altro. Una scintilla di speranza minuscola, abbastanza insignificante da poter essere ignorata. Ma lei non l'aveva fatto. Quello era il posto in cui la sua gente aveva vissuto per secoli, e la magia primordiale non poteva aver cancellato ogni traccia della loro presenza. Anche se il motivo per cui si trovava lì era un altro... si sforzò di non esaltarsi troppo.

Scosse la testa. Il motivo per cui si trovava lì era un altro, e lei avrebbe fatto bene a ricordarselo – la Zona Nulla era un luogo pericoloso ed era compito suo renderlo meno pericoloso, a prescindere da cosa desiderasse. Le parole di Magister Ismael, però, l'avevano perseguitata per tutto il viaggio, da sveglia e non, magari pronunciate in un modo diverso, ma sempre con lo stesso significato: non poteva fare nulla e sarebbe stato tutto inutile. Cercava di incastrarle tra tutto ciò che le aveva insegnato, tentando di dar loro un senso coerente, tentando di trovare una ragione per cui avrebbe dovuto dire una cosa del genere, per poi convincersi che doveva voler dire qualcos'altro e infine sprofondare nella catastrofica certezza che tutta la sua vita era stata un'illusione, una delle tante opere d'imitazione della realtà della Biblioteca di Vetro, costruita a regola d'arte e a sue spese.

Nessuno di quei ragionamenti era sensato e lei lo sapeva. Perciò, in mancanza di possibilità razionali, aveva deciso di far finta che quelle parole non avessero mai raggiunto le sue orecchie, almeno finché non avesse incontrato Magister Ismael di nuovo. Allora avrebbe preteso spiegazioni. Ma nel frattempo, forse lui si sbagliava, forse poteva aiutare. Se non altro, ci avrebbe provato.

Un alito di vento le soffiò sulla nuca, simile a un respiro gelido trattenuto per troppo tempo.

Rabbrividì e portò la mano sul retro del collo, sfregandolo per racimolare un po' di calore.

Qualcosa di peloso e tremante sfiorò le sue dita.

Nurey strillò. Allungò le mani dietro sé, alla cieca, scrollandosi il vuoto di dosso. Delle zampette affilate le artigliavano le spalle e lei dava manate ovunque le sentisse, in un vano tentativo di liberarsi di qualsiasi cosa la stesse attaccando. Riuscì, alla fine, ad urtare un piccolo corpo che pareva dimenarsi, e con un colpo secco lo mandò a schiantarsi a terra, il tonfo attutito dalla polvere.

Tese le dita a richiamare la magia, pronta a scagliarla contro il suo avversario e poi, piano, si girò, lo sguardo rivolto al suolo per individuare ciò che le era salito addosso. Tutto ciò che vide fu un topo grassottello che tremava come se stesse per esplodere, appollaiato sopra un paio di scarpe bianche e lucide.

Scarpe bianche che, si rese conto Nurey quando alzò gli occhi dall'animaletto, appartenevano a un ragazzo dai capelli fulvi e un'espressione decisamente contrariata.

«Non è una cosa molto carina da fare, sai? Poteva farsi molto male, » sentenziò. Parlava un Asoyano sciolto e privo di accento, cosa che non mancò di sorprenderla; non avrebbe dovuto farlo, considerato che, da quanto le aveva raccontato Magister Ismael, ormai lo parlavano quasi tutti, eppure il suo aspetto contrastava con i suoni rochi e spezzati della lingua al punto da lasciarla senza parole per qualche secondo.

Il ragazzo alzò un sopracciglio.

Si rese conto che si aspettava delle scuse, e a buon diritto. Un calore bruciante le affiorò alla gola, dal colletto dell'abito, e non aveva bisogno di guardarsi allo specchio per sapere di star arrossendo.

«Mi dispiace molto, » balbettò, e il modo in cui la sua voce suonò – bassa, roca – le provocò ancora più agitazione, «Non intendevo fare del male al tuo topo. »

Per qualche strana ragione, il ragazzo assunse un'aria indignata. Strinse le labbra, mentre puntualizzava, «Archibald è un ratto

Nurey avrebbe voluto dire che aveva sempre usato le due parole come sinonimi, ma la distinzione, qualunque essa fosse, sembrava importare molto al ragazzo, per cui temeva che sarebbe parsa insensibile o impertinente, e avrebbe peggiorato la situazione già non ideale. Tipico da parte sua, iniziare una convivenza che in potenza poteva estendersi fino a un decennio con un tentato omicidio a un animale domestico. O almeno, Nurey suppose che il ragazzo doveva essere un alumnus, dato che non c'era ragione di trovarsi lì per qualcun altro, e questa supposizione dava origine a parecchie domande. Alumnus, sì, ma di quale congrega? E l'altro dov'era? E poi, insomma, nessuno lo aveva informato del divieto di portare con sé animali?

Sbatté le palpebre. Non aveva ancora fatto l'unica cosa che doveva fare - scusarsi in maniera appropriata.

«Scusami tanto per aver fatto del male al tuo ratto, allora. Mi sono spaventata, » ammise, abbassando lo sguardo. Aveva proprio delle belle scarpe, quel ragazzo, i lacci dal colore rosato parevano nastri e il cuoio bianco non aveva la minima traccia di sporco, come se le avesse appena pulite. Il pensiero che probabilmente l'avesse fatto davvero la fece sorridere.

Lui non le rispose subito; si era chinato a raccogliere il ratto da terra con molta delicatezza, quasi stesse maneggiando un'opera d'arte antichissima, e l'aveva infilato nel taschino del suo panciotto rosa antico. Era bello anche quello, notò, con le sue tenui roselline ricamate sopra. L'animaletto si dimenò per un po', visibile anche se nascosto dal tessuto, e allora il ragazzo chinò il capo, sussurrò qualche parola inudibile in tono dolce, e diede un buffetto al muso che spuntava dalla tasca. Poi la guardò con aria sorpresa, e Nurey ebbe l'impressione che si fosse per un attimo dimenticato della sua presenza.

«Non preoccuparti, adesso sta bene. Non voleva spaventarti, ma soffre un po' la solitudine da quando Bridget è morta.»

Lei corrugò la fronte.

«Bridget era il mio altro ratto, » chiarì il ragazzo, « i ratti vivono molto poco ma, ovviamente, questo loro non lo sanno. »

«Oh. » Si dovevano fare le condoglianze per un ratto morto? Non lo sapeva, e sarebbe stato imbarazzante chiederglielo, dato che le reazioni di lui alle sue affermazioni, fino a quel momento, erano apparse parecchio inusuali. Quasi per confermarlo, lui tossicchiò, guardandosi in giro. Non l'aveva guardata negli occhi una sola volta, e forse qualcuno avrebbe preso questo comportamento come maleducato, ma Nurey aveva vissuto con Magister Ismael per così tanto tempo da essere abituata alle persone che non la guardavano negli occhi – anzi, che non la guardavano affatto.

«Ci dobbiamo presentare? » chiese il ragazzo all'improvviso. Sembrava una domanda genuina, e Nurey avvertì una strana fitta al petto, una sensazione di disagio simile alla nostalgia, salvo che in quel caso sarebbe stata nostalgia di nulla che avesse conosciuto. Piegò le labbra in un piccolo sorriso.

«Immagino di sì, » disse. Gli tese la mano, in un gesto che le parve ridicolo e troppo adulto per lei. Si accorse anche che si era dimenticata di indossare i guanti, e la sua mano tesa si mostrava in tutta la sua sgraziataggine, il palmo paffuto, le dita robuste e spigolose, le nocche arrossate dove la pelle si era aperta. Il ricordo di qualcosa che faceva fatica ad ammettere persino a se stessa, e a pensarci le venne voglia di girarsi e scappare via.

«Io sono Nurey, » balbettò invece, «Vengo dalla Biblioteca di Vetro. »

Lui annuì. «Est, giusto? » disse, ma era chiaro che conosceva già la risposta, per cui evitò di confermarlo. Comunque, era occupato a osservare la sua mano, non con un'espressione di disgusto come si aspettava, ma con sincera confusione, quasi stesse ragionando su cosa farci. Dunque la prese tra le sue e, in un gesto impacciato, l'avvicinò al suo viso e la sfiorò con le labbra.

Nurey lo fissò per un attimo che parve un eternità, sbattendo le palpebre allibita. Provò a dire qualcosa, aprì la bocca e poi la richiuse, anche perché non trovava nulla di intelligente da dire. Nemmeno nella sua testa c'era alcun pensiero intelligente da pensare. Aprì la bocca di nuovo. La richiuse di nuovo. Si sentì avvampare. «Eh? » fu tutto ciò che riuscì a pronunciare, consapevole e vergognosa del fatto che dovesse avere la stessa espressione vacua di un pesce.

Il ragazzo lasciò andare la sua mano come se fosse stata quella di un appestato, il vermiglio che dalla punta delle orecchie si espandeva ad infiammarle tutte mentre scuoteva la testa in segno di scuse.

«Non intendevo turbarti, ma Magistra Ilka mi ha raccontato che ad Eistreth ci si presenta così quando... sì, insomma, comunque, non ho ancora capito come si fa senza mettere a disagio qualcuno. Tu di solito come ti presenti? »

Nurey scrollò le spalle. Faticava a seguire il filo del discorso – le venne il dubbio che nemmeno lui sapesse cosa dire, ma non importava molto. Ilka. Quel ragazzo era l'alumnus del Nord, come avrebbe dovuto capire dall'Asoyano sciolto e dalla sensazione di freddo quasi impercettibile che aveva provato quando l'aveva toccato. Magister Ismael si adombrava quando gli faceva domande sulla congrega del Nord, borbottava qualcosa che in teoria non doveva raggiungere le sue orecchie sul modo in cui aveva trattato il figlio e cambiava in fretta argomento, meno sereno di prima.

Quel ragazzo, nonostante tutto, si comportava in maniera gentile, e lei non conosceva abbastanza bene né Magistra Ilka né il suo metodo educativo per essere prevenuta a riguardo.

«Generalmente si stringe la mano, ecco perché te l'ho tesa,» spiegò. Si sentiva di ingannarlo, fingendosi esperta in una materia su cui era ignorante quanto lui : non le era capitato molte volte di doversi presentare a qualcuno, dato che le persone con cui interagivano quasi sempre la conoscevano da quando era piccola. Però aveva osservato a lungo il modo in cui Magister Ismael faceva affari con gli avventori, e doveva pur servire a qualcosa.

«E poi... Beh, diciamo che mi piacerebbe sapere il tuo nome,» aggiunse in tono scherzoso.

Lui le tese la mano di scatto, come ansioso di adempiere a quel rito di passaggio, e la strinse un po' troppo forte, però non era il caso di farglielo notare.

«Mi chiamo Etienne. Del Nord. Hai una bella mano, però dovresti tenere la pelle più idratata, altrimenti ti si spacca e brucia da morire. Non hai una crema? Posso dartene una io, ne ho fin troppe.»

In effetti, la mano del ragazzo – Etienne, si corresse con un sorriso, apprezzando il modo in cui il suono scivolava via elegante – era morbida come se non avesse mai lavorato un giorno in vita sua, salvo un prominente callo dello scrittore, e le unghie erano fin troppo regolari per essere di quella forma in natura. Certo, nessuna crema avrebbe potuto sistemare i sottili graffi che aveva sulle dita e che Nurey identificò come segni di lotta da parte della bestiola ora appallottolata e dormiente nella tasca di lui. Quel dettaglio le causò una sciocca sensazione di calore al petto, una bizzarra tenerezza. Corrugò la fronte per la stranezza di quel pensiero.

«Te ne... chiederò una, dovessi averne bisogno. »

Lui annuì, sollevato.

Nurey notò, guardandosi attorno, che il sole andava scendendo. Il cielo si colorava alla base di tinte rosa e arancio, ma erano più accese degli albeggi a cui era abituata, violente, quasi, come se l'orizzonte stesse prendendo fuoco sotto i suoi occhi. Aveva passato molto tempo senza vedere un tramonto, e in quel momento si ritrovò ad osservarlo con la stessa curiosità per qualcosa di lontano, come aveva osservato gli arazzi di Magister Ismael ritraenti soggetti che non aveva mai visto.

«È molto bello,» disse piano. Etienne annuì, indicando una nuvoletta color albicocca, «Ho una sciarpa di quel colore.»

Nurey pensò che avrebbe voluto vederla. Era difficile crescere alla Biblioteca di Vetro senza acquisire un gusto per abiti belli e un occhio per le sfumature, e lei doveva ammettere di essere abbastanza attenta al tutto. Non avrebbe potuto fare altrimenti, perché "Dimmi, Nureje, di che colore è questa giacca? Azzurra? Ma azzurro polvere o carta da zucchero?" e quasi per natura quella era diventata un'abitudine anche quando non ce n'era bisogno.

Ma era il tramonto quello di cui stavano parlando. Il tramonto nella Zona Nulla. Raggelò.

«Dobbiamo andare,» affermò d'improvviso, girandosi ad afferrare il carrellino del suo baule. Seppur confuso, Etienne fece lo stesso. «Sta per fare buio,» osservò lei di fronte a quell'espressione, «Non ricordavo che qui facesse buio presto, ma...»

Il ragazzo sbiancò, e Nurey era sicura che nella sua mente stessero affiorando le stesse parole che a lei avevano raccontato da quand'era piccola.

«Non è una scelta saggia trattenersi qui durante la notte,» concluse Etienne in fretta, e iniziò a camminare in fretta per sottolineare l'affermazione. Indicò la casa degli alumni, un piccolo edificio grigio e spoglio in mezzo alla terra nuda. «Sembra abbastanza vicino, comunque.»

Non lo sembrava affatto, ma decise di tacere per non agitare ulteriormente la situazione.

Camminarono in silenzio per qualche minuto. Erano stati incoscienti ad attardarsi tanto sul molo, e il peso del loro errore gravava tra di loro e impediva di riprendere la loro conversazione, anche se avrebbe allentato la loro inquietudine. Etienne lanciava occhiate nervose all'interno della sua tasca, dove il suo ratto iniziava a muoversi e scalciare, piccole unghie tese a bucare il tessuto. Il peggior momento per svegliarsi, considerò lei.

Il ratto squarciò la tasca e piombò sul terreno, girando su se stesso disorientato.

Etienne sbuffò. «Archibald, dai, andiamo...»

Si chinò e lasciò che gli salisse sulla mano, «Devi imparare a startene buono.»

Poi Nurey non lo vide più.

Aprì la bocca per chiamarlo, ma una folata di vento bollente le riempì la bocca di polvere e si rese conto, mentre il terrore le bloccava lo stomaco, che era l'unica cosa a circondarla. Le turbinava attorno e gli occhi le bruciavano, le bruciavano troppo, se li strofinò violentemente con il palmo della mano ma anche quello era sporco di polvere, e non fece altro che peggiorare la situazione. Annaspò. Sentiva i polmoni bucati, incapaci di immagazzinare aria se non per risputarla subito fuori, e non riusciva...

Era capitata in un picco di magia. Sapeva come spianarla, si disse, aveva imparato a farlo da quando era piccola, tutto ciò che doveva fare era separare tutto il Caos che si era addensato attorno a loro, non era difficile, non era difficile.

Tese le mani davanti a sé e si concentrò. Faceva caldo.

Sentiva i legami che tenevano ogni singola particella di Caos stretta all'altra, bruciavano sulla punta delle dita come tizzoni ardenti, ma quando tentò di spezzarli come spesso aveva fatto prima, il calore non fece che aumentare.

Ci riprovò. La polvere si era attaccata a ogni centimetro scoperto del suo corpo come una seconda pelle, bruciava e la soffocava.

Una volta, da piccola, si era sporcata così tanto giocando nel bosco che la terra si era incrostata sotto le unghie. Aveva provato a pulirsele con il sapone, con lo spazzolino, ma continuava a vedere sporco, e perciò aveva dovuto tagliarsele così corte da farsi male. Aveva avuto l'impressione di avere la terra sotto le unghie per mesi, dopo quel giorno, anche quando non era così, e l'odore del bosco le riportava immediata l'orribile sensazione. Nurey non si trovava in un bosco, in quel momento, ma si sentì allo stesso modo, sporca e piccola e stupida, mentre in uno scatto d'irrazionalità abbandonava la magia per grattarsi i polsi.

Fu un errore.

In quel momento, il Caos la investì come un fiume in piena, tutto quel calore devastante e il vento, l'aria bruciante carica di polvere. Le gambe le cedettero e cadde, con il risultato di riempirsi la bocca di terra ancora di più. Emise un singhiozzo strozzato. Non poteva sopravvivere a quel posto. Non ci sarebbe mai riuscita, quindi perché tentare?

Avrebbe deluso Magister Ismael e avrebbe deluso tutti quanti, ma era ciò che era destinata a fare dal principio. La Zona Nulla era l'unico posto in cui sarebbe dovuta essere, e l'unico in cui sarebbe dovuta morire. Tra poco la polvere le avrebbe chiuso i polmoni, la pelle si sarebbe staccata dal corpo. Era inevitabile, quindi si accucciò e attese.

E attese.

E attese.

Il vento cessò. Nurey aprì gli occhi, confusa, e una forza incredibile la strappò dal suolo. L'aria – fresca e pulita, cos'era successo? – le riempì i polmoni tutta d'un colpo, e tossì polvere e terra. Non riusciva bene a vedere o a comprendere cosa le stava attorno, ma individuò una figuretta minuta poco più avanti a lei. Quando cercò di metterla a fuoco una nausea orribile la colpì, perciò decise di lasciarsi trascinare senza fare troppe domande. Muoveva a malapena i piedi davanti a sé, la terra le sfuggiva da sotto le suole, e pensò, incoerente, che aveva lasciato indietro il suo baule.

La porta della casa degli alumni sbatté dietro sé, e fu forzata su una poltroncina sgualcita. Ansimando, strizzò gli occhi finché non riuscì a osservare l'ambiente circostante. Etienne, seduto scomposto sul pavimento, le rivolse un tetro cenno di saluto. Un rivolo di sangue gli sfuggiva dal naso e i suoi graziosi vestiti chiari erano sporchi e strappati. Nurey tentò di sorridergli, felice che anche lui fosse lì.

Una colorita esclamazione le fece voltare il capo verso la porta, e lì conobbe finalmente l'aspetto della sua salvatrice. Sgranò gli occhi.

Davanti a lei, con le mani appoggiate sulle ginocchia e il respiro pesante, c'era una ragazzina. Minuta, la pelle scura come la notte e perle e piccoli cristalli infilati nelle treccine. Non poteva avere più di quattordici anni.

«Cosa-» Nemmeno lei sapeva cosa voleva chiederle. Cosa è successo, cosa ci fai qui, cosa abbiamo accettato di fare?

La ragazzina le lanciò un'occhiataccia e la voce le morì in gola.

«Dite un po',» sbottò con un tono di voce sottile che contrastava con l'aggressività della sua inflessione, «Quanto tempo avete intenzione di restare vivi?»

Salve, miei dolci pargoli. 

Scusate per l'assenza vergognosa e per il capitolo di qualità scadente - vorrei avere qualche parola per giustificarmi, ma non ce l'ho. Lmao. 

Comunque, piano piano stiamo andando a inserirci nel contesto, che sicuramente sarà molto stabile e non cambierà del tutto nel prossimo capitolo!

E avete avuto la (s)fortuna di conoscere personaggi che saranno piuttosto importanti nel corso della storia, Etienne e un decimo di Vespertine. Che dite?

Che ne pensate?

Vogliamo fare il totomorte?

Sperando che non abbiate troppo odiato questo capitolo, io vi saluto e vi prego di esserci per il prossimo, che forse sarà un pochino meglio. Ogni singolo commento che ricevo mi scalda il cuore e vvb sul serio.

Baci, 

Elia <3

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