Capitolo 7

Tutto ciò che riduce un cervello in uno stato di confusione e smarrimento, altro non é che un filo sospeso nel vuoto, tenuto fermo all'estremità da due torri alti.

Tutto ciò che ci riduce in uno stato di depressione altro non é che un tunnel buio, dove luce non c'è ne. Non ci sono voci o persone intorno noi. Ma solo silenzio e il nostro guscio vuoto, la mente staccata da tutto e vuota.

Non esiste niente se non solo noi e il zero assoluto.

Tutto ciò che ci riduce pazzi o cambio di personità altro non é che un ronzio di voci che sentiamo non appartenerci. Un secondo io del lato sinistro del nostro nascosto subconscio che sovrasta le nostre vere origini.

E John lo sapeva. Lo sentiva. Sentiva che in lui non c'era niente di normale. Sapeva di essere diverso da una normalità. Sapeva che non era normale sentire voci. Sapeva che non era normale vedere cose che forse in realtà nemmeno esistessero e che potevano comunicare con lui. Aveva paura del buio John, ma non per via delle cose strane, ma perché credeva che l'oscurità altro non era che la concretizzazione dell'abbandono. Dell'essere soli. E se da un lato c'erano i mostri senza cuore, dall'altro, invece, c'era l'oscurità che lo avvolgeva come abissi più profondi di un oceano notturno.

E anche quel giorno colazione saltò. L'ottuso silenzio regnava, ma nonostante le insistenze dei medici per avere anche almeno in minimo, un poco di conversazione, si era ostinato in quel gioco del silenzio. Del pazzo che avevano recluso nella sua stanza ancora per il momento tracce non c'è ne erano. Ma per John forse poteva essere soltanto un bene quello .

Potevano essere forse le 11: 15 quando fu chiamato per una seduta. Fu portato da altri medici sino al piano superiore dove lo studio addobbato della dottoressa R. Filibong faceva  da vita a quel corridoio bianco e fastidioso.

Bussò un paio di volte da indeciso e attese che qualcuno da lí dentro gli desse il permesso per entrare. Non passò poi molto che una voce profonda e calma rispose.

Entrò e si chiuse la porta alle spalle.
La donna alta seduta alla scrivania e dai capelli castani tenuti legati in alto da una crocchia, con un sorriso bianco e raggiante la facevano sembrare una persona cordiale.

Ma John non riusciva comunque a fidarsi. Gli metteva giusto un poco una nota di inquietudine.

La donna lo fece stendere su una poltroncina a sdraio e prendendo agenda e penna, cominciò una lista di domanda, delle quali anche se non volente, John fu comunque obbligato a rispondere.

« Bene John. I tuo genitori ? »
Chiese la dottoressa, memorizzandosi a mente ogni sua piccola reazione o espressione.

John deglutí, e con gli occhi lucidi e persi già nel vuoto raccontò.
« N-non c'è gli ho ».
Disse.

« John hai una splendida madre che ti vuole bene, ho avuto modo di parlare con lei. Perché dici di non avere qualcuno ? » chiese la dottoressa con l'intenzione di voler studiare di più la mente del suo piccolo paziente. Lei era lí per ascoltarlo.

« N- non c'è gli ho ».
Si ostinò.

« Va bene così Jhon. Adesso però raccontami un po' di te. Cosa senti, che cosa ti succede ? Io sono qui per ascoltarti e aiutarti. Abbi fede in me »disse assottigliando gli occhi a dietro due lenti spesse da occhiali da vista e poggiando la mano libera sotto al mento.

Ci fu un momento di esitazione e nel quale John per qualche strano motivo e all'improvviso entrò in una sorta di trance in bilico senza fine. La dottoressa lo aveva capito. Da come il paziente aveva cambiato del tutto l'espressione e da come gli occhi sembravano vuoti. Il suo corpo indistintamente aveva appena preso a tremare di poco.

John scosse il capo, iniziando a dondolare col busto e giocando con le mani tra loro, facendole incrociare e girare.
« N- non posso parlarne ».

« E perché no ? ».

John si morse la labbra e prese a guardarsi in giro, in cerca di qualcosa o meglio, di qualcuno
« Lui é qui. N-non posso. Ci ascolta ».
Mormorò prendendo a guardare fisso e con la testa di un poco inclinata di un lato il muro bianco e con uno specchio grande appesoci sopra.

La dottoressa R. Filibong incuriosita da quella storia e intenzionata a scoprirne di più, aggrottò lo sopracciglie folte scure e ben curate.
« Chi é lui ? E cosa ti dice ? Più o meno da quant'é che lo senti ? ».

« L-Lo vedo. Lui e qui ».
Disse  indicando il muro.

La dottoressa seguì la sua traiettoria. Ma non vi vide nessuno.

« Cosa ti sta dicendo ? Puoi dirmelo ? ».

John prese a scuotere con vigore la testa e a dire senza sosta dei noi uno dietro all'altro.

« No. No. No. Ti ho detto che non voglio farlo. Non puoi. Non puoi ».
Iniziò a dire sempre un poco più forte, mentre si dimenava come un ossesso.

La dottoressa lasció di corsa il suo posto e corso preoccupata dal suo paziente. Si inginocchiò per terra e lo tenne fermo dalle braccia.
« John sta calmo. Va tutto bene. Non c'e nessuno. Sei al sicuro » gli parlò dolcemente.

Ma ciò non fermò comunque a calmare il ragazzo che continuava a gridare e a muoversi come un pazzo sulla poltrona.

« NO ! NO ! NON SONO IO. NON VOGLIO FARLO. NOOO ! TI PREGO LASCIAMI » pianse fortemente in un unico grido che straziò del tutto il cuore della dottoressa che fu costretta ad alzarsi e raggiungere il cassetto alla sua scrivania, prendendo da dentro un tranquillante.

Poi ritornò da lui e con una scusa sussurrata amorevolmente la iniettò nel braccio del più piccolo, che poco tempo dopo, prendendo a ritornare in sé chiuse gli occhi in un piccolo sonno tranquillo.

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