Capitolo V - Grovigli
Spilli contro la carne e graffi lungo la pelle. Doveva esserne piena.
Svegliarsi non era mai stato così doloroso.
Faticava a credere che quell'ammasso gonfio e indolenzito fosse davvero la sua faccia. Il naso le formicolava, così come le tempie e lo zigomo sinistro. Il palato era impregnato di un sentore così ferroso e dolciastro da farle venire la nausea. Nausea che aumentò a dismisura quando dai ricordi emerse il viso ghignante di La Quica.
Cercò di muoversi, ma nessun muscolo rispose alla chiamata. Il suo corpo era sprofondato in qualcosa di soffice e caldo - un letto, la informò l'inconscio - che l'avvolgeva e la teneva al sicuro. Sarebbe rimasta immobile per sempre, lontana dal resto del mondo.
Ma il mondo non lascia in pace le sue vittime, nemmeno quelle che chiedono pietà.
Voci attutite le giunsero alle orecchie, prima flebili e delicate, poi sempre più agitate. Il tono crebbe. Riusciva a distinguere la voce di Peña ora, continuamente interrotta da quella nervosa di un altro uomo.
Voleva scappare. Non importava dove, bastava andare lontano. Ma i muscoli non le obbedivano, e ogni neurone sembrava concentrare la propria attenzione solo sul suo fianco destro, dove le costole facevano saettare stilettate infuocate a ogni respiro.
«Merda, Javier, come cazzo ti è venuto in mente?»
Lo sconosciuto ora sembrava più vicino. Maritza cercò di aprire gli occhi, ma le palpebre rifiutarono di obbedirle. Le avevano messo qualcosa sopra l'occhio destro, qualcosa di duro e freddo.
La risposta di Peña, ammantata di stanchezza e nervosismo, non si fece attendere molto: «Non avevo altra scelta».
«Credo che tu avessi opzioni migliori di questo» commentò l'uomo. «Ad esempio, lasciarla lì. O chiedere aiuto a qualcun altro, senza coinvolgere mia moglie, cazzo.»
«Steve, calmati» intervenne una voce femminile, incredibilmente vicina all'orecchio della ragazza. Maritza sussultò per la sorpresa. Il fianco rispose con una pugnalata dritta alle costole, facendola gemere.
«Si sta svegliando» osservò la donna, prima di sfiorarle la mano sana con delicatezza.
L'occhio sinistro della ragazza riuscì finalmente ad aprirsi abbastanza da fare entrare la luce artificiale che inondava la stanza. Quello destro, invece, rimase ostinatamente immobile sotto quella che riconobbe essere una bistecca congelata. Fu invasa da un'ondata di nausea.
La donna che le aveva sfiorato le mani un attimo prima era china su di lei, il volto illuminato da un calmo sorriso. Le pupille, contornate da iridi color dell'acciaio, la scrutavano con insistenza. Con gesto meccanico, tirò fuori una pila e controllò il riflesso pupillare alla luce. Annuì tra sé più volte, poi le chiese: «Ti ricordi come ti chiami?».
«Maritza» rispose rauca. Si chiarì la voce. «Maritza Rincòn.»
«Io sono Connie» si presentò. «Cos'è successo?»
La ragazza richiuse l'occhio. Le labbra le tremarono quando i volti dei suoi assalitori comparvero dietro le palpebre.
«La Quica» sussurrò, come se quel nome fosse sinonimo della cattiveria stessa. «E Limòn.»
La voce di Javier, carica di rimprovero, rimbombò poco lontano: «Cosa gli hai detto?»
Maritza sentì un fiotto di rabbia liquida montarle dentro, invaderle i polmoni e lo stomaco e concentrarsi ai bordi della cassa toracica. Non rispose, né si girò a guardare l'agente. Aveva di nuovo schiuso l'occhio e si stava osservando la mano destra, completamente fasciata. Il rumore delle ossa che si spezzavano le riecheggiava ancora nei timpani. Provò a muovere le dita, ma la fasciatura era troppo stretta. Il dolore s'irradiava lungo di esse allo stesso ritmo delle pulsazioni del cuore.
È tutta colpa tua, agente, pensò. Tutto questo è colpa tua.
Connie seguì lo sguardo di Maritza e, con un sospiro, spiegò: «Sei arrivata con tre falangi rotte e il pollice lussato. Ho steccato tutte e tre le dita, ma ci vorrebbe una radiografia per capire la gravità del danno. Anche il legamento del pollice potrebbe essere stato danneggiato. Il viso sembra a posto, ma bisognerà aspettare che si sgonfi per esserne certi».
Maritza sbatté lentamente le ciglia in un muto segno di ringraziamento. Lo sguardo si spostò dal viso sorridente di quella che, con ogni probabilità, era un medico alla stanza che la ospitava. Scoprì di trovarsi nella camera di qualcuno. Era il doppio di quella che, fino a poche settimane prima, aveva diviso con sua figlia, ma le dimensioni dei mobili la facevano sembrare molto piccola. Il letto matrimoniale su cui giaceva e un armadio fuori moda e un vecchio comodino occupavano tutto lo spazio. Alla sua destra, opposta alla porta, vi era una finestra troppo grande. Fuori era ancora buio.
«Dove mi trovo?»
La donna guardò in direzione della porta e Maritza, con calma e trattenendo a stento una smorfia di dolore, fece lo stesso. L'agente Peña era appoggiato allo stipite, il volto ridotto a una maschera impassibile.
Né lui né la donna risposero alla sua domanda. Non era necessario.
«Devo andarmene» disse, puntellandosi sui gomiti. «Mia figlia è...»
L'ennesima fitta alla cassa toracica la fece gemere di dolore, impedendole di concludere la frase.
Il medico corrugò la fronte e, senza chiederle nulla, le sollevò la maglietta, esponendo la pelle alla luce gialla della lampada. Un ematoma si era allargato all'altezza del costato, tingendole il fianco di chiazze rossastre. Qua e là si distinguevano già dei lividi più scuri, violacei.
«Di certo non te ne andrai finché non ti avrò visitata per bene» dichiarò Connie, prima di lanciare un'altra occhiata al padrone di casa. Fu uno sguardo deciso, che non ammetteva repliche.
Con enorme sollievo di Maritza, l'agente Peña si allontanò.
«No digas nada» borbottò. Non dire niente.
Poi si chiuse la porta alle spalle.
«Devi esserti proprio bevuto il cervello, cazzo.»
La voce di Steve scivolò, indisturbata e innocua, lungo le spalle del collega, il quale non lo guardava nemmeno. Gli occhi di Javier erano riservati al mobiletto dei liquori, che sembrava fissarlo a sua volta in modo furbesco, quasi malizioso. L'agente si riempì il bicchiere di whisky e finalmente immerse le pupille, cerchiate dalle stanchezza, nel liquido ambrato.
«È lei, non è vero?» chiese Steve, «è la stronza che ha fatto ammazzare Carrillo».
Avrebbe voluto annegare nel whisky. Oppure strozzarsi. Qualsiasi cosa sarebbe stato meglio di quella conversazione.
Ma l'agente Murphy non era uomo dalla facile resa.
«Aiutami a capire, Javier, perché da solo proprio non ci arrivo. Ti presenti da mia moglie, sporco di sangue dalla testa ai piedi, coinvolgendola in... cosa? Un rapimento? Un fottuto salvataggio?»
L'orologio scandiva i secondi con un ticchettio tetro, quasi tombale, e di nuovo l'agente percepì lo strisciare, ormai familiare, delle squame del boa contro il cranio. Il tempo gli sfuggiva dalle dita come sabbia in una clessidra, e non riusciva a trovare una risposta decente da offrire al collega. Perché Javier si sentiva terribilmente limitato.
Avrebbe davvero voluto spiegare ogni cosa, chiedere aiuto, cercare di trovare una soluzione - due cervelli, dopotutto, sono notoriamente meglio di uno solo.
Ma, allo stesso tempo, non voleva. Né poteva, a dirla tutta.
Judy Moncada, Don Berna, i Castaños, il rapimento di Velasco... erano tutti dettagli off limits.
Per fortuna, però, fu lo stesso Steve ad andargli incontro.
«Sei andato a cercarla senza dire niente né a me né al Blocco... Volevi farti giustizia da solo» sussurrò, il tono amaro come bile e gli occhi bassi, fissi sui lacci delle scarpe. Sapeva che l'amico era rimasto sconvolto dalla morte di Carrillo, ma addirittura trasformarsi in un giustiziere notturno? Pensava di essersi trasformato in Batman?
Javier prese la palla al balzo: «Volevo solo arrestarla. Ho chiesto a Gabby il suo indirizzo e sono andato lì.»
«Chi è Gabby?»
Peña agitò una mano, come per scacciare la domanda scomoda, ma Steve lo conosceva abbastanza da capire. Perché Javier non aveva amiche in Colombia, né parenti. Aveva solo amanti della peggior specie.
«Quando sono arrivato, era già in questo stato» sospirò.
Quello che seguì fu una sfida di improvvisazione. Abbozzando dettagli e schivando domande scomode, Javier gli raccontò la scena alla bell'e meglio. Descrisse il rifugio di Maritza, il sangue che si era allargato sul pavimento, mozzandogli il fiato per la sorpresa e sporcandogli irrimediabilmente la camicia. La finestra, che dava sui tetti vicini, spalancata.
Eppure Steve, che continuava ad ascoltare impassibile, si limitò a rispondere: «Beh, per quale fottuto motivo l'hai portata qui? Dovevi lasciarla all'ospedale più vicino. O al Blocco.»
Il collega si trattenne dall'alzare gli occhi verso il soffitto.
«È ricercata, Steve. L'avrebbero arrestata... e non si sarebbero risparmiati durante l'interrogatorio» disse.
Si ricordava molto bene le torture dei testimoni protratte ore, se non addirittura giorni; il modo in cui Carrillo teneva a testa in giù le sue vittime finché non parlavano, spesso appendendoli per i polsi finché i tendini non si sfilacciavano e le articolazioni non si lussavano. Con un lungo sorso, cercò di annegare la nausea che si faceva strada lungo l'esofago.
«Non capisco dove sia il problema, visto che eri andato lì con un'intenzione tutt'altro che nobile» gli fece notare l'amico, prima di sollevare le sopracciglia in un'espressione dubbiosa. «Dai per scontato che sia innocente» comprese. «Perché?»
«È stata ingannata, Steve. Perché pensi che le abbiano fatto questo, altrimenti?»
L'agente Murphy scosse la testa.
Javier non faticava a immaginare quale angosciante ricordo si fosse depositato dietro le iridi celesti: un corpo scomposto, ormai senza volto, sfigurato. Perché certi incubi, certe atrocità, non si potevano dimenticare.
Tanto meno le aveva dimenticate lui, che aveva mandato Carrillo a morire.
«Se solo avessi il minimo dubbio, se ci fosse anche solo la remota possibilità che lei sia colpevole, sarei il primo a spararle» mormorò, e il tono fu così cupo, così micidiale, che Steve si ritrovò ad annuire piano, forse senza accorgersene, con le labbra strette in un sorriso amaro.
«Strano che non l'abbiano ammazzata, comunque.»
Le mani di Javier tastarono le tasche dei pantaloni in cerca delle sigarette. «Credo che questo suo amico, questo Limòn di cui mi aveva parlato giorni fa, possa avere dei ripensamenti.»
Il tabacco sfrigolò lievemente quando prese fuoco. L'agente si riempì i polmoni di fumo e appoggiò la testa contro la parete, abbassando le palpebre. Sentiva l'emicrania trascinarsi lungo le tempie.
«Quando sono entrato» continuò, «accanto alla testa della ragazza c'era il foro di un proiettile. Un colpo ravvicinato».
«Magari volevano solo darle una lezione.»
Javier scosse la testa. «Conosci La Quica, hai visto come ha assassinato tutte le ragazze del bordello. Non minaccia né si prende la briga di dare lezioni. Lui uccide e basta. Penso che La Quica abbia ordinato a Limòn di sparare...»
«...e lui si sia tirato indietro.»
L'agente Peña annuì, rilasciando sbuffi di fumo grigio. Gli occhi, ancora chiusi, sembravano essersi rifugiati sotto un ciuffo ribelle.
«Ma a quel punto l'avrebbe fatto La Quica. Dubito si sarebbe fatto sfuggire l'occasione» continuò Steve.
«A meno che La Quica fosse già fuori dall'appartamento. Forse si sono sentiti in pericolo. La Quica se l'è filata subito, Limòn è rimasto indietro per ucciderla. Solo che gli è mancato il coraggio.»
«Questo vuol dire che La Quica la crede morta.»
«E Limòn di certo lo convincerà di questo.»
«Bene» disse Steve. «Non ci resta che portarla al Blocco.»
«No, non possiamo.»
L'agente Murphy soffocò un'imprecazione tra i denti. Le conversazioni con Javier erano sempre così: un passo avanti, tre indietro.
«Perché no? Se è innocente come dici...»
La frase rimase a metà. Lo sguardo pensieroso di Steve incrociò quello schivo di Javier, e fu abbastanza per infiammargli lo stomaco.
«Javi?»
Alla fine, Peña fu costretto a vuotare il sacco: «Ha delle informazioni su di me, informazioni che il Blocco non deve conoscere... e lei potrebbe scambiarle per ottenere la libertà».
Steve sbatté le palpebre più volte. «Che cazzo hai combinato, Javier?»
Le mani dell'agente tornarono a tastare le tasche. Continuando con questo ritmo, avrebbe speso tutto lo stipendio in tabacco. Fortunatamente - o forse no - trovò il pacchetto vuoto, accartocciato su se stesso.
«Javier!»
«Devi fidarti, Steve.»
«Vaffanculo. L'ultima volta che mi sono fidato ciecamente di te mi sono ritrovato bendato e ammanettato nella villa di un narcotrafficante!»
Javier sentì i muscoli tendersi sotto il tessuto della camicia e il cuore accelerare le pulsazioni. L'adrenalina e la stanchezza minavano la poca calma e lucidità in suo possesso. Lo stesso, probabilmente, valeva anche per Steve, le cui dita erano sbiancate per la forza con cui stava stringendo i pugni.
Per fortuna, Connie spuntò dalla camera. Si chiuse la porta alle spalle e li guardò torva, in silenzio. Non serviva essere telepatici per comprendere che aveva sentito buona parte delle loro frasi concitate. Sembravano due fratelli sorpresi dalla madre a litigare.
«Ha un paio di costole incrinate e probabilmente ha subito un trauma cranico» li informò, «sempre che ve ne importi qualcosa».
Javier deglutì, approfittando dell'interruzione per riordinare le idee.
«Sono venuto a chiedervi aiuto perché siete gli unici di cui possa fidarmi.»
«Bene, allora fidati anche tu di quanto dico ora» disse Connie, esibendo uno sguardo di rimprovero di tutto rispetto. «Non sopravvivrebbe a un interrogatorio da parte dell'esercito. Carrillo sarà anche morto, ma i suoi metodi sopravvivono, e lo sapete meglio di me. Se poi ha queste informazioni su di te...»
Steve guardò l'espressione fiera di sua moglie e un brivido di eccitazione misto a timore gli scivolò lungo la spina dorsale. La cerva che aveva sposato a Miami si era trasformata in una pantera prudente e scaltra, temprata dalla brutalità di Medellín.
«E quindi? Che facciamo?» Steve si passò una mano tra i capelli biondi. «Merda, Javier, prima o poi la smetterai di coinvolgermi nelle tue puttanate?»
Javier inarcò un sopracciglio. «Non sei mica un santo, Steve.»
«Rimarrà qui finché non avrà i documenti per lasciare il paese. Non ci sono altre soluzioni, lo sapete entrambi» alzò la voce lei, spazientita.
«Merda, come la comunista...» borbottò Steve.
Connie si avvicinò al marito e gli prese il volto tra le mani; un gesto così intimo che Javier si sentì talmente a disagio che quasi decise di interrompere il momento con una battuta infantile. Ma le parole della donna giocavano a suo favore e rimase zitto e immobile, come a voler far parte del mobilio.
«Lui ci ha aiutati con Elisa» mormorò Connie, gli occhi fissi in quelli del marito. «Le ha dato un tetto, un rifugio, il suo cibo. Ha rischiato il suo posto di lavoro per ottenere un passaporto falso. Io l'ho messo nei guai e lui mi ha aiutata. Ci ha aiutati. E ora tocca a noi.»
Steve sbuffò, allontanando le mani di lei dal volto. «Va bene.»
Poi, con uno sguardo molto meno affettuoso, si rivolse al collega: «Questo giro però vedi di non portartela a letto».
«Fanculo, Murphy.»
«Allora, cosa facciamo?»
Javier si staccò finalmente dal muro. Il suo volto riacquistò la determinazione abituale.
«Per ridurre i rischi al minimo durante la sua permanenza qui, dovremo convincere tutti della sua morte. Limòn potrebbe sempre decidere di tornare sui suoi passi e ucciderla, e a quel punto diventerebbe una mina vagante. Dobbiamo assicurarci che la copertura rimanga salda.»
Steve gli scoccò un'occhiata strana, che lo fece assomigliare a una volpe anziana. «Sono tutt'orecchi.»
Precisazioni:
♠ "L'ultima volta che mi sono fidato ciecamente di te mi sono ritrovato bendato e ammanettato nella villa di un narcotrafficante!": Steve fa riferimento al suo finto rapimento messo in atto dal Cartello di Cali con l'aiuto di Javier. Il rapporto tra i due non è mai stato particolarmente facile. Dopo anni come colleghi, Steve e Javi si rispettano e si coprono spesso l'un con l'altro, ma la fiducia è sempre qualcosa di molto delicato.
♠ Steve mastica un minimo di spagnolo, ma ne ha una competenza davvero limitata. Connie, invece, non lo capisce quasi per niente. Per questo l'avvertimento che Javier rivolge a Maritza («No digas nada») è in spagnolo: lo può capire solo quest'ultima.
Angolino dell'autrice:
Lo so, lo so, sono sparita per tanti mesi senza dare segni di vita. Purtroppo, ma anche per fortuna, ci sono state delle novità in questo lungo periodo che hanno richiesto la mia attenzione e le mie energie... e quando finalmente avevo dei giorni liberi, mi mancava totalmente la concentrazione necessaria per scrivere. Come avete sicuramente notato, questo è un capitolo di passaggio, ma anche molto delicato. Spero di non averlo reso troppo pesante, dovevo far chiarire ai nostri personaggi un po' di cose, nonché aggrovigliare ancor di più i loro segreti.
Detto questo, io vi ringrazio immensamente per essere arrivati fino a qui nonostante tutto ♥ Un grazie speciale a chi ha votato e/o commentato i precedenti capitoli: le vostre riflessioni mi aiutano tantissimo a comprendere se mi sto dirigendo dalla parte giusta o meno.
Spero di riaggiornare presto, vacanze permettendo!
Un caro saluto,
Helmwige
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top