Capitolo IV - Cambalache

La radio trasmetteva le note spensierate di un vecchio tango argentino, mentre una delle auto di Escobar si inerpicava tra le strade meno trafficate della città. All'interno del veicolo, l'odore del tabacco si mischiava a quello del grasso che Limón utilizzava per lucidare la sua pistola.

La Quica, con la sigaretta tra le labbra, sbuffava nuvolette di fumo a ritmo di musica. Con la punta delle dita, alzò il volume della canzone, infischiandosi della regola del non dare nell'occhio per nessun motivo. Era euforico da giorni ormai: dopo la morte – o meglio, l'esecuzione – di Carrillo, sentiva che i narcos erano entrati in una nuova era, e nulla poteva togliergli quella sensazione di onnipotenza che in quel momento gli gonfiava i polmoni, facendolo addirittura canticchiare.

«Dobbiamo festeggiare, marica» disse a un tratto La Quica, battendo la mano contro il volante. «Questa sera ci divertiamo.»

«Dove?» chiese l'amico, senza staccare gli occhi dalla sua arma. Nonostante fosse buio pesto, continuava a lucidarla imperterrito. Quel movimento ripetuto gli infondeva sicurezza.

La Quica gli lanciò uno sguardo carico di sarcasmo: «Dove pensi che voglia andare, malparido

Limón alzò le spalle. «Dopo la strage di prostitute, dovremo cercare un altro posto.»

«Strage» ripeté l'amico, rigirandosi la parola contro il palato. «Parli come un telegiornale» commentò, il tono pieno di disgusto, «quelle stronze ci hanno traditi, se lo meritavano. Rimpiango solo di averlo fatto troppo tardi».

E Limón non aveva dubbi sui rimorsi del compagno. Non c'era mai stata pietà nei suoi occhi, né per i suoi amici né per le puttane di Medellín.

«Sai che ti dico?» aggiunse, buttando la sigaretta dal finestrino. «Quando avrò fatto fuori quei due malparidos americani della DEA, mi comprerò un bordello tutto mio.»

La trasmittente gracchiò, sovrastando la musica e interrompendo lo scambio di aspirazioni future dei due.

"Avvistata macchina del gringo a Belen."

«Stiamo andando» rispose La Quica, senza un attimo di esitazione. Inchiodò in mezzo alla strada e cominciò a fare manovra per invertire la rotta.

Limòn lo guardò in tralice: «È dall'altra parte del quartiere... non può andare qualcuno di più vicino?» Gli bastò però una sola occhiata allo sguardo dell'amico per capire che non avrebbe sentito ragioni: non si sarebbe mai fatto sfuggire una preda simile.

«Voglio prendere quel jueputa» ghignò La Quiqa. «È un uomo morto.»

Maritza vide l'auto dell'agente Peña imboccare la via principale e fermarsi proprio davanti alla sua abitazione, fuori dai coni di luce dei lampioni. Ormai aveva imparato a riconoscere il veicolo anche al buio.

Fece un respiro profondo, cercando di calmare l'ondata di speranza che le aveva incendiato il petto. Guardò l'agente della DEA dirigersi verso il portone finché non sparì alla sua vista; dopodiché cominciò a contare i secondi, col cuore che batteva furiosamente dietro le costole. Cercò di controllare il respiro e aspettò pazientemente dietro la porta, nell'attesa di sentirlo bussare.

Forse l'avrebbe trovato con in mano i suoi documenti falsi.

Forse le avrebbe consegnato i biglietti di sola andata per Miami o, perché no?, perfino Los Angeles.

Ma quando l'americano annunciò la propria presenza, le sue aspettative precipitarono. Riconobbe l'esitazione nel modo in cui le nocche avevano colpito il legno della porta: il suono era lo stesso di quando, da bambina, aveva bussato all'ufficio del preside dopo essere stata pescata nel bel mezzo di una marachella.

Quando aprì, lo sguardo di Peña era impassibile.

«Ha funzionato» annunciò, la voce priva di qualsiasi emozione, «ora siamo pari».

Tutto lì.

Maritza continuò a guardarlo in silenzio, aspettando qualcos'altro, qualsiasi cosa, perché non poteva di certo limitarsi a quello. Ma l'agente non aggiunse nulla, non cambiò nemmeno espressione, come se fosse stato detto tutto il necessario.

La ragazza si fece coraggio, strinse i pugni dietro la schiena e disse: «Mi serve il visto per portare la mia famiglia via da Medellín, dove Pablo non possa trovarci».

Peña si strinse nelle spalle. «Non è così che funziona. Non ti sei pulita la fedina, hai solo fatto la cosa giusta. Sulla carta rimani la principale responsabile per la morte di Carrillo, non c'è nessun programma di protezione testimoni per te.»

Maritza si sentì sprofondare tra le travi di legno di quella casa che non era nemmeno sua. «Che vuol dire? Come faccio adesso?»

Come faccio a scappare, a salvare la pelle, a portare via mia figlia? Come faccio anche solo a uscire di casa senza beccarmi una pallottola in fronte?

Sentiva le proprie urla vorticarle nel cranio: un uragano di frustrazione e rabbia che minacciava di portarle via la lucidità. Credé di gridare a squarciagola, di riempire il pianerottolo di epiteti e insulti, ma niente di tutto questo accadde. Dalla sua bocca non uscì nulla, se non un lieve sospiro sconfitto, come se il legame tra corpo e coscienza fosse stato reciso.

«Mi dispiace» concluse lui, il tono piatto privo di qualsiasi amarezza.

Guardò l'agente scendere le scale, gli occhi fissi sul giubbotto di pelle finché non sparì dietro alla parete scrostata dell'ingresso.

Maritza si chiuse la porta alle spalle e si diresse verso la finestra della cucina, che dava sulla strada. In giro, a quell'ora di notte, non c'era quasi nessuno: tutti gli abitanti di quel quartiere abbandonato sapevano che uscire di casa dopo il tramonto portava solo guai.

Guardò l'agente salire sulla Jeep e andarsene con calma insolita.

Il vetro le restituì il proprio riflesso mesto, con tanto di occhi infossati e bocca inconsciamente piegata all'ingiù.

Si lasciò scivolare fino a ritrovarsi seduta a terra, le ginocchia strette al petto e il viso nascosto dietro le braccia. Rimase così, immobile, con la gola lacerata dalle prime avvisaglie del pianto e le palpebre strette per ricacciare le lacrime, inutilmente; esse scivolarono da sotto le ciglia e strisciarono lungo le guance, fino a gocciolare sul tessuto sottile dei jeans.

Non aveva tempo per l'autocommiserazione, ne era ben conscia. Doveva radunare tutte le sue cose e correre da sua figlia, nascosta in un posto non più sicuro. Forse sarebbe scappata attraverso il confine con l'Equador, o si sarebbe diretta verso il Perù. Non aveva idea di quanto fosse sorvegliata la frontiera, ma da qualche parte ci doveva pur essere un posto non controllato né dall'esercito né dai narcos...

Era così assorta in quelle riflessioni – per lo più confuse e irrealizzabili – che quasi non si accorse dei passi veloci che rimbombavano nel vano delle scale. La speranza esplose dentro di lei con la stessa euforia dei fuochi d'artificio durante il día de las velitas.

Si tirò su di scatto e spalancò la porta, il volto illuminato da un largo sorriso bagnato di lacrime.

Sorriso che si spense subito, trasformandosi in una smorfia di terrore.

Tentò di richiudere l'uscio, ma La Quica fu più veloce: infilò un piede all'altezza tra lo stipite e la porta giusto in tempo per evitarne la chiusura, poi, con una spallata, spalancò l'ingresso. Il corpo di Maritza, così debole ed esile rispetto a quello del suo aggressore, volò contro il tavolo della cucina . Il respiro le si mozzò quando sbatté le costole contro il legno. I piedi incespicarono tra le gambe delle sedie sgangherate, rischiando di farla cadere a terra.

In preda alla paura, diede le spalle al suo assalitore e corse verso la camera da letto: la poca lucidità rimasta le suggeriva che non aveva altro posto dove rifugiarsi. Attraversò il breve corridoio e spalancò la porta della stanza.

Non riuscì a varcare la soglia.

Urlò quando sentì le mani di La Quica afferrarle il polso destro. Lo strattonò fino a sentire i muscoli della spalla dolerle, ma fu inutile. Lui la trasse a sé con facilità disarmante e le mise un braccio attorno al collo, stringendo con forza.

Maritza boccheggiò. La mano libera graffiò il braccio dell'uomo, cercando di allentare la presa. Sentendo la risata divertita dell'assalitore contro l'orecchio, tentò di divincolarsi con ancor più energia. Riuscì a tirargli una gomitata allo stomaco, ma fu come colpire un sacco di farina: La Quica non emise neanche l'ombra di un gemito, anzi, quel debole tentativo sembrò aumentarne il divertimento.

«Vieni a darmi una mano, hermano» gridò, torcendole il braccio dietro la schiena.

Il cuore di Maritza si trasformò in un pezzo di ghiaccio quando lui la fece voltare verso la porta d'ingresso. Lo sguardo appannato della ragazza incontrò quello apatico – quasi imbarazzato – di Limòn, per poi scendere verso la pistola che stringeva tra le dita.

Spostò la mano libera, che fino a quel momento aveva graffiato il braccio di La Quica, verso il fianco dell'uomo, pregando di riuscire ad afferrare una qualsiasi arma infilata nella cintura. Lui, per tutta risposta, le torse il braccio con ancor più violenza, facendola gridare di dolore.

«No, mia cara» sogghignò, «tu, la pallottola in fronte, non te la meriti».

La ragazza si trovò carponi, senza fiato. Gli occhi e i polmoni le bruciavano, i tendini del braccio destro sembravano trafitti da decine di coltellate.

Prima che potesse pensare a come correre via dai due narcos, un calcio le arrivò dritto alle costole, facendola gemere. Ne seguì un altro, e un altro ancora, finché non si ritrovò rannicchiata contro il pavimento. Si abbracciò il corpo con le braccia nel tentativo di attutire le percosse. Il colpo successivo le arrivò contro lo zigomo sinistro.

«Dicci, bambola» ansimò La Quica, le labbra stese in un sorriso ferino, «che cosa voleva da te l'agente Peña?»

Maritza tossì più volte, il petto scosso da fitte di dolore e angoscia. «Non so di cosa parli» ansimò lei.

«Ah no?»

L'ennesimo calcio la colpì all'altezza del fegato, facendole scricchiolare le costole.

Il narcos sghignazzò. «Mi stai dicendo che l'americano, il cui migliore amico è morto a causa tua, è passato casualmente per di qua, in questo quartiere del cazzo?»

Lei tentò di rispondere, ma venne zittita da un pugno in pieno volto. Scintille bianche esplosero sotto le sue palpebre chiuse. Sentì qualcosa di caldo e vischioso colarle dal naso, imbrattandole le labbra e il mento. Un altro cazzotto la raggiunse alla tempia destra.

Attraverso il dolore, il suo cervello captò la voce incerta di Limòn: «Forse davvero non sa niente, hermano. Forse il governo la sta cercando per sbatterla in galera...»

«Non credo proprio» sbottò il compagno.

Maritza, ancora rannicchiata in preda al dolore, non rispose. La testa sembrava esploderle, il volto gonfio trasformato in una maschera di sangue. Sentì un peso gravarle sui fianchi e si sforzò di sollevare le palpebre; quelle dell'occhio destro non si mossero. Vide La Quica sistemarsi cavalcioni su di lei, lo sguardo divertito come se se la stesse spassando al lunapark. Tentò di divincolarsi, scalciò e si dibatté, ma fu tutto inutile: l'uomo era ben più pesante di lei e non lo spostò di un millimetro.

Le afferrò entrambi i polsi, fermandoglieli sopra la testa.

«Riproviamo» disse. Il fetore di tabacco e birra le arrivò dritto alle narici. «Cosa voleva l'agente Peña da te?»

Maritza socchiuse l'occhio sano, sforzandosi di non piangere. «Non so di cosa...»

Non terminò la frase. L'abitazione venne invasa dallo scricchiolare delle ossa, seguito da un lungo, penoso urlo.

La Quica le aveva spezzato l'indice.

«Un dito per ogni bugia, dolcezza» la canzonò lui. Poi si rivolse a Limòn: «Tieni d'occhio l'ingresso».

Nella cervello di Maritza c'era solo paura e dolore, e in quantità troppo elevate per ragionare con lucidità, tanto meno per formulare una frase di senso compiuto.

«Allora?»

Maritza sigillò le labbra tinte di vermiglio. Le spalancò poco dopo, quando il carnefice le fratturò il medio. L'ululato di agonia saturò l'aria.

«Non te lo chiederò un'altra volta: perché era qui?»

Ma lei ansimava troppo per rispondere. I polmoni in fiamme, il volto imbrattato di sangue, il cranio che pulsava senza tregua e le ondate di dolore che l'attraversavano le impedivano di mettere insieme una frase di senso compiuto. E lei voleva trovare qualcosa da dire, lo voleva con tutte le sue forze... ma si sentiva tagliata a pezzi, smembrata, senza via d'uscita, in balia di un assassino impietoso.

Nel silenzio che seguì, rotto solo dal respiro affannoso di entrambi, Le Quica le spezzò anche il pollice, torcendoglielo fino a strappare il legamento.

L'ultima cosa che vide prima di svenire fu lo guardo crudele e disumano del boia. 

Javier aveva urgentemente bisogno di una birra. O di un generoso bicchiere di whisky.

Si era acceso due sigarette da quando aveva lasciato l'appartamento della ragazza. Una l'aveva consumata prima ancora di avviare il motore dell'auto, l'altra gli penzolava dalle labbra come al solito.

Le parole di Maritza continuavano a infastidirlo, rimbombandogli nelle orecchie con la stessa veemenza di quando le aveva sentite la prima volta. Gli solleticavano i nervi in un modo così seccante e sgradevole da nausearlo.

Ciò che lo disturbava di più era la sottile quanto pungente sensazione di aver sbagliato, perché lei ora era davvero nei guai. Certo, si era messa in quella situazione da sola, decidendo di lavorare per Escobar e fidandosi di quel delinquente del suo amico – razza di ingenua incosciente...

Però anche lui aveva fatto la sua parte, costringendola – non trovava termine più appropriato – a fare il triplo gioco. Quanto ci avrebbe messo La Quica a trovare il suo nuovo indirizzo? Maritza sarebbe stata abbastanza attenta da non dare nell'occhio? Sarebbe riuscita a lasciare Medellín senza essere crivellata dai colpi di una mitragliatrice?

Aspirò il fumo a pieni polmoni.

Forse un modo per aiutarla esisteva davvero. Doveva esistere. Javier si rifiutava di credere che davvero il governo si accontentasse di combattere una guerra di tale portata senza curarsi del popolo.

Aveva sentito tanti pezzi grossi dell'esercito lamentarsi dell'omertà dei cittadini, ma come poteva la gente comune mettere in pericolo la propria vita per passare informazioni al Blocco o a Centra Spike, se poi nessuno assicurava protezione dai sicari di Escobar? Come poteva qualcuno rischiare tutto ciò che aveva, se poi l'unica risposta dell'esercito non era altro che un diffidente "grazie" sussurrato a denti stretti?

Ingoiando un'imprecazione, Javier invertì la rotta.

Quando arrivò davanti al rifugio della ragazza, rimase in macchina per qualche minuto, immobile, in cerca di qualcosa di sensato da dire. L'adrenalina l'aveva abbandonato strada facendo, e ora aveva l'impressione di apparire come un emerito imbecille. Scese dal mezzo, buttò a terra la sigaretta assieme all'ultimo residuo di dignità e s'incamminò verso le scale.

Si fermò a metà rampa, gli occhi sbarrati.

La porta d'ingresso era spalancata.

Sganciò la fondina e impugnò la pistola. Si appiattì contro il muro, tentando di rallentare il battito come gli avevano insegnato quando era solo un allievo poliziotto. Salì gli ultimi gradini e si appostò dietro lo stipite. Con le dita strette intorno al calcio dell'arma, tese le orecchie.

Nessun movimento, silenzio tombale.

Inspirò a fondo e si lanciò oltre la porta, la canna della pistola ferma all'altezza dello sguardo.

Quello che vide gli congelò il sangue nelle vene.

Maritza giaceva sul pavimento, gli arti scomposti e il volto così tumefatto e insanguinato da renderla quasi irriconoscibile. Accanto al suo corpo, impronte di sangue avevano imbrattato il pavimento.

L'agente si avvicinò piano, con cautela, facendo cigolare le assi di legno grezzo. Con i muscoli in tensione, come quelli di una gazzella che fiuta il pericolo, si accovacciò di fianco alla ragazza e le appoggiò due dita contro la carotide. Trattenne a stento un sospiro di sollievo quando sentì il cuore battere sotto i polpastrelli, ora impiastricciati di sangue. Sollievo che si trasformò in perplessità quando vide il buco a pochi centimetri dal volto di Maritza: il segno inequivocabile di uno sparo.

Si rialzò e puntò la pistola contro la finestra alla sua destra, spalancata sui tetti in lamiera delle case vicine. Non captando nulla di insolito, controllò gli infissi delle altre stanze.

Niente. Chiunque fosse stato lì, se l'era data a gambe.

«Mierda» sussurrò, passandosi la mano tra i capelli con fare distratto e lasciando una striscia cremisi sulla fronte.

Dentro di sé, in modo tutt'altro che cavalleresco, rimpianse di non essersi fermato a bere quel whisky di cui tanto aveva bisogno in quel momento.


Note:

- L'ho già specificato nei capitoli precedenti, ma repetita iuvant: la figlia di Maritza è nascosta in una finca fuori Medellín, accudita dalla nonna materna;

- Día de las velitas: festa molto cara al popolo colombiano, celebrata il 7 dicembre (non è stata citata a caso: secondo la serie tv, gli eventi si svolgono qualche settimana prima di Natale).

- Marica, malparido e jueputa sono insulti;

- Hermano, infine, vuol dire "fratello", epiteto molto in voga nella malavita.


Angolino dell'autrice:

Ce l'ho fatta! *si fa un applauso da sola per essere riuscita ad aggiornare*

Vi assicuro che è stato un parto descrivere l'aggressione di Maritza. All'inizio doveva essere ancor più pesante di così, ma poi ho cambiato idea. Ogni feedback è super gradito, perché mi sento molto incerta in questo tipo di scene.

Bene, siamo finalmente entrati nel vivo della trama. D'ora in poi la storia di Maritza e Javier farà finalmente il suo corso ^^

Ringrazio chi continua a seguire questa storia, sia chi vota/commenta sia chi legge in silenzio ♥

Un abbraccio, a presto!

Helmwige

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