Capitolo I - La Trappola
Fumo e carburante in fiamme tingevano la notte di rosso e grigio opaco.
L'odore penetrante della benzina e di carne bruciata gli riempì le narici, intasandogli la trachea e i polmoni. Poteva quasi sentire il fumo impiastricciargli la laringe, come fuliggine nella cappa di un camino.
Così puzzava la follia di Escobar. Così puzzava la sconfitta.
L'agente della DEA Javier Peña si aggrappò alla portiera spalancata della macchina. Le dita artigliarono la lamiera, mentre il fetore dei sensi di colpa che gli si accumulavano nello stomaco gli annebbiava la vista. Il cuore batteva così velocemente che temeva potesse prendergli un infarto... e una parte di lui, quella codarda e irresponsabile, quasi ci sperava. Una morte veloce, indolore, che gli togliesse quel peso opprimente dal petto.
Steve Murphy, il suo collega, si allontanò dalla macchina, camminando verso le auto in fiamme. Lingue di fuoco si alzavano verso il cielo notturno, proiettando ombre nere sugli edifici affacciati sulla strada. Nessuno si sporgeva dalle finestre, né spiava da dietro le tende. Nessuno si curava dell'attentato, dei dieci poliziotti colombiani che giacevano sull'asfalto coi corpi scomposti crivellati dalle pallottole.
Fratelli, padri e mariti: uomini che bruciavano, con il piombo nella carne e il sangue che macchiava il cemento.
Nessuno aveva visto niente, nessuno sapeva niente.
Nessuno prestava soccorso.
Escobar stava vincendo la guerra grazie all'indifferenza dei cittadini di Medellín.
Javier sentì la strada ondeggiare sotto i piedi, la vista gli si annebbiò. Si aggrappò ancor più forte alla portiera, mentre rivoli di sudore freddo gli scendevano lungo il collo.
Aveva visto decine e decine di colleghi morire nelle ultime settimane, sterminati come mosche in una guerra che non conosceva onore. Aveva posato gli occhi su crani esplosi sotto i colpi dei fucili, su arti amputati e scie di sangue interminabili. Aveva fissato gli occhi dei narcotrafficanti terrorizzati mentre riempiva le loro pance di proiettili.
Ma questo era diverso: era frutto di stupida ingenuità e cieca fiducia malriposta.
Questo era colpa sua.
Le sirene delle volanti e delle ambulanze riecheggiarono lungo la via, torturandogli i timpani. Ricacciò indietro il conato di vomito che gli si stava arrampicando lungo la gola. Il suo corpo ritrovò a fatica il baricentro, consentendogli finalmente di staccare le mani dalla portiera e di allontanarsi dalla macchina.
Mise un piede davanti all'altro, concentrandosi sullo scricchiolare delle suole contro l'asfalto. Gli occhi vagarono tra i veicoli in fiamme finché non incontrarono quelli lucidi di fumo di Steve. Il collega scosse piano la testa, il volto simile a una maschera funebre. Ma non c'era bisogno che lo avvertisse, né che confermasse ciò che le urla delle ricetrasmittenti gli avevano già fatto capire.
Ma la logica non appartiene agli uomini in lutto. Il raziocinio si oppone, imperterrito, anche quando le realtà è così vivida da aprirti una voragine nel petto. È così che funziona, la morte: finché non vedi la perdita con i tuoi stessi occhi, non la puoi accettare.
Così l'agente Peña continuò a camminare tra i detriti, immergendosi sempre più nell'odore di cherosene e speranze incenerite, finché non si ritrovò davanti il corpo del Colonnello Carrillo. O meglio, quello che ne restava.
La furia di Escobar gli aveva trasformato la faccia in un ammasso di carne tritata e ossa scheggiate. Fu impossibile per Javier capire quanti proiettili il narcotrafficante gli avesse piantato nel cranio. L'unico particolare che lo identificava come il capo del Blocco di Ricerca erano i gradi sulla divisa.
I polmoni dell'agente si accartocciarono come carta avvolta dal fuoco. L'odore ferroso e dolciastro del sangue gli invase le narici e lacrime di rabbia gli annebbiarono gli occhi irritati dal fumo. Le lasciò scivolare lungo le guance, come emblema lampante della propria colpa.
Steve gli si avvicinò piano, con cautela, come se temesse uno scoppio d'ira da un momento all'altro. Non lo toccò, né posò lo sguardo sul volto del collega; una cortesia che Javier accettò con gratitudine. Chiuse gli occhi e premette pollice e indice sulle palpebre abbassate, come se quel gesto potesse cancellare la carne macellata del viso di Carrillo dalla strada. Sentì la mano del collega posarsi sulla propria spalla, le dita che tremavano leggermente nello stringere la giacca, e si chiese se anche i suoi muscoli fremessero allo stesso modo.
«Non è colpa tua, Javi.»
Parole di rito, che avrebbero voluto essere sincere – e forse, sotto sotto, lo erano – ma che il cervello rigettò senza ripensamenti. Perché il senso di colpa funziona così, non conosce medicina né sollievo.
Javier rivide il volto integro del Colonnello, il modo in cui le labbra si stiracchiavano in un sorriso soddisfatto quando il Blocco di Ricerca otteneva risultati. Ma, soprattutto, rivide l'espressione attenta e guardinga di qualche ora prima, quando Javier gli aveva raccontato della nuova informatrice: una ragazza che gli aveva promesso la testa di Escobar su un piatto d'argento e che, invece, aveva decretato la fine dell'unica persona che davvero terrorizzava il narcotrafficante.
Un'informatrice per cui Javier stesso aveva garantito.
"Tu l'hai vista? Possiamo fidarci di lei?"
"Sì. Sì, mi fido."
Parole che gli vorticavano in testa, annodandosi tra di loro come serpenti velenosi. Parole dette con leggerezza, ma che pesavano come mattoni.
«La colpa è di Escobar. E prima o poi la pagherà» mormorò Steve, più a se stesso che al collega.
Javier si girò a guardarlo, la mascella contratta e gli occhi iniettati di sangue. «Come tutti noi. Giusto?»
Ci volle la notte intera per spegnere tutte le vetture che avevano preso fuoco. Tra gli edifici l'odore sarebbe rimasto per giorni, ma forse andava bene così: un monito a tutti coloro che avevano sperato nella morte del colonnello e che erano rimasti indifferenti alla strage.
Il tragitto di ritorno fu cupo e silenzioso. Quel tipo di silenzio privo di aspettative, che tortura i cuori e sbrindella le convinzioni più radicate. Nessuno dei due agenti della DEA distolse lo sguardo dalle luci della strada.
«Sicuro di non voler andare a casa, Javi?» chiese Steve, la voce così flebile che quasi si perse all'interno del veicolo.
«Sicuro.»
«Connie e io possiamo ospitarti, per una notte...»
«Sicuro» ripeté Javier, sperando che il tono secco delle parole aiutasse a troncare quella conversazione stentata e inutile. Voleva solo un posto dove sedersi, fumare e possibilmente farsi un bicchiere di whisky, senza però correre il rischio di addormentarsi e di rivedere il volto irriconoscibile di Carrillo.
Come richiesto, Steve lo lasciò al Blocco di Ricerca e, senza aggiungere altro, se ne tornò a casa.
Le gambe di Javier si mossero da sole, trasportando l'agente nell'ufficio che divideva con il collega. Si riempì il bicchiere di alcol e sprofondò nella prima sedia che trovò.
Riusciva a sentire ancora la puzza terribile della morte; gli impastava la bocca, lasciandogli sulla lingua un sapore rivoltante, che nemmeno il whisky riusciva a coprire.
Rimase immobile per quella che gli sembrò un'eternità, con le urla delle sirene della polizia che gli rimbombavano nelle orecchie.
Il capo della DEA, Claudia Messina, entrò senza bussare. Javier non alzò nemmeno gli occhi dal bicchiere mentre la donna si sistemava davanti a lui. Sapeva bene perché lei era lì, ma non per questo aveva voglia di ascoltarla.
«Non è colpa sua, Peña.»
L'agente si rigirò il bicchiere tra le dita, la bocca tesa in un sorriso infelice. «No?»
«No.»
«Mi hanno fregato.»
Una frase, tre parole, un uomo intero che va in pezzi.
Solo qualche ora prima, Javier si era convinto che Pablo Escobar sarebbe morto. Si era convinto che quella ragazza, Maritza Rincòn, gli avrebbe dato l'indizio giusto per mettere fine, una volta per tutte, all'incubo della Colombia. Ma non era andata così. Maritza Rincòn aveva teso una trappola perfetta e lui ci era cascato subito, trascinandosi dietro tutto il Blocco. E ora che il colonnello Carrillo, l'unica persona di cui Escobar aveva realmente paura, era passato a miglior vita, la sconfitta definitiva era dietro l'angolo.
Messina si schiarì la gola, visibilmente in imbarazzo. «Hanno fregato tutti noi. Avevamo le informazioni confermate da Centra Spike...»
«Basta» la interruppe lui. Una supplica, nient'altro. La richiesta di un po' di silenzio, di tempo per pensare e per recuperare le forze. Fece un respiro profondo e alzò gli occhi ancora arrossati verso quelli di lei. «Senta, lei viene qui e fa tanti bei discorsi... ma non fa la minima differenza. Non cambia niente.»
Le parole, dure e fredde come pallottole, non intaccarono per niente l'espressione composta di Messina.
Si osservarono in silenzio; due estranei che per caso lavoravano insieme, due persone che non avevano intenzione di conoscersi né come colleghi né come esseri umani... perché in guerra non ci si può permettere legami inutili: oggi ci sei, domani sei riverso al suolo con chissà quanto piombo nella carne.
«Il funerale del colonnello Carrillo si terrà domani» concluse la donna, prima di uscire dalla stanza.
Javier rimase a fissare la porta, le dita strette attorno al bicchiere.
«Io non vado ai funerali.»
Il corpo di Horacio Carrillo venne caricato su un elicottero militare e trasportato a Bogotà quella notte stessa. La mattina dopo, i colombiani si riunirono davanti alla Cattedrale dell'Immacolata Concezione, nel cuore della capitale, per salutare un'ultima volta il colonnello. Sguardi muti e bassi riempirono la piazza, posandosi a turno sulla bara bianca dell'ufficiale con quella rassegnazione di chi vede cadere l'unico eroe capace di fronteggiare il nemico, perché in Colombia nessuno più credeva nella giustizia terrena – semmai, forse, solo in quella divina.
Carrillo era morto, questo era quanto. L'ultimo baluardo della pace era stato abbattuto e nessuno, osava guardare, con aria speranzosa, verso il cielo.
A centinaia di chilometri di distanza, in una chiesa vuota e spoglia di Medellín, Maritza Rincòn chiedeva perdono a Dio e a una lista molto – troppo – lunga di persone. Con gli occhi fissi sul crocifisso dietro l'altare, si torturava le mani, aggrovigliando le dita e imprimendo piccole mezzelune sulla pelle pallida dei dorsi.
La chiesetta in cui si era rifugiata era situata in un quartiere, tanto piccolo quanto anonimo, di Medellín. Era un edificio basso e tozzo, che solo uno sguardo attento sarebbe riuscito a distinguere dalla lunga fila di case popolari che si affacciavano sulla strada. Il campanile non era mai stato costruito. La facciata, di semplice pietra bianca senza alcuna decorazione, era ormai grigia per lo smog, ma l'interno era pulito e luminoso: benché le numerose finestre laterali non riuscissero a catturare molta luce, il rosone era abbastanza grande da illuminare la navata e l'abside. I raggi caldi e soffusi del sole avvolgevano l'esile figura di Maritza come un'aura. Minuscoli granelli di polvere danzavano, volteggiando e rincorrendosi, davanti agli occhi della giovane.
La chiesa, però, non le dava alcun conforto, e le preghiere si facevano strada tra le labbra sotto forma di mormorii privi di qualsiasi significato; un rituale troppo ripetitivo e scarno per darle sollievo. I suoi pensieri vorticavano, intrecciandosi gli uni agli altri, mentre le pupille vagavano sul Cristo crocifisso, come a cercarvi una risposta... ma quel volto divino, rigato di lacrime e sangue, era chino verso il pavimento, con le palpebre abbassate. Dio non la guardava, e Maritza si sentiva sprofondare sempre più, con gli arti avviluppati dai sensi di colpa e lo stomaco che ribolliva di rabbia acida e rovente.
Continuava a pensare a sua figlia, che aveva nascosto in una finca in mezzo al nulla per proteggerla, e a sua madre, che prima di morire le aveva ripetuto: «Ricordati di fare sempre la cosa giusta», una frase trita e ritrita, il cui significato cominciava davvero a comprendere solo ora.
Soprattutto, pensava a Jhon, che si faceva chiamare con quello stupido nomignolo, Limón, per sembrare un duro al pari degli altri scagnozzi di Escobar. Aveva sperato fino all'ultimo di vederlo tornare il ragazzo di un tempo, l'amico d'infanzia con cui aveva condiviso giochi e merende. Quando Jhon le aveva spiegato il piano per liberarsi finalmente di Escobar, lei aveva davvero creduto in un cambiamento, in un ritorno della giustizia e, soprattutto, del buonsenso del ragazzo.
«Davvero consegniamo Pablo Escobar?» aveva domandato, con il petto colmo di paura e speranza.
«Sì, Maritza. E lo faremo insieme» le aveva risposto. «Ma devi fidarti di me.»
E lei si era fidata. Era andata dritta da una sua vecchia amica, che l'aveva messa in contatto con un agente della DEA, un certo Peña: l'uomo più scontroso con cui lei avesse mai parlato. E quando si era deciso ad ascoltarla, Maritza aveva iniziato a vedere la luce in fondo al tunnel, un fortuito spiraglio di opportunità. Avrebbe consegnato l'indirizzo in cui si sarebbe fatto vivo Escobar in cambio di documenti nuovi per espatriare. Per qualche ora, si era lasciata cullare dal pensiero che l'incubo stesse giungendo al termine, dopo mesi di terrore.
Ma spesso le cose non vanno come vorremmo. Un attimo prima sei sicuro di aver tutte le carte giuste in mano e ti prepari a rilasciare un lungo, desiderato sospiro di sollievo... e l'attimo dopo ti crolla il mondo addosso.
Maritza aveva inviato una dozzina di militari verso il massacro, senza saperlo. Una trappola orchestrata magistralmente da Escobar e da Limón, che credeva un amico e che, invece, si era rivelato il suo carnefice. Perché ora lei era circondata da entrambe le fazioni, senza via d'uscita: Escobar le avrebbe fatto piantare una pallottola nel cranio per il tentato tradimento, mentre l'esercito colombiano forse aveva già aggiunto la sua foto a quelle degli altri membri del cartello. Non restava che scoprire chi l'avrebbe trovata per primo.
Qualche minuto dopo, quando il ghigno di Limón entrò nel suo campo visivo, accompagnato dai baffi spioventi di Escobar, seppe di avere già la risposta.
Angolino autrice
Ho aspettato a lungo prima di pubblicare questo capitolo, ma alla fine eccoci qui!
Chi ha visto Narcos sa di non aver letto nulla di nuovo a livello di trama, ma era necessario per me creare un contesto preciso e dettagliato prima di proseguire con la parte originale (d'altronde il personaggio di Maritza è stato un po' abbandonato a se stesso nella serie e, in generale, non si è ricavato uno spazio tutto suo nel cuore degli spettatori). Ci sono, inoltre, alcune discrepanze tra Fanfiction e serie TV; per lo più si tratta di dettagli, ma se dovessero essere più importanti, vi avviserò :)
Vi ringrazio tantissimo per essere arrivati fin qui e vi abbraccio virtualmente in anticipo per ogni stellina/commento che vorrete lasciare ♥
A presto,
Helmwige
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