Perché La Mia Storia Non Funziona?
Con tutta probabilità, vi saranno capitati sotto gli occhi innumerevoli articoli che analizzavano in modo certosino e distruttivo storie su storie postate su diverse piattaforme, al fine di individuare cosa non andasse e dove l'autore sbagliasse, adducendo una critica, talvolta supponente e univocamente negativa. Be', rallegratevi! Questo non è uno degli articoli sopracitati, al di là delle apparenze. Da autore, editore di testi e traduttore e, soprattutto, lettore, manco di vedere la finalità e l'intento costruttivo di scritti del genere: dopo un paio di liste più acide di un Danone scaduto sotto il solleone d'agosto, che di certo strappano una sicura risata, si arriva a ripetere le stesse cose, a inneggiarsi a giudici tautologici del popolino, senza aggiungere nulla alla matassa di lamentele sarcastiche che non sia già stato illustrato.
Quindi, io, che sono superbo e spocchioso, altresì speranzoso di vedere migliorie e evoluzioni artistiche positive anche in chi si diletta a tempo perso nella scrittura, vorrei cercare, con questo mio, di delineare alcuni punti salienti che, spesso e a malincuore, destinano una storia al ritrovarsi affibbiata l'etichetta di "brutta", "fyccina", "nammerda"; insomma, di espressioni colorite e non siamo, indubbiamente, ben forniti. Ecco, prendendo in prestito un termine tecnico dal significato ben più serio rispetto all'uso che ne farò io, vorrei presentare ai voi lettori un decalogo al fine di aiutarvi a non inciampare in errori più o meno subdoli che possono portare, anche lo scrittore più motivato, a chiedersi, "perché la mia storia non funziona?", "perché mi ritrovo recensioni negative, dove ho sbagliato?"
La premessa doverosa, che mi preme far tenere tutti a mente, è che ho cercato di seguire un principio il più obiettivo possibile nella stesura dei punti seguenti, frenando il mio giudizio personale di ciò che possa o non possa piacermi e rifacendomi alle diverse opinioni di scrittori, professionisti e amatoriali, nonché editori, colleghi e lettori che stimo e che ho avuto il piacere di conoscere nel corso dell'ultimo decennio e che hanno contribuito alla nascita, allo sviluppo e alla sedimentazione del mio senso critico. In poche parole, non vi verrò a dire di non scrivere storie in cui prevale una vicenda di stampo fortemente romantico, solo perché non piace a me; qui non sono i contenuti a venir trattati, ma la forma. Né, tantomeno, voglio condannare le scelte e gli errori stilistici di nessuno: non si nasce provvisti di scienza infusa e se si sbaglia, si va avanti, con la speranza di poter imparare dalle proprie cadute.
La Punteggiatura
Metto questo punto al primo posto, perché credo che sia la cosa che salti immediatamente agli occhi, non appena si procede alla lettura di una storia. Mostro silenzioso, è l'assoluto determinante della qualità di un testo, è quello che divide l'ordine dal disordine, che denota l'accuratezza e il livello culturale di colui che scrive: attenzione a sottovalutarla. Non mi soffermo nemmeno troppo sulle infinite conversazioni con vari colleghi in cui si parlava di come la lettura di questa o quella storia fosse stata interrotta, al di là del potenziale di trama, a causa della punteggiatura errata. Già, perché la punteggiatura sbagliata (lo dice il termine stesso) è un errore. Non è una scelta di stile e non è una preferenza; è incorretta e basta. Poiché mi è capitato così tante volte di dover aggiungere un vero e proprio schema sull'uso della punteggiatura nella lingua italiana sotto storie che ho corretto o riletto, ho pensato che, forse, riportarlo anche qui possa essere utile a qualcuno.
- La virgola. Sebbene ci sia più di un caso in cui questo elemento del discorso possa essere usato a proprio piacimento, ve ne sono altri in cui è necessario seguire delle regole su come e dove apporre la virgola. La virgola non si usa mai tra soggetto e verbo, mai dopo un articolo determinativo o indeterminativo e il sostantivo, mai dopo i puntini di sospensione.
Al contrario, la virgola deve essere sempre presente per isolare gli incisi, prima delle congiunzioni avversative e dopo le negazioni o affermazioni.
Esistono delle evenienze in cui si considera l'uso della particella a discrezione dell'autore, in quanto la presenza di usi discordanti della stessa, osservata con costanza nel tempo, ha concesso una certa flessibilità di alcune regole, poiché la scelta soggettiva di chi scrive non cambia il senso del discorso (come, invece, avviene nei casi sopra illustrati). La virgola può o non può essere usata prima o dopo le congiunzioni coordinative, onde evitare l'effetto singhiozzante del periodo, se composto di proposizioni molto lunghe; può o non può essere presente dopo gli avverbi, così come al fine di separare una proposizione principale da una o più subordinate. In quest'ultimo caso, la scelta è determinata dal tipo di stile, ritmo e forma che si vuol dare alla propria scrittura o al fine di preservare l'armonia e la fluidità della lettura.
- I puntini di sospensione. Non c'è troppo da dire; sempre e solo tre, sempre seguiti dallo spazio, mai abusarne, a meno di casi particolari, in cui si sta riportando un discorso diretto impossibilitato, come per esempio quello di un personaggio ubriaco.
- I due punti. Non si abusano, introducono un elenco, una lista o una spiegazione di qualcosa detto subito precedentemente. Non sono intercambiabili con il punto e virgola, che invece va usato per segnalare la fine di un discorso o un periodo, ma in maniera più tenue rispetto al punto fermo.
- L'apostrofo. L'apostrofo si usa in caso di elisione, troncamento e aferesi, senza eccezioni. Vale a dire che si scrive po', da' (la forma imperativa, seconda persona singolare del verbo "dare"), un' (articolo indeterminativo femminile singolare, che è l'apocope di "una"). Non si usa mai nel caso di qual, qualcun, alcun, è, un (articolo indeterminativo maschile singolare) e perché.
lI Discorso Diretto
Il discorso diretto è forse la parte del discorso che sembra essere soggetta alle regole più svariate, dettate indipendentemente dallo scrittore di turno. Sebbene possa essere introdotto dalle virgolette alte, dalle virgolette caporali o dal trattino, le regole grammaticali per l'uso del discorso diretto sono le stesse in tutti i casi. Se c'è la descrizione dell'azione del parlare che lo segue, si mette sempre la virgola prima della linea. Se è seguito, invece, da una frase ex novo, si mette sempre il punto. Se vuoi indicare perplessità, allora i tre puntini di sospensione. In tutti e tre i casi, la punteggiatura si mette sempre prima del trattino o della virgoletta.
Riporto qui alcuni esempi:
-Ciao! Sei in ritardo,- disse John
-Ciao! Sei in ritardo.- John si alzò e si diresse verso di lui.
-Ciao! Sei in ritardo...- John sembrò perplesso.
Gli Aggettivi
La scelta di abbondare o essere parchi con gli aggettivi è del tutto libera, senza dubbio. Tuttavia, essi possono alterare o intaccare l'armonia e la fluidità del discorso, rischiando di farlo diventare eccessivamente barocco o prolisso. Il proliferare, il ricercare e l'aggiungere aggettivi qualitativi nelle descrizioni di questo o quel personaggio sono una grande tentazione, anche per lo scrittore più navigato, ma l'ideale sarebbe attenersi alla sempreverde regola della necessità: quanto è necessaria questa parte della descrizione ai fini della mia storia? Si tratta di riuscire a sviluppare un buon bilanciamento tra l'essenzialità della narrazione e la poeticità, evitando di eccedere. Nella mia, discretamente lunga, esperienza nelle acque fandomiche, ho letto di occhi blu ghiaccio del Mar Baltico, screziati di verde mela (molto comuni, senza dubbio) o di capelli rossi come il sangue di capretto dell'Himalaya appena squartato e chi più ne ha, più ne metta. Insomma, senza addentrarci nel discorso di tratti fisici comuni o insoliti, va da sé che questo fiume in piena di descrizioni ha l'effetto di appesantire il discorso senza, di fatto, fornire alcuna informazione utile al lettore. Certo, vi può essere il caso in cui, per svariati motivi, il colore degli occhi, dei capelli o della pelle di questo o quel personaggio sia essenziale, perché va a riallacciarsi a qualche avvenimento o inciderà sulle sorti della trama; tuttavia, anche in questo caso, la semplicità e il realismo dovrebbero fare da padroni. Pertanto, quando vi accingete a delineare un personaggio e a descrivere le sue apparenze, ponete a voi stessi la domanda: cosa è, davvero, necessario? Sto davvero descrivendo qualcosa di utile nella mia narrazione, che il lettore potrà apprezzare, o lo sto facendo solo per puro appagamento personale? Per citare Faulkner, "In writing, you must kill your darlings."
Le "d" eufoniche
Semplice, senza girarci troppo intorno: si usa la "d" eufonica solo in concordanza vocalica. Mai negli altri casi.
Esempi:
"Ad andare; ed evitare; od ovviare."
Gli Epiteti
Forse questo punto è la nota davvero più dolente dal mio punto di vista di lettore, prima che da traduttore. Sono incappato in tante, tante storie scritte davvero bene, lineari, coerenti che mi facevano sperare in meglio, fino a non imbattermi nel famigerato epiteto e ritrovarmi a storcere il naso. Di fatto, di cosa si tratta? L'epiteto è un nome, un aggettivo o una locuzione che si aggiunge a un nome a cui può essere legato da diversi gradi di necessità. Nei testi di retorica è indicato come figura di accumulazione subordinante, con funzioni di tipo determinativo, accessorio o esornativo (grazie, signor Treccani.) In poche parole, il celeberrimo pié veloce Achille o, volendo farla anche più semplice, il vino rosso. Eviterò di soffermarmi sulle diverse funzioni degli epiteti, al fine di non appesantire troppo questo articolo, tuttavia è importante ricordare che l'epiteto, nella maggior parte delle volte, serve a caratterizzare un sostantivo e a distinguerlo dagli altri attraverso un elemento qualitativo o quantitativo. Alcuni epiteti si sono cristallizzati così tanto nella lingua, che ormai rappresentano un unico blocco nel discorso, come, per esempio, scenario apocalittico o api operose (grazie, signora Mortara Garavelli.).
Detto ciò, or dunque, perché, vi chiederete, gli epiteti sono diventati vittime di condanna? In realtà, non c'è una vera e propria regola da seguire che esclude, in toto, questi elementi del discorso e che impedisce il loro uso; tuttavia, non si può passare sopra all'evidenza che, di fatto, gli epiteti non sono eleganti. Come già detto sopra, si tratta di locuzioni che si trovano, per lo più, in testi epici (Omero ne era grande amante), classici o retorici e spesso descriventi una caratteristica peculiare di un determinato personaggio, che lo distingue dagli altri e che, spesso, è propria solamente di lui. Fin troppe volte, invece, si assiste a un proliferare de il biondo, il moro, il rosso, oltre alle loro ancor peggiori alternative, quali il rossino (ho fatto fatica a scriverlo), il moretto (che mi fa venire in mente la moretta, caffè stra-corretto con l'anice che mia nonna ci propina la notte di Natale e che riesce a trasformare persino il vicino di casa panciuto in Goku Super Sayan) e mi limito qui, per il benestare di tutti. Insomma, gli epiteti, per quanto non siano errori, andrebbero evitati o per lo meno usati con quella cosa che vedo sempre più raramente, ovvero la parsimonia e solo per sottolineare un tratto distintivo, per l'appunto, che raramente può essere il colore dei capelli o la nazionalità.
È davvero, davvero preferibile usare il nome proprio, ripeterlo se necessario o optare per un pronome personale, al fine di evitare l'uso dell'epiteto: i lettori apprezzeranno e la vostra storia guadagnerà punti in stile e qualità. Provare per credere!
Nonostante si potrebbe trattare e discutere su molti altri scivoloni che si vedono nella letteratura amatoriale, ho ritenuto che questi sopraelencati siano quelli più comuni, che si osservano davvero spessissimo. Spero di aver aiutato qualche lettore a individuare quali siano i problemi della propria storia e un buon metodo per risolverli. Sentitevi liberi di farcelo sapere! E buona scrittura! @Kendra_cat (Martina)
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