𝚢𝚘𝚞𝚛 𝚊𝚗𝚐𝚎𝚛 :: 𝚜𝚒𝚍𝚎 𝚜𝚝𝚘𝚛𝚢
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Di Keiji Akaashi mi sono innamorato come ci si innamora di quelle cose che ti piacciono senza un motivo preciso. Mi sono innamorato come di un sapore nuovo sulla lingua che ti sembra aver cercato tutta la vita, come un profumo che ricordi nonostante non ci siano immagini che ci ricolleghi, come di una canzone che ha tutte le note giuste al posto giusto, che rintona in quel ritornello che ti soddisfa, ti fa sentire bene e felice e in un certo qual modo a posto con te stesso.
L'ho visto che era autunno.
L'ho visto che si nascondeva dietro una pila di scartoffie noiose, vestito come una persona qualsiasi, gli occhiali sul ponte del naso.
Mi portavo dietro tanto, quando l'ho visto. Un nome, una reputazione, un passato.
Ed eppure quando ho visto lui, non c'era niente di tutto quello che componeva me stesso.
Non c'era niente.
C'era solo... lui.
Non so perché, forse lo immagino, in un mondo come il mio le cose si accendano in questo modo repentino e fulminante.
Tutte le persone che conosco di questo ambiente, tutte quelle che vantano una gioia amorevole al loro fianco e nel loro cuore, dicono di essersi innamorate nella spanna di pochi secondi.
Immaginavo fosse perché siamo caduchi, noi.
Perché moriamo nel vento che passa.
Racchiudiamo un potere malvagio, che tutti vogliono, e ci strapperanno, un giorno, prima o poi.
L'amore è frettoloso come la vita che conduciamo, credo.
E l'amore per Akaashi, è stato frettoloso.
La prima cosa? L'attrazione.
C'era qualcosa di bello, bello in modo impossibile, in lui, la prima volta che l'ho visto. Gli occhi chiari e i riccioli come china d'inchiostro, il viso elegante, bello, nobile nonostante il luogo.
Poi una sensazione di pace.
Le sue parole rotolavano come fossero crema sulla mia pelle.
Poi un odore familiare, che volevo annusare continuamente.
Poi l'interno.
Poi la storia, il modo di fare, la risata, i dettagli delicati di una forma che trovavo perfetta, che si sono incastrati tutti sui miei che credevo così diversi.
Io e Keiji eravamo e siamo fatti l'uno per l'altro.
E non m'importa cosa c'è attorno, questa cosa non cambierà mai.
Mi vergogno a dirlo, ma è nata come una relazione clandestina.
Se sei un mafioso, e non mi disturba dire che lo sono, vivi in un mondo che si dipinge in qualcosa di medievale, dove contano le opinioni dei padri e le famiglie e le casate e tutte queste cazzate di cui a me non è mai, onestamente, fregato davvero un cazzo.
Ma che dovessi obbedire a mio padre, questo, mi era ben chiaro.
Sono promesso sposo da due anni.
A qualcuno che detesto.
Non la odiavo, prima. Non è odiabile, la ragazza, non è niente. È scialba, anonima, niente che mi attiri se non qualche dettaglio fisico che ora mi sembra grigio, messo a confronto con la bellezza sfrontata che ho visto.
Ora invece la disprezzo.
Perché mi blocca.
Vorrei capire come si permette.
Di togliermi quel che voglio, intendo. Quel che voglio è una vita con qualcuno di cui mi sono innamorato, quel che voglio è essere felice con chi ho scelto io, e lei, che poco ne può ma così tanto fa, lei è completamente, irreversibilmente d'intralcio.
Non pensavo al torto che le facevo quando ho chiesto a Keiji di uscire.
Non ci pensavo quando ho fatto vedere in pubblico che lui contava qualcosa per me.
Non ci pensavo mentre stringevo le dita ruvide su una pelle chiara e sentivo una voce risuonare nell'aria al suono del mio nome.
E ora che ci penso, ora è peggio.
Sono a casa mia.
Steso sulla poltrona del mio ufficio, gambe chiare che attraversano al contrario il mio grembo, una testa riccia contro le clavicole e dita sottili che corrono contro il mio collo.
− A che pensi? – mi sento chiedere, mentre scendo dal mio rimuginare con calma.
Non sono uno che pensa, di norma.
Dire che qualcosa mi dà "da pensare" fa specie persino a me.
− Penso che ti amo, Keiji. – rispondo, reciprocando il contatto e affondando i polpastrelli fra le ciocche fitte e scure.
Leva lo sguardo.
Dovessi bruciare un mondo intero, dovessi raderlo al suolo, per te lo farei, vorrei dirgli mentre lo guardo. Dovessi distruggere chiunque ci separi, non mi fermerei lo stesso.
Sono un uomo violento, e questa cosa non potrebbe mai, mai, mai cambiare.
Ride piano, il suono che alle mie orecchie sembra quasi angelico, sorride e gli si formano delle rughette minuscole agli angoli degli occhi, mentre mi guarda.
− Sei un romanticone. –
Annuisco.
− Forse, forse. –
Non è che ci sia molto da dire, in realtà. Certo, io parlo tanto, tantissimo, rido e urlo e faccio un sacco di rumore, ma la sola presenza di Akaashi mi rilassa a tal punto da farmi sentire quasi... tranquillo.
Posso stare in silenzio a guardarlo anche ore, è come se non mi stancassi mai.
Inspiro ed espiro lentamente, appoggio la fronte contro la sua, incastro il naso, le sue labbra sanno di fumo.
Non mi è mai piaciuto che fumasse.
Nel senso, non mi piace che si faccia del male.
Ma ha iniziato ben prima che ci conoscessimo, e per quanto sia abituato alle persone che fanno quello che voglio solo per il semplice fatto che sono io a volerlo, ad Akaashi non voglio fare quell'effetto.
Akaashi fa e può fare e potrà sempre fare quel che gli pare.
"Il minimo indispensabile", direte voi.
Lo sarebbe se non fossimo dove siamo.
− Quanto tempo ci rimane? – mi chiede poi, quando ci stacchiamo.
Già detto, no? Relazione clandestina.
La mia "fidanzata" viene da me ogni giorno. Non vive qui, non ho voluto, nonostante non avessi nulla in contrario al matrimonio prima di conoscere Akaashi, ma pensavo di aver bisogno dei miei spazi, e avevo ragione.
Nonostante questo, però, mi ronza attorno parecchio.
E visto che ci dobbiamo sposare fra tre mesi penso possa essere anche normale.
− Tutto quello che vuoi, Keiji. – rispondo, con il tono di voce pacato e quasi minaccioso.
Ridacchia ancora, scuote la testa.
− Non dire sciocchezze. Non voglio essere ammazzato dalla tua ragazza, Kōtarō. –
Il modo in cui dice "la tua ragazza" mi scatena un moto d'orgoglio che riconosco bene.
Pensano tutti che sia io, ad essere quello territoriale, si dà per scontato che per come sono se una cosa ho deciso che è mia mi faccia impazzire l'idea di perderla, ed è vero.
Ma Akaashi non aveva niente, prima di me.
Non intendo a livello economico, intendo a livello emotivo.
Akaashi era un ragazzo solo.
E sono fiero di dire che tutto l'affetto che nessuno gli ha mai dato, io glielo lancio addosso sorridendo.
Ora prendetelo, quel ragazzino che ora sta bene, e provategli a togliere quello che ha guadagnato.
Akaashi è una belva, sopita dietro uno sguardo composto e un modo di fare educato.
Akaashi non permetterà che mi sposi, non permetterà che allunghi un dito verso di lei, manderà a ferro e fuoco questa città per evitarlo e mi prenderà con le unghie e con i denti, e questo, forse in maniera malsana, questo mi piace davvero.
− Non ti ammazzerebbe mai. – rispondo.
Sorride.
− Tu dici? Non è una tipa gelosa? –
Ridacchio.
− No, perché mi arrabbierei. E io arrabbiato non sono un belvedere. –
Un'altra risatina sfiatata, poi sporge il labbro.
− E con me? –
− In che senso? –
− Ti arrabbieresti mai, con me? –
Dio, se non c'è qualcosa di infido in quest'uomo. Qualcosa di nervoso e nevrotico e maniacale, nel modo in cui mi parla.
E Dio se non mi piace.
− Non credo, no. –
− Sicuro? –
Scuoto la testa.
Sorride, mi bacia ancora, si sporge verso di me e rimane a pochi millimetri dal mio naso a fissarmi.
− Allora tu vedi di non far arrabbiare me, Kōtarō. –
La scarica di adrenalina che mi scorre nelle vene quando si accende quest'aura minacciosa nei suoi occhi azzurri, è imparagonabile. Mi fa sentire vivo, e mi incuriosisce anche.
− Ti ho fatto arrabbiare? –
Fa "sì" con la testa, indietreggia un po', lo vedo completamente.
Quanto sei bello, Akaashi. Sei meraviglioso, un essere nemmeno umano, se devo essere onesto. C'è la perfezione nella forma più pura, in te.
Ama mettere le mie camicie.
Le porta chiuse di un paio di bottoni al fondo, quando finiamo di fare sesso e si riveste alla bell'e'meglio, il collo che scivola largo sulle spalle e lascia intravedere le clavicole.
L'orlo preme contro il termine delle sue cosce, chiare e affusolate, come tutta la sua pelle.
Mi prende il mento fra le mani.
− Perché non l'hai ancora ammazzata? – sputa fuori poi, di colpo.
L'ho detto, non l'ho forse fatto?
Non lo permetterà, Keiji, che qualcuno mi prenda.
Perché gli appartengo, e lo so perfettamente.
− Vuoi che lo faccia? –
Sbatte le ciglia folte.
− Voglio che scompaia dalla faccia della terra. Non voglio mai più sentire il suo nome e non voglio che tu ti ricordi nemmeno un minuscolo particolare di com'era fatta dopo che sarà scomparsa. – risponde, senza nemmeno un briciolo, un granello di remora morale all'interno delle parole che sputa fuori come aghi.
Sorrido.
− La odi così tanto? –
− Da impazzire. –
− E come mai? –
Lo so che è una domanda sciocca, ma voglio sentirglielo dire ad alta voce.
− Perché tu sei mio, Kōtarō. E quella puttana deve tenere le sue mani lontano da te. –
Sporgo il collo, sfrego le labbra contro le sue, aperte, inspiro il suo odore.
− Davvero? –
La mano sul mio mento scende al lato del viso, mi tiene fermo con una forza che non si direbbe possa trovarsi in dita così sottili.
− Davvero. –
− E allora ammazzala tu. – concludo.
Si ferma.
Scintillano, le sue iridi chiare. Scintillano di qualcosa che non ci avevo mai visto, dentro, di paura e sete di sangue, di possessione e di rabbia, di tante cose, tutte diverse, una più spaventosa dell'altra.
− Posso? –
− Devo darti il permesso? –
Ride, Akaashi.
Ride.
Ride e scuote la testa.
− No, non devi darmi il permesso. – conclude, ripetendo la mia domanda nelle lettere oneste di quel che dice.
Assume una fattezza soddisfatta, il suo volto, rilassata, mentre indietreggia e appoggia gli avambracci sopra le mie spalle.
Il suo cervello ragiona, potrei giurare di sentire le mille rotelle argentee che scorrono le une sulle altre anche da fuori.
− Se la ammazzo chi ce l'avrà con me? – chiede dopo qualche istante.
− Con noi. – lo riprendo.
Alza gli angoli della bocca.
− Con noi. – si corregge.
Lascio cadere indietro la testa, la nuca che si appoggia sullo schienale della poltrona, osservo la luce che si spande dalla finestra enorme dietro di noi.
− La sua famiglia intera, i suoi uomini. –
− Ovvero? –
Questo non ti piacerà, Akaashi.
− Un terzo degli uomini del Fukurodani. –
Infila la lingua fra le labbra, stringe gli occhi, tira dentro l'aria nella bocca con un sibilo.
− Cazzo. –
Alzo una spalla.
− Già, cazzo. –
Silenzio, le parole di un attimo fa che mi sembrano cadere come fiocchi di neve. So che è solo questione di tempo, in ogni caso, che...
− Devo trovare un modo perché diventi un nemico per tutti. –
Akaashi non molla.
Akaashi prende quello che vuole.
E Akaashi vuole me.
− Sei meraviglioso. – commento ridendo, cercando il suo sguardo.
Arrossisce, i pomelli delle guance che si scaldano.
− Come? –
− Sei meraviglioso. – ripeto.
Distoglie lo sguardo, caccia la testa contro l'incavo del mio collo e borbotta qualche parola intimidita che non sento, mentre lo stringo forte e rido ancora.
− Ti amo davvero troppo, Keiji. – mi concedo di dire dopo qualche istante, affondando le mani sulla sua vita e tirandolo forte lontano da me, come per poterlo guardare un'altra volta in viso.
Ha tutta la faccia rossa.
− Sei troppo sfrontato. –
− No, sono onesto! Se vuoi ti canto una canzone d'amore. –
Ride.
− Niente canzoni, ti prego. –
Non parlo, ma lo fisso come aspettassi qualcosa, che di fatto aspetto.
Aspetto che si chini, che mi baci, che le sue gambe si aprano impercettibilmente sopra le mie cosce e che la schiena si inarchi, che lo sguardo diventi tagliente.
− E anche io ti amo, Kōtarō. Vuoi vedere quanto? –
La risposta è puramente onesta.
− Non vedo l'ora. –
Quanto ci ha messo Keiji a fare quel che ha detto quel giorno d'autunno?
Un mese e mezzo.
Un mese intero di scartoffie, di interrogatori, di rincorse e ricerche e chissà cos'altro, un mese e mezzo di incontri nascosti, di parole aggressive, un mese e mezzo che è finito ora.
Eccomi, seduto su una sedia troppo elegante per me, che alla fine sono solo uno stronzo violento, a sorridere strafottente nel bel mezzo di una di quelle "riunioni di famiglia" che facciamo un paio di volte l'anno.
È il mio trono, questa sedia, e ci guardo il mondo con quell'aria altezzosa che si addice ad un re.
So come devo comportarmi quando sono qui, mi viene persino naturale. Alcuni dicono che sono naturalmente portato alla leadership, nonostante non sia particolarmente sveglio, perché sono carismatico.
Non so se sia vero, ma ho l'impressione che potrebbe esserci un fondo di verità.
Ho le gambe lunghe, spalancate sulla sedia, i pantaloni di sartoria di un colore bianco freddo, che riprende i miei capelli, la giacca aperta sulla camicia scura.
Batto via la cenere dalla sigaretta – a mia discolpa non amo i sigari – e prendo aria.
− Ok, prossimo argomento. – sbuffo, allungandomi sul tavolo.
Queste cose funzionano sempre nello stesso modo. Sempre seduti nella stessa disposizione attorno a questo lungo tavolo di granito, stesse persone, stessi argomenti, stessi occhi e stesse parole.
C'è solo una cosa nuova.
Una sola, seduta al mio fianco, le gambe accavallate e il busto che pende nel mio spazio personale, cosa che non è mai stata permessa a nessuno.
Il volto intimidito e al contempo sicuro di sé, la postura indecisa ma inevitabilmente attraente, gli occhi azzurri che viaggiano dal retro di due spesse lenti per tutta la stanza.
È la prima volta che porto qualcuno alle riunioni "di lavoro".
Nessuno è mai stato al mio fianco in questo modo.
Ma nessuno ha mai avuto il posto che ora ha Akaashi nella mia vita.
− Kōtarō. – mi sento chiamare dal fianco, la voce pacata, sottile.
Sa di attirare l'attenzione, così, che nessuno mi chiama per nome. Ma penso gli piaccia.
− Keiji. – rispondo, un sorriso che si dipinge sul mio volto non minaccioso o violento come al solito, più... dolce, credo.
Mi passa un plico di fogli ordinati, un resoconto, mi sembra di osservare, pinzati in fascicoli regolari. Appoggia il mattoncino di carta fra le mie mani, sporge il capo verso i presenti facendomi segno di distribuirli.
− Che cosa sono? – chiedo, spargendoli sul tavolo.
− Dammi un secondo. –
Sfila gli occhiali dal viso, tira i capelli indietro con la mano.
Si alza.
Sorrido, all'idea.
Se qualcuno si fosse permesso di prendere l'attenzione così, ad una delle mie riunioni, senza il mio permesso, gli avrei fatto tagliare un dito per insubordinazione nei miei confronti.
A Keiji che si alza darei tutto quello che vuole, invece.
− Buonasera, immagino. – inizia, con la voce pacata, tranquilla e composta come al suo solito.
Ha le gambe tese, i muscoli flessi, li sento quasi, però.
Sporgo un occhio verso i fogli.
Leggo il nome della mia ragazza, con la lentezza dovuta al mio cervello di legno, e collego le informazioni una ad una fino a rendermi conto che...
− Non so se avete ascoltato Kōtarō mentre mi presentava, all'inizio della riunione, ma chi sono non importa, – tace qualche istante, mi lancia un'occhiata di sfuggita – ancora. –
Rido sotto i baffi.
− Sono qui per parlarvi di una potenziale minaccia per tutti noi, vorrei che mi ascoltaste. –
Osservo un uomo di mezza età, al fondo del tavolo, sgranare gli occhi di fronte ai fogli, indietreggiare, guardare me, Keiji, la voce che non esce.
Quello è suo padre.
Il padre della mia "fidanzata".
Pover'uomo.
− Come vedete risulta che ci siano coinvolgimenti e fughe di informazioni dovunque sia passata la persona di cui sto parlando. Erano solo ipotesi, all'inizio, ma la storia non mi tornava. –
Che bello, Keiji, quando distruggi tutto per me.
− Contatti sospetti con la Yakuza di Kyoto, eventi non registrati, intere ore di buco totale riguardo alle attività. Un po' strano per essere un membro del Fukurodani degno di questo tavolo, no? A proposito... − si gira verso di me, sorride – perché non l'hai mai invitata? –
Alzo le spalle.
− Solo persone di cui mi fido. –
Inclina la testa.
− Oh, che carino. Ti amo anch'io, Kōtarō. –
C'è il silenzio tombale, attorno a noi, persino il padre della ragazza è ammutolito e sembra non capire. Si mescolano in lui tante cose, e nel naufragio delle sue idee non ne esce niente.
− Scusate, l'abitudine. Allora, il punto del discorso, senza girarci tanto attorno, è che ho delle prove concrete. La ragazza è una minaccia. Il suo ruolo in tanti degli attacchi verso Kōtarō non è chiaro, non è affidabile e sa troppo per rimanere in vita. –
Esplode, il padre.
Esplode inutilmente.
− Ma che cosa cazzo... −
− Stai zitto, seduto. Non ti permettere di parlare così a Keiji. – lo interrompo.
Mi sta rovinando lo show.
− Ma... ma... −
− Zitto, seduto. Non farmelo ripetere. –
Apre la bocca per prendere aria.
Appoggio la mano sulla fondina.
Cade sulla sedia da cui si era appena alzato come un corpo morto.
− Il ragazzo dell'erede del Karasuno era un informatore. Dice di averle parlato più volte, che non era discreta e anzi se le sue informazioni fossero finite in mani sbagliate ora Kō sarebbe morto. –
Alzo un sopracciglio.
− Kageyama ha un ragazzo? –
− Sì, e ti piacerebbe un sacco. Ne parliamo a casa. –
Amo, amo, amo questo modo di fare da cinico bastardo che allunga le mani. Amo come segni il territorio, amo la fierezza in cui condanna a morte una persona per il solo motivo di volermi avere, amo tutto.
− La ragazza deve morire. – ripete.
− Sono d'accordo. – annuisco, scendendo all'indietro con la schiena, una mano che si allunga e avvita dietro una delle cosce magre di Keiji.
Le persone rimangono zitte.
Uno, di lato, un altro membro di qualche famiglia anziana, mi guarda negli occhi.
− La ragazza ha diciannove anni. –
Keiji gli sorride in faccia, con gli occhi che sfavillano di vera, vera follia.
− Io sei mesi quando i miei sono morti, cinque anni quando mi hanno sbattuto fuori dall'orfanotrofio, sette la prima volta che mi hanno stuprato, nove la prima che mi hanno picchiato e lasciato a morire per strada, dodici quando dormivo per terra, sedici quando mi hanno assunto a fare l'archivista pagandomi con il cibo per sopravvivere. –
Potrei giurare di vedere la furia scorrergli nelle vene.
− Ne ho diciannove ora che ho quello che voglio. E in questo mondo non c'è spazio per tutti. –
Altro silenzio.
Il padre alza lo sguardo.
− Vuoi ammazzare mia figlia perché ti sei trovato una nuova troia? –
Le mie dita si chiudono sul calcio della pistola, il pollice fa scattare la sicura, il braccio si tende, lo sparo rimbomba nella stanza.
− Non la voglio ammazzare io, è Keiji. Se Keiji vuole qualcosa, io la faccio. – rispondo al corpo morto.
Occhi spalancati, bocche serrate.
− Chi la... chi la ammazza? – sento chiedere con un filo di voce poi.
Vedo che hanno capito.
− La ammazzo io. – dice il mio adorabile, incredibile e violento ragazzo sorridendo angelicamente come se nulla stesse succedendo.
− La ammazza lui. – alzo le mani.
− Noi cosa... cosa dobbiamo... fare? –
− Niente. È una traditrice, non è che dovete scegliere da che parte stare. C'è una parte sola, ed è il Fukurodani. – risponde Keiji, prima di me.
− Ma... −
− Sono prove oneste. So che sembra che questa cosa sia una messinscena per levarmi di torno i pretendenti, e lo è senza dubbio, ma le prove sono innegabili. Potete leggere i resoconti del ragazzo di Kageyama, sono firmati. Il Karasuno non mente. –
Qualcuno nasconde una risata nasale.
− Il ragazzino ha stoffa. Bel colpo, Bo. –
Konoha.
A Konoha le battute sono permesse. Mi ha salvato il culo più di una volta, glielo concedo.
Indica Akaashi con la testa, sorride.
− Lo so! – rispondo, tutto preso.
Rido, ride Konoha, ridacchia Akaashi, qualcuno si unisce nell'isteria del momento.
− Per quanto riguarda questo argomento, ho finito. – mormora Akaashi qualche istante dopo, girandosi verso la sedia e spostandola direttamente accanto alla mia, non indietro, non avanti, al fianco.
Nessun'altro, ci vorrei, qui.
Nessuno potrebbe permettersi.
Tu puoi, invece.
Tu puoi e sei l'unico.
Si siede, allunga l'avambraccio sul mio, intreccia le dita, accavalla le gambe.
− C'era bisogno di ammazzarlo qui davanti a tutti? – mi chiede, sussurrando, mentre qualcuno riprende un altro discorso per cercare di tamponare la situazione.
− Ti ecciti quando uccido le persone, non farmi queste domande. –
Spero che abbia sentito solo lui quel che ho detto, ho persino provato a dirlo a bassa voce.
− Solo quando uccidi qualcuno per me. –
Aggrotto le sopracciglia.
− Quindi ora... −
− Terribilmente. –
Nascondo una risata, mi sporgo di lato.
− La ragazza? –
− Legata al capanno dove fanno le esecuzioni al Nekoma. –
− Al Nekoma? –
Mi tira avanti dal colletto della camicia, mi bacia appena le labbra, un gesto quotidiano, nulla di più, poi mi lascia andare.
− Kenma dice che ha sparato ad un tizio perché Kuroo ci aveva avuto problemi in passato e che se qualcun altro si fosse messo in mezzo l'avrebbe falciato con una mietitrebbia senza rimpianti. –
Non ce lo vedo.
O forse... forse ce lo vedo.
− Ti ha dato una mano lui? –
− Anche Kuroo, dice che crede nel "vero amore" e che voleva venire a cantare Aladdin al nostro matrimonio. –
Nascondo l'ennesima risata.
− Sono dei cazzoni. –
− Ha parlato. –
Giro il braccio sopra il suo, passo il pollice sul dorso della mano.
− La ammazziamo o andiamo a casa? – chiedo, come nulla fosse.
− Prima la ammazziamo. –
− Come vuoi. –
Rimaniamo in silenzio per cercare di carpire un'altra volta il filo del discorso, ma l'argomento è completamente mutato, qualcuno sta trascinando via il cadavere e non riusciamo a raccapezzarci molto.
Nel dubbio mi giro.
− Lo sai che ti amo, vero? – mormoro al mio fianco.
Sorriso sornione.
− Lo so. Ti amo anch'io. –
Il cuore mi batte forte nel petto.
E penso davvero che non potrei essere in nessun modo, in nessun mondo e per nessun motivo, felice come sono felice ora.
Sarà una felicità sbagliata, una felicità finta e malsana che non dovrebbe soddisfarmi.
Ma non me ne frega un cazzo.
Se devo essere onesto, non me ne frega davvero, davvero un cazzo.
Keiji che uccide ha lo stesso modo di fare che ha quando ha parlato qualche ora fa. Freddo e calcolato, ma maniacale.
È entrato nel capanno salutando Kuroo con la mano e si è sporto per baciare la guancia di Kenma, ha accettato di buon grado un bicchiere d'acqua ed è rimasto a chiacchierare del più e del meno come non fosse lì per il solo motivo di togliere la vita a qualcuno.
Poi li ha congedati, chiedendo un po' di privacy, e mi ha trascinato dentro.
Rideva, mentre la guardava chiamarmi, come un folle, ed era bellissimo anche in quel modo.
Le mani gli tremavano, le gambe, gli occhi azzurri dipinti di una rabbia simile a quella delle bestie randagie che combattono per la sopravvivenza, come fosse un leone affamato che lotta per un brandello di carne fresca.
Mi piace, essere qualcosa che lo rende così.
Mi piace essere importante, mi piace che mi dica che sono la sua felicità, mi piace aver dato tutto ad una persona che amo in questo modo.
Ha premuto il grilletto solo alla fine.
Le ha detto che gli dispiaceva.
Ma che non poteva far altrimenti.
Perché io, io sono suo.
Siamo tornati a casa che non ci tenevamo.
Siamo tornati a casa che eravamo catturati, presi e sballottati da sensazioni indistinguibili, tutte risolte in un poetico stato di malsana euforia.
Lo tiro su, prima di varcare la porta.
Lo tiro su per la vita, rido forte, come un ragazzino, a trascinarlo dentro.
Non si dimena, si lascia trasportare.
Mi guarda.
E io guardo lui.
E le parole escono fuori come un torrente.
− Non ho mai amato nessuno come amo te, non credo lo farò mai. – confesso ad ogni passo.
Risponde alzando gli angoli della bocca.
− Vedermi uccidere ti rende romantico? –
− No, tu. Tu mi rendi romantico. –
Brilla.
Come brilla.
− Sei tutto quello che ho. – dice poi, dopo qualche istante.
Non lo mollo in salotto, non per le scale, no.
Lo porto come fosse un tesoro su, fino al mio ufficio, lo adagio sopra di me sulla poltrona dove è iniziato tutto.
Dove abbiamo deciso di essere quello che siamo.
Dove ci siamo presi a vicenda.
− Promettimi che non mi lascerai mai. – mormora, quando siamo fermi.
− Mai, Keiji. Mai nella vita. –
− Ancora. –
− Non ti lascerò mai, Keiji. – ripeto.
Ed è vero, Dio solo lo sa, quanto è vero.
− Quanto tempo ci rimane? – chiede poi, scherzando e ridendo, alla faccia di qualcosa di macabro che ha appena fatto.
− Credo una vita intera. –
Si sporge.
− Prova ad allontanarti da me e ti ammazzo. –
− No, no, mai. –
Baci timidi, oggi, non focosi.
Baci dolci e delicati.
Ora, baci famelici.
Siamo io e lui, quel che rimane, quel che resta. Siamo noi due e basta, ormai, siamo soli, ce la siamo guadagnata con la sofferenza, questa solitudine.
E ora diventa quel che ci tiene in vita.
− Vieni qui. – borbotto, quando si stacca per respirare.
− Sono già qui. –
− No, qui a vivere. –
Ride, gettando indietro la testa.
− Non hai detto a quella che "volevi i tuoi spazi"? –
− Li voglio. E tu sei nei miei spazi. –
Arrossisce.
− Sicuro? –
− Sicuro quanto sono sicuro che al mondo non esiste niente che io voglia tanto quanto voglio te. –
Lo rilassano, le mie parole, lo rilassano e cullano mentre annuisce.
− Va bene, allora. –
Gli stringo forte le braccia attorno al corpo, premendolo contro il mio petto.
− Ti amo, cazzo. Ti amo, ti amo, ti amo! Ora non ti libererai mai di me, e non ti ho nemmeno detto che russo! –
Sono un idiota.
Lo so, che sono un idiota.
Ma amo esserlo, se ride a quel che dico.
− Guarda che lo so che russi! –
− Davvero? Come? –
Sale con le dita verso il primo bottone della mia camicia, lo apre, poi scende.
− Ho dormito in questa casa un sacco di volte, sai. –
− Oh, giusto. Me n'ero dimenticato. –
− Sei un cretino. –
Spalanca il tessuto, appoggia i palmi contro la pelle solida e scorre fino alle spalle, stringendole appena fra le dita magre.
− So anche che non ti vuoi mai svegliare la mattina, che ci metti quaranta minuti a farti i capelli, che non ti piacciono le carote e che ti si forma una rughetta proprio qui – preme l'indice fra le mie sopracciglia – quando pensi troppo intensamente. So che sei dislessico ma ti piace ascoltarmi leggere, so come sei fatto, so cosa ti piace e so che mi ami, Kōtarō. –
Annuisco.
− Ah-ah, tutto vero. –
− So che ti piaccio anch'io. –
Mi piaci?
Akaashi, tesoro mio.
C'è molto più di un semplice piacere in me, quando ti guardo.
Prende le mie mani con le sue più delicate, se le allaccia in vita.
− So che mi stringi forte qui quando mi tocchi, mi rimangono sempre i segni dopo. –
Il tono è sceso.
Akaashi sa cosa sta facendo.
− Che ti piace quando ti bacio qui... −
Appoggia le labbra aperte e le sfrega contro il mio collo.
− So che ti piaccio senza vestiti. –
Di nuovo, non è solo che mi piaci, no.
È che sei quello che cerco e quello che voglio, nella tua interezza.
− So che ti piace uccidere, che sei un pazzo violento a cui non frega un cazzo degli altri. –
Vero.
− Ma che faresti di tutto per me. –
Vero anche questo.
Preme il bacino verso il basso, forte, si muove in avanti e si morde il labbro per reprimere un gemito.
− So che sei mio, cazzo. –
− Lo sai bene. – concludo finalmente.
Eccitante, questa vita.
Brucia, come bruciamo noi due, di sensazioni forti, non di noia.
Non c'è niente di normale, niente di comprensibile nell'essere due nodi di emozione e impazienza dopo aver ucciso delle persone, ma che normalità ci contraddistingue?
Il nostro amore è così.
E tutto quello che ci ruota attorno, è allo stesso modo.
Conclude i bottoni, si dedica al suo maglioncino scuro, tirandolo su sopra la testa.
− Vuoi farlo? – mi chiede, nonostante la risposta la sappia già.
− Perché non dovrei? –
− Perché ti ho ucciso qualcuno davanti e mi trovi disgustoso. –
Rido.
− Potrei dire lo stesso di te. –
− Sai che mi eccita quando uccidi per me, Kō, non dire cazzate. –
Alzo le sopracciglia.
− Non capivo questa cosa ma quando ti ho visto fare lo stesso ho afferrato quel che dici. –
Certo che l'ho afferrato.
Cosa c'è di più dolce di qualcuno che perde l'umanità per amarti, mi chiedo. Cosa di più onesto. È un amore palese, se si descrive nella violenza sfacciata, ed è un amore frontale che ci investe, non che sboccia timido.
È eccitante.
Perché è eccitante vedere la parte più cruda dei sentimenti.
Lo vedo tirarsi su per sfilare i pantaloni, cacciarsi in camera di fretta e tornare con una bottiglietta di lubrificante a metà, appoggiarla sulla scrivania.
− Qui? – chiedo.
− Qui dove lavori, sì. –
Non che abbia nulla in contrario, anzi.
Ora che la clandestinità non è qualcosa che ci appartiene, ho intenzione di ribattezzare ogni angolo di questa casa.
− Doveva venire a viverci lei? – mi chiede, mentre si rimette sulle mie cosce, gambe aperte e schiena inarcata, torreggiando sopra di me.
− Dopo il matrimonio, sì. − confermo.
− Quasi mi spiace di averle preso tutto. –
− Non è vero. –
Scuote la testa, sorride.
− No, hai ragione. Non è vero. –
Getta le braccia oltre le mie spalle, si china un'altra volta verso di me e il modo in cui mi bacia è più sensuale, ora, più sornione.
− Domani mi sveglierò qui un'altra volta. – mugola fra sé e sé come non ci credesse.
− Anche dopodomani. –
− E dopo-dopodomani. –
Annuisco.
− Finché morte non ci separi. –
Morde la mia guancia appena, senza farmi male.
− Anche dopo. Col cazzo che ti mollo, ragazzone, con la fatica che ho fatto a trovarti. –
Rido, il petto che trema, scendo con le mani sul suo corpo.
− Fatica ben spesa, se lo chiedi a me. Sono il meglio del meglio sul mercato. –
− E continui ad essere un cretino. –
I movimenti diventano sempre più affusolati, sempre più felini, sul mio corpo vestito. Non si vergogna, ad essere l'unico nudo, no.
È come se chiedesse di guardarlo.
Come se mi stesse seducendo.
E se qualcuno ci sta cascando in pieno, beh, quello sono proprio, proprio io.
Appoggia una mano fra noi, dove le mie gambe si incrociano, preme e la mia voce risuona in un verso gutturale.
− Tu sei mio anche qui. –
− Su quello non c'è dubbio. –
Ci sarebbe se ci fosse qualcosa che ha su di me quest'effetto. Ma non esiste.
Ne ho fatto, di sesso, nella mia vita.
Ne ho fatto tanto.
Ma questo non è quel sesso senza nome.
Akaashi è bello in ogni sua parte, è bello dentro ed è bello fuori. Mi accoglie e mi fa sentire come se fluttuassi, ed è allo stesso tempo di una bellezza che rasenta la tracotanza degli angeli che cadono.
È bello perché c'è qualcosa di violento, dentro di lui.
È bello per come è, nelle fattezze eleganti, ma è bello all'interno perché brucia e scotta e anche se la pelle si squama a contatto di quel calore così intenso non riesco a mollare la presa.
Keiji è mio perché mi fa sentire come se fossi invincibile.
Perché si prende cura di me.
Perché non mi fa sentire solo, mi completa, mi fa sentire...
Bene, credo.
Sì, Keiji mi fa sentire bene.
Anche se non me lo merito, che sono la feccia dell'umanità.
Mi fa sentire bene lo stesso.
Si muovono veloci, le sue dita, ad aprire il bottone dei pantaloni, tirare fuori quella parte di me per cui ora sembra così famelico e muoverci la mano attorno.
Ha la presa salda ma delicata.
Non faccio finta di volermi controllare.
Rimango fermo, le braccia aperte sullo schienale, a guardarlo fare questa cosa per me.
Tira su una delle mani, lecca una striscia umida sul palmo e mi tocca ancora aiutandosi con l'umidità scivolosa della saliva.
Lascivo in tutto quel che fa.
Sensuale, infido.
− C'è il lubrificante sul... cazzo... sul tavolino. – scherzo, riferendomi al gesto fuori dalle righe di qualche istante fa.
Sorride, si lecca le labbra.
− Pensavo ti piacesse la mia lingua. –
Ah, miseria.
Certo che mi piace.
Piccola creaturina demoniaca.
− Aveva ragione, quel tizio, oggi. –
Alza un sopracciglio, si ferma.
− Sei davvero una troia, tu. –
Arrossisce in un istante. Rosso tenue che si spande sul petto, sulle spalle, gli occhi che si spalancano.
Poi si richiudono, e quando tira su un'altra volta le palpebre le tiene là, a mezz'asta, pesanti, mi fissa e basta.
− La tua, Kōtarō. La tua e basta. –
Annuisco.
− La mia. –
Chiude le dita su di me un'altra volta, le muove con calma indietreggiando con la schiena e l'arco che descrive e che intravedo è una di quelle cose che mi manda fuori di testa.
− Fammi sentire, Kō. –
Appoggio la nuca indietro.
Stringe, rilassa, il ritmo diventa più sensuale.
Non trattengo la voce.
Che senso avrebbe, trattenerla a casa nostra?
Nessuno.
Nessuno davvero.
Sento la sua mano muoversi più velocemente, più velocemente, Akaashi si china e mi bacia senza fermarsi, impasta le labbra con le mie e ingoia i miei gemiti, inclinando il capo per raggiungermi meglio, passa il pollice sulla punta e mi sembra che i miei fianchi si vogliano alzare da soli e...
No, non ho intenzione di venire così.
Se continua in questo modo so che lì andremo a parare.
Ma so dove voglio venire, e non è nella sua mano.
− Keiji. – lo chiamo, con la voce che traballa.
Capisce, ma non smette per ancora un paio di movimenti.
Mi guarda dritto in faccia, mentre lo fa, poi tira via la mano e si lecca le dita.
Creatura lasciva, penso di averlo già detto.
− Lubrificante. – chiedo, sporgendomi col mento verso il tavolo.
− Ai suoi ordini. – ribatte scherzosamente.
Si tende, la pancia e i muscoli dell'addome, mentre si allunga verso il tavolo, la pelle chiara che guizza al di sopra della tela del suo corpo in un disegno quasi ipnotico.
− Faccio io? –
Scuoto la testa.
− Non se ne parla nemmeno. Non ho ucciso un tizio e tu una tizia per poter stare insieme e rinunciare all'occasione di toccarti il culo, Keiji. –
Preme le labbra in una linea.
− Non lo dico nemmeno. – mormora.
Sorrido a trentadue denti.
− Lo so che sono un cretino! Tutti mi amano perché sono un cretino! –
Mi passa la bottiglietta e si appoggia su di me, il mento sopra la spalla e la schiena inarcata di fronte ai miei occhi, come volesse offrirsi alla mia vita.
− Io ti amo di più, però. –
− Più di mia madre? –
Sospira.
− Non parlare di tua madre mentre sono nudo sopra di te. –
− Oh, vero. Scusa mamma. –
So che vorrebbe schiantarsi una mano in faccia, ma non lo fa.
Spremo una quantità piuttosto generosa del liquido gelatinoso fra le mie dita, lo spingo verso il basso perché s'inarchi ancora, poi avvicino i polpastrelli alla sua entrata, sentendolo trattenere il fiato.
Non è così necessario, lo sappiamo entrambi.
L'abbiamo fatto qualche ora fa, prima della riunione, e ancora la sera prima.
Facevamo troppo sesso perché la relazione fosse definibile clandestina, lo so. Ma lo era, e ora non lo è più, e questo è tutto quello che conta.
In ogni caso mi piace.
Quando infilo due dita dentro di lui, lasciandole scivolare fino in fondo, mi piace come trema il suo corpo attorno a me.
Si tende e rilassa, mi inghiotte come volesse inglobarmi, mi chiede e prega di farlo ancora, di perdermici più a fondo, dentro di lui.
− Kōtarō... −
− Così, Keiji, così, da bravo. – lo incoraggio, nonostante so che non ne abbia alcun bisogno, solo per sentire come reagisce quando mi complimento con lui.
Geme più forte.
Spinge indietro col bacino, contro le mie dita, piano.
− Stai cercando di scoparti da solo sulla mia mano? – chiedo poi, rompendo qualsiasi vincolo ci fosse con la più gratuita e volgare delle verità.
− Io... −
− Tu cosa, Keiji? –
Stringo una mano al suo fianco.
Volevo essere gentile.
Immagino non mi voglia gentile.
Le due dita diventano tre, la presa si fa di ferro, le mie dita entrano ed escono ad un ritmo che si costruisce sempre più serrato.
− Così ti va bene? –
− Ma... −
− Ti ho fatto una domanda, Keiji. Rispondi alla domanda. –
Gli occhi sono vitrei, quando piega il volto per guardarmi.
− Sei un bastardo e ti amo per questo. – mormora, e il calore si accende nel mio petto.
Lo so che mi ami per questo, quando facciamo queste cose. Lo so che mi ami perché ti prendo come fossi mio e nonostante ti custodisca voglia esplorare ogni singolo centimetro di te.
Sono fatto così.
Sono un uomo violento, io.
− Baciami, Keiji. – ordino, aspettando che si sporga.
Lo fa, si sporge.
Mi bacia lui, mentre muovo una mano dentro e fuori dal suo corpo, su in quel punto che lo fa tremare e di nuovo lontana, con un ritmo incessante.
− Dimmi che mi ami. –
Il suo respiro si fa affannoso, il bacino ora non è più tentativamente impegnato a spingersi sotto, ma non ha pace, segue i miei movimenti, li accompagna, li aiuta.
− Ti amo... −
− Ancora. –
− Ti... −
Stringo il suo fianco forte da fargli male, forte da lasciare il segno.
− Più forte, Keiji. –
− Ti amo, Kōta...rō... −
Affondo i denti sulla sua spalla.
− Più forte. –
− Ti... ti amo... −
− Dimmi che hai bisogno di me. Dimmi che vuoi solo me. –
Singhiozza, prende aria.
Nella foga del momento mi afferra il viso fra le mani, preme la fronte contro la mia e chiude gli occhi mentre parla.
− Ho... bisogno di te, voglio solo... te. –
Mi fermo.
Mi fermo, lo tiro su, spremo il lubrificante su me stesso, gli spalanco le gambe e lo allineo con me.
− Fammelo vedere. –
La fretta delle cose l'ha confuso, ma rimane sempre della stessa bellezza quasi impossibile, anzi.
Rosso, in viso e sul petto, col segno di un morso sul collo e dita violacee che prendono forma su un fianco, i capelli arruffati, gli occhi umidi, le labbra gonfie.
Mi guarda come se non vedesse nient'altro.
E questo sì, che mi manda su di giri.
− Cosa aspetti? –
− Le mie... gambe... −
− Ti tremano le gambe, Keiji? –
Annuisce.
− Fallo lo stesso. –
So che trema, so che è stanco. So che ci sono qui io a prenderlo nel caso cedesse.
So che voglio vederlo mettersi me stesso dentro da solo.
Voglio.
E quello che voglio, io lo ottengo sempre.
La visuale è magnifica.
Si gira col torso guardandosi indietro, il collo e i muscoli tesi, mi prende fra le dita e mi posiziona contro di lui, torna con le mani aperte sulle mie spalle.
Poi si spinge in basso.
Lentamente, con calma, secondi e secondi di attesa straziante che ci sia tutto di me dentro di lui, ma quando finalmente ci sono, completamente sepolto nel calore che emana, allora sì, che mi sento come se fossimo uno solo.
− Kōtarō... − mi chiama, ancora.
Com'è bella, la sua voce, quando chiama me.
− Keiji, cazzo, Keiji. – ripeto, rispondendo al tono dolce della sua preghiera.
Le sue gambe sono deboli, lo so.
Fa fatica, si vede che fa fatica, ed eppure non cede.
Si alza sulle ginocchia, mi lascia quasi uscire, poi si schianta in basso, tutto il suo corpo che si stringe sul mio.
Geme il mio nome, io gemo il suo.
Tremano le sue cosce, contro di me.
Ed eppure c'è qualcosa di così primordiale, possessivo, nel modo in cui si sforza al limite della sua energia per fare questo, per me.
Non so nemmeno se sia per il mio piacere, che s'impegna.
Sembra quasi lo faccia solo per il suo.
E se c'è qualcosa che mi piace, allora è sicuramente vederlo godere di me nella mia interezza.
− Ancora, ancora, ancora... − chiedo al suo orecchio, osservandolo fare più forza nei movimenti.
Sbatte, il suo bacino, sbatte in un rumore inconfondibile, secco da una parte e umidiccio dall'altra, mentre fa quello che lo soddisfa.
Getta la testa indietro quando trova da solo il punto che gli piace, insiste, abusa di quel piacere che lo invade, i movimenti che si fanno secchi, direzionati.
Si morde il labbro ma geme ugualmente, geme per me, contro di me, con me.
Quando inizia a stringersi, allora, allora decido che è il momento che prenda le redini di tutto questo.
Amo vederlo sopra di me, ma amo anche distruggerlo.
Stringo le mani attorno ai suoi fianchi magri, faccio forza sulle braccia e lo accompagno nei movimenti.
− Cazzo! – lo sento mugugnare ad una spinta particolarmente forte del mio bacino, mentre strizza gli occhi pieni di lacrime non versate e lascia che le sensazioni prendano la meglio su di lui.
− Prendilo, prendilo, prendilo... − ripeto come fosse un mantra, vedendomi scomparire dentro il suo corpo.
Sentirlo, me che affondo in lui, è meraviglioso.
Ma anche vederlo, ha qualcosa di volgarmente sensuale.
Mi fa sentire come se lo possedessi.
E di tutte le cose che voglio, possederlo è la prima.
− Kōtarō, più forte, più forte, così, cazzo, cazzo... −
Non sa cosa sta dicendo, o forse lo sa ma non gl'importa, quando la sua voce perde inibizioni e mi prega in mille modi diversi.
− Dimmi che mi ami. – chiedo ancora, perché è tutto quello che voglio, tutto da lui e tutto nella vita.
Mi guarda come può.
− Ti amo, Kō, ti amo davvero... − riesce a sospirare prima che il mio bacino scatti in alto e le parole si soffochino in un verso acuto.
Non è abbastanza.
Di più, mi dico, voglio di più.
Voglio le tue lacrime, le tue urla, voglio quello che hai, tutto, cazzo, tutto.
Il mio Keiji.
Meraviglioso, infido, lascivo Keiji.
Lo tiro su con un gesto secco, senza permettergli di lasciarmi uscire.
Un paio di passi, un gesto inconsulto per tirare via la montagna di fogli che ho sulla scrivania direttamente per terra, appoggio la sua schiena sul mogano scuro.
Incastro le gambe dietro le mie spalle, le ginocchia che si piegano contro di me.
La spinta successiva mi sembra di essere così in profondità dentro di lui da perdermici, quasi.
− Ah, cazzo! –
Già, Keiji. Già.
Afferro con un braccio l'estremità della scrivania, che siamo all'angolo ed è ancora a portata di mano, il mio bacino che non si ferma e anzi, ricomincia con rinnovata forza sempre più velocemente sul suo.
− Dimmelo, Keiji, dimmelo... −
− Ti amo... −
− Urlalo più forte. –
− Ti amo, Kō, ti amo, ti amo, ti amo... −
Non so perché abbia bisogno di sentirlo così tanto, so solo che ogni parte di me, da quelle più ruvide a quelle più dolci si mettono tutte a posto, quando dice quelle parole.
Mi sento bene con me stesso, quando Keiji mi ama.
E Keiji, ora ne sono più convinto che mai, mi ama davvero.
Spingo più forte.
− Dentro di me, tu devi stare dentro di me. – intima, quando vede il sudore iniziare a colarmi dalle tempie e il mio viso farsi meno posato.
− Dentro di te... −
− Dentro di me. –
Dentro di te, Keiji.
Tutto quello che sono, amore mio, sta dentro di te.
E non c'è alcun posto dove preferirei rifugiarmi.
Spalanca impossibilmente le cosce, preme forte le ginocchia contro il legno, si aggrappa con una mano al bordo del tavolo affiancando la mia, per reggersi meglio.
Spinge verso di me.
Mi accompagna.
Stanco, sfinito, si sforza per venirmi incontro.
L'amore, ti brucia per davvero.
− Ti amo, Keiji. – riesco a gemere.
− Anche io, Kō, anche io... −
− Ti amo, miseria... −
− Ti amo... −
Ci amiamo.
E conta tutto il resto.
No, non conta più.
Nessuna delle cose che siamo, ha più il minimo valore, quando sono qui.
Le lacrime gli scendono dagli occhi, ma scendono anche dai miei.
Uno solo.
Una cosa sola.
Diventiamo una cosa sola.
Viene per primo come un fiammifero che prende fuoco e brucia.
Si stringe.
E vengo anch'io.
Dentro, dentro di lui.
Quanto mi sento a casa, dentro di te.
Secondi che sembrano minuti che sembrano ore, spesi a ricongiungerci in questo stato che ci fa sentire perfettamente a posto, la mia vita che fluisce nella sua, le linee che si intrecciano.
Respiro forte.
Respiro forte mentre vengo e mentre viene, quando bagna me e il suo petto, quando sono libero completamente dove è giusto che lo sia.
Ci diamo tempo per godercela.
E quando finisce, la pace che mi invade è inimitabile.
Mi lambisce il corpo, mi abbraccia e mi adora.
L'amo, Dio se l'amo.
E so che mi ama come amo lui.
Esco che lo sento protestare, ma non mi faccio catturare da quei gemiti da frustrati quando lo tiro su di peso verso la camera da letto.
− Devo portare la mia signora sul letto nuziale. – gli faccio notare, alzando le sopracciglia.
− Sei... −
− Un cretino, lo so. –
Mi lascia un buffetto debole sul naso.
− Il migliore della terra. –
Rido.
Schiena sul materasso, lo osservo scomparire fra le lenzuola fitte, come fosse nato per starci dentro, al mio letto.
− Vieni qui. – dice poi.
− Dove vuoi che vada? –
− Non via. –
Mi lascio incastrare da un paio di braccia sottili, mi specchio su occhi azzurri che mi riflettono migliore di quel che sono, che mi fanno sentire l'amore.
− Stanco? –
− Morto. Uccidere è faticoso, scopare ancora di più. – borbotta.
Mi sento sorridere.
− Povero piccolo. –
Nasconde una risata con un verso di stizza.
− Tutta colpa tua, pervertito. –
Lo stringo forte.
− Solo con te. Mi tiri fuori qualcosa. –
− Sarà meglio. –
Rimaniamo in silenzio entrambi.
Poi parla con la testa che si inerpica al mio petto.
− Ora sei mio, finalmente. –
Gli bacio la fronte, lo guardo.
Che bello, che sei.
Che bello.
Con quale perfezione ti presenti, Akaashi Keiji.
Di te mi sono innamorato come ci si innamora del fuoco che vedi per la prima volta e che scoppietta rosso nelle sue lingue dorate, come di un posto che visiti per la prima volta e senti casa, come per la vita.
Di te mi sono innamorato un giorno d'autunno.
Prima non c'è niente.
Dopo il futuro, che mi alletta più di quanto non abbia mai fatto.
− Ora ti tocca sopportarmi. –
Sorride.
Mi traccia il viso con la mano.
− Per sempre. –
− Per sempre? –
Stringe il mio viso fra le dita, sporge le labbra.
Bacio soffiato che sa di felicità.
Mi guarda dritto negli occhi.
− Per sempre, Kōtarō. Ora sei mio per sempre. −
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