𝚜𝚞𝚌𝚔𝚎𝚛 𝚙𝚞𝚗𝚌𝚑

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Far parte della Yakuza non è mai stata una cosa semplice.

Rimetto il tappo ad una penna stilografica lucida e nera e sposto gli occhiali sul ponte del naso mentre osservo, stanco, teso e sfinito la sequela infinita di nomi che decora il foglio bianco sulla scrivania.

E' stancante, doloroso e non hai mai un attimo di tregua.

La suoneria squillante dell'interfono mi distrae, catturando la mia attenzione. Allungo un braccio verso la cornetta scura, la tiro su e rimango in silenzio in attesa che il mio segretario parli. E' un ragazzino piuttosto giovane per il lavoro che fa, ma è bravo, e mi è anche discretamente simpatico.

- L'ultimo di oggi è arrivato, 'Kaashi. Dai che abbiamo quasi fatto. - mi rassicura, la voce squillante che mi fa sorridere. Non ne ho la minima voglia, ma devo, e ha ragione.

E' l'ultimo.

Poi posso tornare a casa a farmi coccolare dal mio adorabile fidanzato.

Cioè, un secondo.

Adorabile per me.

Non so quanti avrebbero il coraggio di definire un boss della Yakuza "adorabile".

Io e Bokuto Kōtarō ci siamo conosciuti una marea di tempo fa. A lui serviva qualcuno che si occupasse delle questioni burocratiche di cui era tanto stanco e io ero semplicemente il miglior addetto alle scartoffie che si fosse mai visto alla Fukurodani da almeno una cinquantina d'anni.

Io non ero nessuno all'inizio. Sono orfano dalla nascita, finire alla Fukurodani non era nemmeno stata una mia scelta. Ero solo e una famiglia della Yakuza mi aveva offerto una mansione. E io non potevo proprio permettermi di dire di no.

Passavo le giornate a mettere via fascicoli, neppure sapevo che cosa ci fosse scritto sopra, mi davano da mangiare, avevo un tetto sopra la testa e tiravo avanti decisamente meglio di quanto non avessi mai fatto nella vita.

Era stato quando si erano resi conto del mio talento organizzativo che mi avevano detto che cosa stavo maneggiando. Informazioni altamente riservate. Roba che pesa.

E quando Kōtarō, che nonostante avesse solo un anno più di me non sembrava affatto un mio coetaneo, era entrato nel mio minuscolo ufficio polveroso a cercare il talentuoso burocrate venuto dal nulla, brillava. Mi sembrava una stella. Non c'era più niente che non andasse nella mia vita. Era perfetto.

E' stato amore a prima vista. Un colpo di fulmine tanto forte da farmi persino paura.

Io non avevo alcuna idea di chi fosse, ma da quando ha messo piede nella mia vita, da quel primo, minuscolo istante, ho saputo che era mio. Che era fatto per me. Che era l'unica cosa che avessi mai voluto nella vita e, diamine se non me la sarei presa con i denti.

Kō è il boss. E' esattamente questo. Il boss di una famiglia della Yakuza.

Lo so, lo so. Sembra spaventoso e, fidatevi, lo è. Rischia di morirmi davanti agli occhi almeno due volte al mese e il suo corpo - meraviglioso, tonico corpo - è costellato di cicatrici, ma non m'interessa. Del fatto che uccida persone a sangue freddo e con quelle stesse mani circondi i miei fianchi quando mi dice che mi ama, non me ne frega nulla. Se anche fossimo sulla Luna, io lo amerei lo stesso.

Mi ha dato tutto.

Mi ha reso felice. Non me lo merito, lo so. Uccidiamo e minacciamo le persone per istituire una forma parastatale di governo, di fatto. Siamo una banda di criminali senza scrupoli. Ma io sono felice lo stesso. Quando mi specchio negli occhi dorati dell'uomo che amo, il mio cuore si riempie e trabocco di gioia.

Mi ha dato l'orgoglio. Orgoglio sporco di sangue? Forse. Ma da quando sono con lui la mia testa non si china più. Non ho più niente di quel ragazzino magro che tremava nei vicoli. Ora sono uno Yakuza, sono il compagno del capo, faccio bene il mio lavoro.

E mi ha dato la forza. La forza di premere un grilletto, la forza di dire "no", la forza di essere chi sono.

Kō mi ha dato tutto nella vita.

Mi alzo dalla sedia di pelle per sistemarmi davanti alla grande scrivania di vetro. In piedi, e non seduto, è più facile imporre la mia autorità, e l'outfit che ho scelto oggi è troppo bello per essere nascosto.

Un uomo sulla trentina, alto, più di me, si infila nella porta del mio ufficio con un saluto educato e un lieve cenno del capo a mo' di inchino.

Se ho letto bene, dovrebbe essere una cosa facile e veloce. Non dovrei metterci troppo.

E poi lo guardo meglio.

Dio, no.

Mi fissa come se fossi esposto in una gioielleria.

Spero vivamente che sia una persona dotata di intelletto e comprenda cosa può o non può fare, che non mi metta in una brutta situazione e che mi lasci tornare a casa tranquillo fra le braccia del mio folle fidanzato.

Ma oggi nulla mi sembra andare per il verso giusto.

Saluto, mi siedo sulla scrivania, inizio a parlare.

E' un semplice problema di territorio. Il suo locale è a metà fra il nostro e quello del Nekoma e Kenma mi ha detto al telefono che possiamo occuparcene noi, quindi devo trasferire la quota del prestito da loro a noi. Devo dirgli questo e basta.

Osservo stizzito il modo schifosamente languido in cui mi fissa la gamba mentre parlo. Questi pantaloni neri la stringono perfettamente, evidenziandone il contorno lungo e flessuoso. Ma questa gamba ha un nome scritto sopra e nessuno può permettersi di ignorare questo fatto.

Muovo leggiadramente la penna in aria enfatizzando il discorso, ma questo sembra attirare sempre di più l'attenzione verso il mio corpo. E la cosa inizia a infastidirmi parecchio.

- Allora, le confermo che il trasferimento della quota è stato approvato, si tratta di un paio di giorni prima della ratifica ufficiale. Le consiglio intanto di prepararsi, quando ammettiamo un nuovo pub nel nostro territorio i ragazzi passano sempre a provarlo. Sono un po' scalmanati, ma sono gestibili. - concludo, sorridendo appena.

E qui le cose iniziano a degenerare.

L'uomo sorride e si china appena in avanti.

- E tu pensi di passare? Sai, non mi dispiacerebbe offrirti qualcosa da bere per ringraziarti. -

Non ho intenzione di fare l'ottuso. So benissimo cosa sta cercando di fare e per il suo bene e la pena che provo per lui metterò le cose in chiaro. Non è detto che sappia chi sono, perciò gli concederò il beneficio del dubbio.

Nonostante questo, il fatto che mi stia dando del "tu" lo detesto.

- Signore, mi spiace avvertirla in modo tanto brusco ma devo consigliarle vivamente di non parlarmi con questa confidenza. Inoltre gradirei mi desse del "lei". - ribatto, un sorriso gelido in viso.

Schiocca la lingua con un ghigno.

- Mmh, freddo e glaciale. Mi piacciono le sfide. -

Alzo gli occhi al cielo, mi avvicino alla sua faccia catturando gli occhi nel mio campo visivo.

- Non c'è nessuna sfida. Io sono impegnato. E con qualcuno che potrebbe arrabbiarsi molto, se la sentisse parlare in questo modo. Quindi farebbe decisamente meglio a smetterla prima di ritrovarsi morto in qualche buio e sperduto angolo della città. -

Kō è fatto così. La sua vita è stata una trafila di tradimenti, nella mafia questo succede, di solito, e di quelle pochissime persone di cui si fida è mortalmente geloso. Soprattutto di me. E' stato capace di piantare una pallottola nel cervello di uno stronzo che ha fatto apprezzamenti pubblici sul mio corpo, e non parlerò di ciò che ha fatto ad un altro povero idiota che mi ha strizzato il culo convinto che non me ne fossi accorto.

Bokuto è iper protettivo, e a me, che non sono mai stato considerato da nessuno, che ero nient'altro di una pallida comparsa nelle vite altrui, piace essere iper protetto.

Mi fa sentire importante, il modo in cui mi tratta come se fossi un tesoro prezioso che tutti gli vogliono rubare.

L'uomo davanti a me sbuffa.

- Ah, sì, allora avevano ragione le voci su di te. Sei la tipa di Bokuto. Beh, se fossi la mia, di tipa, non dovresti lavorare tutto il giorno. - rilancia, e inizio a pensare che vivere gli faccia schifo.

Mi allontano, indico la porta con lo sguardo e lo osservo alzarsi ridacchiando vittorioso.

- Io non sono la "tipa" di nessuno. Io sono il compagno del boss della Fukurodani, non una "tipa". E lavoro perché questo posto me lo sono guadagnato e lo rispetto, perché le garantisco che se volessi passare le mie giornate a non far nulla il mio ragazzo sarebbe più che contento di permettermelo, probabilmente trattandomi meglio di quanto lei immagina anche solo di fare. - rispondo stizzito.

"Tipa"? Ma davvero?

Muovo un altro passo diretto verso di lui.

- Si faccia un favore e se ne vada. E speri che Bokuto non lo venga mai a sapere, perché potrebbe essere l'ultima volta che lei vede il sole in vita sua. Buona giornata. - concludo, e sorrido di soddisfazione mentre osservo il suo corpo uscire dalla porta senza ribattere nulla più di un timido saluto tirato.

Idiota.

Mi accascio sulla poltrona al fianco della scrivania lanciandomi all'indietro.

Che giornata.

Non ne posso più. Ci mancavano questo idiota e le sue misere battute d'abbordaggio.

Un altro stronzo che crede di potermi mettere gli occhi addosso solo perché sono bello.

So perfettamente che i pantaloni a sigaretta scuri che evidenziano le mie gambe lunghe e magre, il dolcevita nero impreziosito dalla collana d'oro bianco e gli orecchini di diamanti che Kō mi ha regalato per il nostro primo anniversario mi stanno decisamente bene.

Ma un'altra cosa che sta davvero, davvero bene è la mano del mio ragazzo attorno ad una mazza da baseball, e fare apprezzamenti su di me equivale a quello.

E' pura questione di intelligenza.

Tiro fuori il cellulare dalla tasca. Sono le sette di sera, e io posso finalmente tornare a casa.

Mi alzo per raggiungere l'interfono sulla scrivania e lo tiro su con noia.

- Chiama il mio autista, per favore. E vai a casa anche tu. E' stata una giornata d'inferno. - dico alla cornetta e il versetto soddisfatto e acuto del mio segretario mi raggiunge dall'altra parte. Anche lui è dannatamente sfinito.

Raccolgo le mie cose di fretta e fremo d'impazienza nell'ascensore di vetro mentre osservo il panorama di Tokyo diventare sempre più luminoso di fronte a me, ed è soltanto quando sono comodamente seduto sul sedile posteriore della Bentley nera del mio autista che riesco a rilassarmi un po'.

Scorro fra le mail distrattamente e sorrido davanti al salvaschermo di Kō che appare con il viso solare e meraviglioso di fronte ad un'alba sui toni del rosa. La nostra prima vacanza da soli. Mi sembra un'era fa.

Mi ricordo solo di quanto fossi emozionato all'idea di partire con lui e che non mi sembrava vero di poter uscire dal Giappone, di poter prendere un aereo e di godermi una settimana di solo mare e relax.

Io e Kō abbiamo bisogno di un'altra vacanza.

Dormicchio durante il tragitto e mi sveglio soltanto quando vengo scosso da una mano delicata calzata in un guanto di pelle scuro che si limita ad appoggiarsi alla mia spalla, senza sfiorare nemmeno un centimetro in più del mio corpo.

Non le è permesso. A nessuno, lo è.

- Siamo arrivati, Signore. - mi dice l'autista, il volto riservato ma gentile, e io sorrido ringraziando e scendendo dall'auto.

Saremo anche mafiosi, ma siamo persone civili.

L'appartamento dove vivo è sull'attico di un altissimo grattacielo del centro. Un posto bello, lussuoso, e che faccia scena, proprio come piace a Bokuto.

Doveva andarci a vivere con quella che era la sua promessa sposa, ma poi aveva incontrato me.

Suo padre voleva assolutamente che la sposasse, quella stupida, superficiale e ricca sgualdrina. Una biondina tutta parole allungate alla fine e stronzate che aveva l'unico merito di essere figlia di una famiglia importante.

Ci ho messo meno di una settimana a trovare una prova del fatto che fosse una bomba a orologeria.

Aveva la bocca troppo larga per far parte della mafia.

E penso che l'unica persona che io abbia mai ucciso provando piacere sia lei. Povera, ci credeva davvero che l'avrebbe sposato. Il mio uomo.

Ridacchio al ricordo mentre esco dall'ascensore e striscio la chiave magnetica sulla porta.

Troppo silenzio.

Non è normale.

Porto la mano alla fondina sul fianco prima di muovere qualche passo e accorgermi che il silenzio non significa pericolo, ma semplicemente che Kō è fuori, sul terrazzo, e la vetrata chiusa mi impediva di sentire il rumore della sua presenza.

Mi rilasso.

Quasi corro per raggiungerlo, e sorrido quando si gira a guardarmi e la sua faccia si illumina.

Che bello, che è.

Il mio Kō.

Alto, le spalle larghe e ampie che sembrano proteggermi ogni volta che mi stringe, il corpo tutto muscoli, tatuaggi e cicatrici che mi ricorda sempre chi è, e che cosa ha affrontato nella vita. E quel sorriso così irresistibile che mi fa sentire in paradiso.

Mi tuffo fra le sue braccia e inspiro profondamente il profumo di shampoo e fumo del suo collo mentre mi lascio cingere da un abbraccio di ferro.

- Ciao, gufetto. - sussurra, le mani che vagano dalla mia schiena ai miei fianchi e sporadicamente danno una tastata soddisfatta alla linea tonda del mio sedere.

Lascio un bacio soffiato sulla guancia rasata di recente.

- Ciao, Kō. -

Poi mi stacca appena da lui e mi squadra dall'alto in basso, come volesse farmi una radiografia. E' colpito, è impressionato e sta visibilmente apprezzando il modo in cui mi sono vestito.

- Dio, oggi sei più bello del solito, e non credevo che fosse possibile. - commenta, stringendo piano il lato di una coscia con la mano ampia e mordicchiandosi il labbro mentre mi fissa.

- Speravo che ti piacesse. -

Il suo viso si avvicina a due millimetri dal mio.

- Lo adoro. -

E unisce le labbra alle mie, mentre afferra il mio bacino saldamente e io stringo il suo collo con le braccia. Qualunque giornata di merda io possa aver avuto, se Kō mi bacia così, viene magicamente trasformata in una giornata meravigliosa.

Ma poi sento le sue braccia stringersi più del solito, il suo bacio farsi più famelico, più passionale, più possessivo.

Mi stacco con le sopracciglia scure aggrottate mentre mi specchio nelle sue profonde iridi dorate.

- Mi hanno detto che oggi qualcuno ci ha provato con te. - dice poi, lo sguardo severo, diretto.

Annuisco, e sospiro. Il mio segretario deve aver sentito quello che è successo oggi. Ed è tenuto a riferire tutto ciò che mi riguarda a Kōtarō.

- Non è successo nulla, solo un commento fastidioso e un paio di occhiate. Io sto bene. - lo rassicuro, la punta dell'indice che traccia una linea delicata dalla sua clavicola al collo.

- Ti ha toccato? -

- Assolutamente no. -

Avvicina le labbra al lobo del mio orecchio e lo mordicchia piano.

Poi mi stringe a sé con forza.

- Sai che mi fa incazzare quando le persone mettono gli occhi su ciò che è mio. - mormora, la voce bassa e grattata che mi fa venire immediatamente le gambe molli.

La sua mano si stringe fra i mei capelli, il ginocchio fra le mie cosce.

- E non esiste nulla al mondo che sia più mio di quanto lo sei tu, Keiji. -

Un gemito sussurrato lascia le mie labbra quando la sua gamba preme fra le mie, e annuisco con decisione.

- Io sono tuo, Kō. Sono sempre stato tuo. - confermo, e strofino piano le sue ciocche chiare sopra l'orecchio.

Eppure continua a stringermi come se avesse davvero paura di vedermi scivolare fra le sue braccia da un momento all'altro.

- E farò saltare in aria il cervello di chiunque provi ad allontanarti da me, lo sai, vero? - rincara la dose, prima di osservarmi con il suo sguardo severo e carico di aspettativa.

E' orribile il fatto che trovi la sua personalità così pazzamente possessiva incredibilmente attraente, vero? No, perché credo che mi sia persino iniziando ad eccitare, questo modo di fare da sanguinoso serial killer che ha oggi.

Annuisco sporgendomi ancora per baciarlo, per fargli sapere che sono qui. E che mi devono uccidere prima che possano togliermi questo.

Un brivido di freddo mi percorre la spina dorsale quando una folata di vento gelido colpisce i nostri corpi abbracciati.

Kō mi cinge saldamente a sé e mi bacia la punta del naso, prima di tirarmi su di peso e iniziare a trasportarmi come se pesassi nulla dentro casa.

- Nemmeno il freddo può averti! Bastardo, ammazzerò pure lui! - grida, lanciandomi sul grosso divano di pelle e facendomi scoppiare a ridere.

Tira su le maniche della camicia e mi stringe sui fianchi sottili, prima di alzare il dolcevita scuro e iniziare a muovere le lunghe dita gelate contro la mia pancia.

- Smettila! Kōtarō, smettila! - grido, mentre mi contorco per l'implacabile solletico che mi sta facendo alla pancia.

- Non la smetto finché non mi dici che mi ami. Oggi non me l'hai detto neanche una volta! - continua, le dita gelide che mi sfiorano la pelle e mi fanno ridere coì forte che articolare quelle due parole è difficile.

- Ti...ti...basta! Ti amo, Kō! - grido, e afferro una delle sue mani con le mie cercando disperatamente di resistere a questo attacco praticamente inarrestabile.

Sorride, le guance che si tirano su e gli occhi che brillano, e mi bacia velocemente sulle labbra.

- Anche io, gufetto. Ora possiamo cenare. - annuncia, e quanto può essere infantile e buffo quest'uomo quando nemmeno due minuti fa stava parlando di proiettili nel cervello e proprietà nei miei confronti.

Meraviglioso.

Mi allunga il telefono per ordinare una pizza, quella stessa che abbiamo preso il giorno in cui ci siamo conosciuti e dovevamo discutere di cosa dovessi fare per lui, e scappa verso la cabina armadio.

E' da quando conosco Oikawa che ne ho una e sempre grazie al mio caro amico ho imparato che non c'è nulla di male ad averla delle dimensioni di una camera da letto. E che è perfettamente normale che i vestiti del mio ragazzo occupino il quindici per cento dello spazio e tutto il resto sia dedicato a me.

Lascio il telefono sul divano e seguo Bokuto, che si sta finalmente togliendo il completo di dosso. La sua schiena è una miriade di segni, piccoli e grandi, delle battaglie del passato. E poi un enorme tatuaggio di un gufo che occupa il fianco, il simbolo di appartenenza alla nostra famiglia, circondato da innumerevoli altri tatuati ovunque, e uno in particolare mi piace tanto. E' piccolo, nero e con gli occhi blu, e appare proprio sul pettorale. Dice che l'ha fatto per me, perché sono il suo gufetto e vuole sempre avermi vicino al cuore.

Quando sono stato io a tornare con il tatuaggio sul fianco di un gufo gigantesco con le piume bianche e nere e un paio di luminosi occhi gialli, pensavo ci fosse rimasto. L'ha guardato con adorazione per mesi e ancora adesso non manca di lanciargli sguardi appagati, quando lo vede.

Noto un livido sul suo ginocchio quando si sfila i pantaloni e arruffo la fronte.

- Quello come te lo sei fatto? - indico, mentre mi tolgo i vestiti di dosso e afferro una maglietta a caso delle sue.

Scuote la testa.

- Brutta, brutta storia. Ti spiego a cena. -

Annuisco e ignoro la questione. Se fosse davvero grave non avrei dovuto nemmeno chiederglielo. Mi dice tutto.

Esco dalla cabina armadio e aspetto pazientemente che la pizza arrivi, mentre Kō si infila sotto la doccia nell'attesa, e quando il portiere ci avverte che è arrivata esce fradicio dal bagno e corre a cambiarsi come se si fosse persino dimenticato che la cena è d'asporto e che ci vogliono pochi minuti prima che arrivi.

Stasera non ho nessuna voglia di apparecchiare e domani il servizio di pulizie passerà a sistemare l'appartamento, per cui trascino i cartoni in salotto e tiro fuori un paio di birre da accompagnare alla cena.

Semplice ma efficace.

Kō mi raggiunge immediatamente, i capelli privi di gel che ricadono attorno al viso e i vestiti che lo fanno sembrare un ragazzo qualsiasi. Ha solo ventidue anni, in effetti, anche se nel suo assetto solito ne dimostra quasi dieci di più.

Addenta la pasta croccante e un filo di mozzarella rimane a connetterlo con la fetta, mentre tenta di allungare il braccio e due metri di formaggio filante volteggiano nell'aria.

Rido prima di rompere il filo con le dita.

Mugugno di soddisfazione al primo morso. Questa pizza è paradisiaca.

- Amo questa fottuta pizza. - dice Kō, concordando con i miei pensieri e sorridendomi.

Annuisco.

Questa pizza è una delle cose che caratterizza la nostra relazione, è qualcosa che ci ha sempre accompagnati.

- Mi ricorda sempre il primo giorno che ti ho visto, Kō. - ribatto.

- Cosa di quel giorno? Quando ti ho recuperato dall'archivio polveroso, quando ti ho dato un lavoro o quando ti sei permesso di rifiutare di salire a casa da me? -

Scoppio a ridere tenendomi la pancia.

E' effettivamente andata così.

Kō mi ha chiesto di passare a casa sua per concludere la questione davanti a dell'alcol invecchiato e io gli ho letteralmente risposto "non posso bere alcolici, signore, non ho ancora l'età. La ringrazio e le auguro comunque una buona serata".

E lui che voleva soltanto passare un po' di tempo con me e magari trovare un'occasione per entrare un po' in confidenza. Non che ci sia voluto tanto, poi, visto che abbiamo fatto sesso nemmeno due settimane dopo, ubriachi per il mio attesissimo diciottesimo compleanno.

- Cambiamo argomento, ti prego. Voglio sapere di quel livido. - gli ricordo, e asciugo con il lato della mano le minuscole lacrime aggrappate ai lati dei miei occhi, dovute all'aver riso così tanto prima.

Sospira un attimo.

- Kenma. Sono andato da Kuroo a vedere il loro nuovo appartamento, e ha una collezione di fucili a pallettoni di gomma. Abbiamo iniziato a giocare ad acchiapparella in casa, nella foga ho sbagliato fondina e ho sparato al mosaico di vetro colorato fatto in Italia del loro matrimonio con la pistola vera. - mi racconta, e gli occhi mi escono dalle orbite.

- Tu hai fatto cosa? -

Scuote la testa imbarazzato, poi mi sorride a trentadue denti.

- Kenma mi ha iniziato a colpire con il bastone di suo nonno alle ginocchia nel tentativo di gambizzarmi e ha smesso solo quando ho firmato un assegno in bianco per ricomprarlo. -

Sento la mia stessa mano raggiungermi la fronte.

- Devo assolutamente regalare qualcosa a Ken per chiedergli scusa. Dio, Kō, sei un idiota. -

Mi ruba un pezzo dalla fetta che sto tenendo a mezz'aria e mi bacia con le labbra sporche di pomodoro.

- Lo so! Tu mi ami per questo! - ribatte, e mi osserva sconsolato mentre annuisco.

Mi raggiunge la spalla con la mano e stringe appena, mettendo e togliendo lentamente pressione dai miei muscoli stanchi mentre cerca di rassicurarmi.

- Dio, ci mancava solo che distruggessi casa di Kenma! Già ho avuto una giornata di inferno, poi quel bastardo alla fine e ora questo! - esclamo, scherzando, ma non mi rendo conto di cosa ho detto finché non sento il movimento fermarsi e la sua faccia avvicinarsi alla mia.

- Raccontami cosa è successo oggi. Voglio sapere che cosa cazzo ti ha detto perché il tuo segretario è stato vago e ho capito solo che ci ha provato con te. - mi chiede, la mascella serrata e il tono improvvisamente duro.

Ok, l'atmosfera passa da spensierata e tranquilla a pesante e carica di tensione in un secondo.

Mordo la crosta salata e mi lecco le labbra per pulirle dalla farina.

- Non ti piacerà e ti incazzerai. Devo proprio dirtelo? - tento, ma il suo sguardo severo non mi lascia scampo.

Gli tolgo una macchia di pomodoro dalla guancia, prima di parlare.

- Mi ha chiesto di andare al suo pub a bere qualcosa e che me l'avrebbe offerto. Mi ha dato del tu. Quando gli ho risposto che non doveva permettersi di parlarmi così mi ha definito una "sfida" e poi mi ha detto che sono la tua "tipa" e che se fossi suo non mi farebbe lavorare. -

Finisce di masticare l'ultimo boccone di pizza, chiude il cartone e lo rimette nel sacchetto per buttarlo via.

Poi le sue labbra si fanno una linea e mi sembra di vederlo prendere fuoco.

- Tu non sei una "tipa". - è la prima cosa che dice.

Continuo a masticare mentre mi aspetto di vederlo iniziare ad urlare, ma non lo fa. Ed è ancora peggio. Se Kō urla, c'è da spaventarsi, ma se Kō non urla, beh, c'è probabilmente da seppellirsi vivi.

- No Kōtarō, io non sono una "tipa". Men che meno la sua "tipa". - confermo.

Stringe le dita attorno alla mia caviglia, e passa il pollice sulla superficie liscia.

- E tu non sei suo. -

Mi sporgo per strofinargli il viso affettuosamente.

- No, Kō, non sono suo. -

Mi rivolge uno sguardo fuggevole, e si alza di scatto.

- Devo chiamare Kuroo. Devo fare una cosa. - mi dice poi e riconosco quel pallido luccichio dei suoi occhi, quel guizzo fuori di testa che nasconde delle pupille dorate.

Per il povero stronzo ormai è decisamente fatta.

Annuisco e lo osservo andare verso la cucina e chiamare l'amico mentre finisco di mangiare da solo, sospirando fra me e me.

Vado a buttare la spazzatura con calma, prima di passare in bagno a lavarmi i denti e dirigermi verso la camera da letto qualche metro più avanti.

Kō si è spostato dalla cucina al suo ufficio che dà direttamente su camera nostra.

Il suo fisico massiccio si staglia scuro davanti alla vetrata immensa che dà sull'incrocio di Shibuya, dominato da mille colori, e l'unica cosa che riesco a percepire è lo scintillio dorato delle sue iridi.

Alza lo sguardo per farmi capire che mi ha visto ma non smette di parlare.

- Kuroo, te la faccio breve. Quel figlio di puttana ha detto ad Akaashi che è solo una "tipa" che non dovrebbe lavorare, come se fosse fottutamente possibile per me mandare avanti la baracca senza di lui e gli ha messo gli occhi addosso. Io quei cazzo di occhi glieli cavo dalla testa prima che possa guardare ancora la mia roba. - dice, e gli occhi fiammeggianti non si staccano nemmeno per un attimo dai miei.

Le spalle sono tese, la mascella serrata che disegna una linea netta sul suo viso, la postura seria e minacciosa.

Mi guarda come se stesse dicendo "mio", come se volesse marchiarmi.

Un fremito mi percorre, e divento improvvisamente fin troppo consapevole del modo in cui mi fissa. Di come lascia vagare lo sguardo dalla linea sottile delle gambe nude alle braccia magre, al viso appena arrossato e alla curva dolce del mio bacino.

Mi sta dicendo che quella che ha definito "roba sua" sono io. Che ammazzerà quello stronzo col sorriso sulle labbra perché nel mondo non può sopravvivere una persona che si sia permessa di fare quello che ha fatto lui. Che sono il suo gioiello più prezioso e mi custodirà come tale per tutta la vita.

Mi eccita.

Terribilmente.

Voglio che mi ricordi quanto cazzo gli appartengo.

E che lo faccia ora.

Apro la porta della camera da letto.

Mi volto, pianto lo sguardo nel suo.

Sfilo la maglietta lentamente, e so che sotto non c'è nulla. La luce si riflette colorata e brillante sulla mia pelle chiara, e nulla più della forma languida del mio corpo appare alla sua vista.

Ma sembra che non riesca a togliermi gli occhi di dosso.

Prendo il labbro inferiore fra i denti e lo torturo appena, quel poco che basta perché la pelle diventi di un delicato tono di rosa.

E poi scompaio nel buio della stanza.

Lasciando la porta aperta.

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