November rain
«I, I've never seen a storm this fierce
I, I'm feeling rather small in here
As the wall starts to compress
Shifting squirming restlessness »
[Rule #11: My dream, my addiction - Fish in a birdcage]
⋆˚🐾˖°
Nell'immobilità del buio, la notte di novembre odora di neve. È una notte grumosa di cristalli invisibili, che Sirius si sente friccicare sulle guance come un presagio, mentre un tuono, attutito dal brusio del vento, lo raggiunge da oltre i confini del lago.
Neve.
Potrebbe nevicare, sopra i tetti aguzzi di Hogwarts.
Sarebbe così dannatamente facile.
Timida spruzzata bianca, dolce sulla lingua, mentre tutta la nera oscurità del mondo viene annegata dalla candida gentilezza di neve nuova.
Se ne sente la promessa nell'aria, quasi il castello intero stesse trattenendo il respiro. Hogwarts non è altro che questo, nel limbo di una notte d'autunno: un bimbo particolarmente ingenuo in trepidante attesa che un dono luccicante discenda dal cielo.
Giuro, sembra voler dire la notte, in un ammiccante sorriso di mezzaluna riflessa nelle increspature del lago, giuro di avere buone intenzioni.
Ma Sirius quella mezzanotte di novembre la conosce troppo bene per inciampare nell'apparente innocenza della tenebra. Notte malandrina, che si trascina arrancante nel tempo, accompagnando i suoi passi e inzuppandoli di pioggia scrosciante.
Potrebbe essere quasi poetico, si ritrova a riflettere con una smorfia: pioggia come lacrime di quel bimbo deluso, quando il suo regalo si rivela una meschina bugia. È quel tipo di metafora leggiadra e incoerente che Remus potrebbe mormorare nel silenzio assonnato della Sala Comune, un momento prima di addormentarsi con la testa scivolata sulla sua spalla.
È una pioggia traditrice che puzza di maledizione. Che Sirius aspetta ogni anno, con i battiti del cuore che sciaguattano fiacchi, come immersi in una pozzanghera fangosa.
Pioveva il tre novembre di diciotto anni prima e non ha mai smesso, puntuale come il sorgere del giorno e il levarsi pallido della luna piena.
Pioggia graffiante e crudelmente autunnale, che infrange il voto della gioia d'inverno.
Figurarsi, pensa Sirius, l'amaro in bocca come se avesse ingurgitato FireWhiskey scadente e la schiena contro una colonna sulla cima della torre di Astronomia, accadrebbero cose terribili se nevicasse per me.
Rabbrividisce sotto un alito di vento pungente, domandando severamente a se stesso perché diavolo non ha arraffato uno dei maglioni pesanti di James, prima di sgattaiolare nei corridoi scuri del castello. Non trova risposta, si tira da solo uno schiaffo mentale e si stringe nella misera felpa sottile che copre il pigiama, rannicchiandosi come un cucciolo ai piedi della colonna di pietra.
Ha i capelli sciolti, che si librano nell'aria notturna come nastri d'inchiostro. I suoi occhi sono pozzi d'argento ossidato.
Dalla tasca dei pantaloni, estrae con mano cadaverica un piccolo e pregiato orologio da taschino in bronzo. L'ha fregato senza rimpianti dalla lezione di Trasfigurazione, la settimana prima, quando la McGonagall gli aveva chiesto di trasformarlo in una tartaruga. Sirius aveva obbedito, ma, poco prima della fine della lezione, in un rapido colpo di bacchetta, aveva fatto sparire l'animale e si era intascato l'orologio. Al suo posto, nel cesto della professoressa, aveva fatto ricadere un vecchio portacipria arrugginito. Era certo all'ottantacinque percento che la docente non avrebbe mai potuto ricollegare il furto a lui, se non tramite la sua fierissima reputazione, che però, per il dispiacere dell'intero corpo insegnanti di Hogwarts, non valeva come prova incriminante.
Remus gli aveva scoccato un'occhiataccia dall'altra parte dell'aula, ma Sirius, le spalle alla McGonagall, si era portato un dito alle labbra e, con una strizzatina d'occhio, se l'era svignata prima che il ragazzo potesse riacciuffarlo per una predica.
Nemmeno lui stesso allora aveva capito perché l'avesse fatto. L'aveva scoperto solo dopo.
Al momento giusto.
Sirius ha spesso la sensazione che la sua vita componga in autonomia i pezzi di un puzzle più grande, di cui lui comprende la totalità sempre troppo tardi. Segue l'istinto come fosse un sentiero segreto con le indicazioni oscurate, impedendosi con violenza quasi fisica di immaginare possibili vicoli ciechi.
È un meccanismo di sopravvivenza, quello di seppellire la ragione e i pensieri dolorosamente coerenti dietro l'impulsività confortante di una ragnatela di gesti folli, i quali, come artigli di brina, divorano la limpidezza di una finestra affacciata sul mondo reale. Quello, di mondo, troppo spesso sembra girare nel modo sbagliato. È il luogo dove gli innocenti crollano a terra con i capelli impastati di sangue e i potenti stanno silenzio, complici di quelle centinaia di luci rapite da occhi che non vedranno mai più nulla.
Il mondo è il luogo dove i bambini piangono e nessuno li ascolta.
Non può pensarci.
Non può incontrare maschere d'argento nel delirio delle notti insonni. Deve rallentare la mente, lasciarsi precedere dagli stimoli e sopprimere la voglia di capirli.
Almeno per le piccole cose, nel bene e nel male. Giusto quanto basta per non impazzire.
È così che un elastico raccolto da terra per caso e avvolto al dito, si trasforma in una fionda di palline di carta da scagliare come diversivo per scappare da Gazza. Così l'ultima Tuttiigusti+1 del pacchetto, offerta da Peter e conservata in tasca, diventa il modo di far sorridere James dopo un disastroso allenamento di Quidditch. Così uno schiaffo tirato a sentimento sfocia in un dente scheggiato. Un commento espresso a voce troppo alta sbocca nelle urla di un insegnante e in un paio di costole rotte...
E lo scintillio bronzeo di un orologio da taschino gli fa prudere le mani, mentre la McGonagall brontola la teoria del giorno, ammiccando poi nella penombra della camera da letto quando, alle ventitré e trenta del due novembre, Sirius calcia via le coperte, incapace di prendere sonno.
Al momento giusto.
Ora le lancette gli ticchettano ansiose nel palmo freddo, come un debole respiro meccanico. Si affollano lentamente verso il XII nella parte alta del minuscolo quadrante, mentre gli intervalli di silenzio tra i tuoni si fanno più labili.
Mezzanotte, riflette Sirius con la fronte aggrottata e un sospiro che si gonfia sulla lingua, sta solo aspettando la mezzanotte per iniziare a piovere.
Compirà diciotto anni: l'ultimo compleanno trascorso tra le mura famigliari di Hogwarts, prima che il senso di casa gli traballi di nuovo sotto i piedi, lasciandolo a precipitare nel buio.
È già legalmente adulto da un anno, ma questo compleanno, al contrario delle risate e le folli sbornie dell'autunno prima, ha il sapore agro e definitivo di un addio. Si chiede come diamine avesse fatto ad essere così felice di ubriacarsi in Sala Comune, con un 17 luminoso scarabocchiato sulla fronte per magia, mentre il cielo si rovesciava sulla terra proprio oltre la finestra e il tempo divorava inesorabile l'ultima fetta della sua infanzia. Come accidenti aveva fatto a non sentire il lezzo inconfondibile della fine, tutt'attorno a sé? O invece forse l'aveva sentito, e l'aveva soffocato nel bruciore dell'alcool, scegliendosi sordo ai passi marziali degli anni che avanzano. Alle morti che si stipano sulle prime pagine dei giornali.
Ci vorrebbe anche adesso una bottiglia di FireWhiskey, considera Sirius, rabbrividendo contro la pietra. Forse il suo sé di un anno più giovane non aveva tutti i torti, a volersi perdere nel labirinto infuocato di una bevuta selvaggia. Sicuramente quello scenario è decisamente gradevole, in confronto all'attendere da solo la mezzanotte, tremando come una foglia, in balia di vento e pensieri.
Eppure...
Eppure una parte di lui non può fare a meno di percepire che qualcosa è cambiato; che il whiskey non è più la risposta; che deve farsi forza e prepararsi al momento in cui dovrà dire addio.
Addio all'unico luogo in cui la sua vita sembrava finalmente del colore giusto; dove poteva crogiolarsi senza vergogna nella protezione confortante di una bandiera rossa e oro e fingere che tutto andasse bene. Ma quando le luci del castello saranno scomparse dietro la curva del treno per l'ultima volta, cosa impedirà al suo cuore di sprofondare ancora in un baratro di lampi verdi che stracciano il fiato e di teste mozzate oscillanti sui bordi delle ringhiere?
Sirius chiude gli occhi un istante, le dita strette sul profilo liscio dell'orologio. Incassa la testa nelle spalle, immergendo il mento nel colletto sgualcito della felpa e proteggendosi da un alito di vento che gli arruffa arrogante i capelli.
Nel vuoto dietro le palpebre, quasi che la sua memoria abbia deciso slealmente di prendersi gioco di lui quando è più vulnerabile, iniziano a lampeggiare i riflessi argentati degli occhiali di James.
No. Per favore.
James che, dal letto accanto, nelle vecchie notti d'estate, gli tende una mano tiepida, per trascinarlo al sicuro. Ma Sirius sente se stesso imprimersi le unghie nella testa, l'aria come schegge di vetro dei polmoni. E le dita dell'amico si allontanano sempre di più.
Panico che scorre come veleno al posto del sangue e gli erode i pensieri come acido. Basta. Euphemia che gli si avvicina nella penombra e sussurra parole che lui non è più in grado di capire. Basta. Mi fai male. Per favore.
Sirius spalanca gli occhi di scatto e il vento li ferisce. Si ordina di controllare il fiato e, come quando era piccolo, si sforza di contare i respiri, osservando con distacco le nuvolette di condensa che si formano e dileguano davanti alle sue labbra.
Non può permettersi di tornare ad affogare nella mancanza glaciale di un come e di un dove. Eppure ci si sente immerso, adesso, nel gelo dell'assenza di un senso, mentre aspetta, con il cuore piccolo piccolo, che cadano le prime gocce di pioggia, e che il mondo si tinga di nero.
Sbatte le palpebre con forza, per scacciare le punte di spillo conficcate dietro le orbite.
Guarda l'orologio. Sette minuti a mezzanotte.
Fa talmente freddo che Sirius ha già perso da troppi minuti la sensibilità sulle dita. Anche i piedi, rinchiusi in misere scarpe da ginnastica e raccolti rigidamente sotto al corpo, sono pezzi di ghiaccio inutilizzabili. Guardando il fondale della valle attraverso i ghirigori della ringhiera della torre, raggomitolato su una superficie ghiacciata, la sensazione potrebbe essere quella di essere abbandonato sul fondo di una cella. Con quel freddo nelle ossa, non è difficile immaginare di essere circondato da Dissennatori.
I denti gli tintinnano in bocca.
Ma perché non ha preso un maglione più pesante, accidenti? Proprio lui, con l'istinto più sviluppato della ragione, che potrebbe compiere un perfetto giro della morte in sella alla moto e realizzare di averlo fatto solo a scoppio ritardato, almeno trenta secondi dopo... Doveva proprio scegliere stasera per sfidare i limiti fisici del proprio corpo in modo così scemo e decisamente meno epico di una capriola in motocicletta?
Forse dovresti tornare dentro, e quel pensiero infreddolito gli giunge con lo stesso tono insieme premuroso e autoritario che potrebbe usare Remus per ricordargli di aggiustarsi il nodo della cravatta, prima di entrare in classe.
Cazzo, forse ha ragione lui.
Un'altra occhiata all'orologio. Cinque minuti.
Rabbrividisce.
Rischierà l'assideramento, ma può resistere. Ha bisogno di vederlo. Bisogno viscerale di sentirsi addosso l'amara famigliarità del tre di novembre; di accogliere di persona il sortilegio uggioso che l'ha inseguito per tutta la vita.
Non sa nemmeno spiegarsi il motivo.
Vuole solo esserci, quando la pioggia cadrà.
Magari questa volta laverà via le emozioni grezze dell'infanzia, e finalmente Sirius sarà in grado di crescere. E smettere di sentirsi lacerato, strattonato ai lati dall'orrore del passato e dalla paura cieca di un futuro spaventosamente incerto. Smettere sognare le grida di Regulus che lacerano il buio; di svegliarsi urlando a sua volta, con gli occhi inondati di lacrime e il petto svuotato di tutto.
Magari questa volta rinascerà davvero.
Al momento giusto.
I tuoni sono sempre più vicini. La sagoma solitaria di un gufo scorre davanti al giallo malaticcio della mezza luna, sporta da una breccia che sembra ritagliata tra le nubi dalla mano impacciata di un gigante.
Tre minuti e mezzo.
I secondi adesso si trascinano in avanti come affannandosi nell'acqua torbida.
Sirius abbassa le palpebre.
E il tempo sembra fermarsi del tutto.
Forse dovresti tornare dentro.
Forse dovresti tornare dentro.
Forse...
– Dovresti tornare dentro.
Riapre gli occhi.
Bene. È talmente stanco e intirizzito che inizia a sentire le voci anche fuori dalla propria testa.
– Andiamo, Pad, è quasi mezzanotte.
No, aspetta...
Questa volta il tono era troppo fastidiosamente responsabile per essere frutto della sua mente.
Si volta con uno scrocchio del collo contratto e sgrana gli occhi, mentre questi incontrano straniti uno sguardo corrucciato, che sfavilla d'ambra anche nell'oscurità tempestosa.
Remus Lupin è in piedi sull'ultimo gradino delle scale per la cima della torre d'Astronomia, illuminato dal bagliore burroso delle lanterne appese qualche scalino più sotto. Ha addosso un vecchio maglione, che ricade troppo largo sopra i pantaloni del pigiama dai bordi svolazzanti. I capelli castani sono talmente arruffati che James potrebbe esserne invidioso e un'espressione severa gli si storce sul volto stropicciato dal sonno.
Nonostante dia apertamente l'impressione di un genitore pronto a trascinare via il figlio irresponsabile per un orecchio, Remus stringe tra le braccia un vaporoso piumone, di cui un lembo strascica goffo a terra dietro di lui.
Sirius vorrebbe chiedergli come stradiamine abbia fatto a portare da solo una coperta così vaporosa su per cinque piani, attraverso diversi tratti angusti di scale a chiocciola, senza farsi beccare, ma ha la bocca semi spalancata e le parole cristallizzate in gola.
Disordinato e assonato, immobile nel freddo, con gli occhi dorati incastrati nei suoi, Remus è bello come un angelo. Sirius deglutisce duramente.
Vedendolo ammutolito, Remus rilascia un sospiro che si condensa in una spirale biancastra, iniziando poi a camminare verso di lui con un esausto strascinamento di piedi. Gli si siede affianco in un soffice fruscio del piumone e, con mani decisamente più ferme di quanto potrebbero essere quelle congelate di Sirius, stende la coperta sulle spalle di entrambi. Si rannicchia poi alla bell'è meglio, le gambe incrociate e l'accenno di un broncio ad irrigidirgli le labbra.
Sirius sente il calore famigliare di Remus proprio accanto a sé. Le loro spalle si sfiorano e il freddo dentro di lui si annulla come una lastra di ghiaccio disciolta all'istante dalla luce abbagliante di una stella.
Forse, in fondo, il non prendere il maglione non è stato un completo fallimento.
Rimangono così, senza guardarsi, separati dalla distanza di un sussurro, attorcigliati nelle rispettive presenze. A guardare la notte.
L'orologio ticchetta, malinconico, inseguendo il ritmo quieto dei sibili del vento.
– Cosa aspettiamo?
Quando Remus parla, il suo tono ha la neutralità indifferente che potrebbe usare per chiedergli che cosa gli va di mangiare a colazione.
Sirius batte le palpebre, mascherando la sorpresa. Scrolla mollemente le spalle in un leggero stropiccio del piumone.
– Sai, la pioggia... – ha la voce rauca, troppo incerta. Si affretta a tossicchiare per recuperare sicurezza – Sì, stiamo aspettando la pioggia.
Con la coda dell'occhio, vede Remus annuire con aria seria.
– Beh, ha senso – il ragazzo gli scocca uno sguardo in tralice, e impercettibilmente gli si fa più vicino – Adoro guardare la pioggia.
Sirius si scioglie in un profondo sospiro, che rimane sospeso nell'aria come una voluta lattiginosa. Schiocca piano la lingua e non trattiene una smorfia, abbassando lo sguardo sulle proprie mani intorpidite sull'orologio.
– Moony – inizia, più cauto di quanto forse sia mai stato in vita sua – Sai, credo che questo sia il momento in cui mi chiedi che cazzo ci faccio qui.
Sirius si aspetta una risposta ben piazzata, condita con una batteria di rimproveri perfettamente ragionevoli e occhiate fulminanti maledettamente simili a quelle della McGonagall nei suoi giorni peggiori; ma, con sua meraviglia, il ragazzo si limita a scrollare pigramente il capo. In un vago mugugno, Remus si stringe ancor più nell'abbraccio caldo della piuma e lascia cadere la guancia nell'incavo sicuro della spalla dell'altro, facendolo immobilizzare.
– E io credo che questo sia il momento in cui aspettiamo la pioggia.
I suoi capelli gli solleticano il viso. Profumano di shampoo all'albicocca.
Sirius si sente accelerare il battito in petto e stira debolmente un angolo della bocca.
– Anche se è quasi mezzanotte e domani ci sono lezioni?
– Lezioni che comunque non seguiresti – replica Remus in un mormorio, la voce ammorbidita dal sonno – Quindi tanto vale rimanere qui.
– Ad aspettare la pioggia?
– Ad aspettare la pioggia.
Sirius allora sorride davvero: succede in automatico, prima che possa capirlo, quasi Remus avesse pronunciato un incantesimo speciale dedicato soltanto a lui. Per farlo brillare di nuovo.
La testa di Sirius scivola su quella morbida di Remus, in un grazie muto, bisbigliato in un linguaggio senza verbo ma chiaro come le stelle, che conoscono entrambi e che ad altri non saprebbero insegnare.
E chiude gli occhi.
Proprio in quel momento, nel guscio della sua mano ormai tiepida, l'orologio emette l'ultimo ticchettio. Sirius nemmeno se ne accorge.
Nei primi istanti del tre di novembre, una coraggiosa goccia di pioggia perde la presa con il cielo e si lancia nel vuoto. Nel tempo di un paio di respiri, l'aria è striata di lacrime, anche se Sirius non è più così certo siano quelle di un bambino deluso.
Pioveva il tre di novembre di diciotto anni prima e non ha mai smesso, puntuale come il sorgere del giorno e come il lento unirsi di labbra nell'intimità di una notte d'autunno.
– Buon compleanno – Remus si scosta dal bacio giusto per guardarlo negli occhi e un sorriso gli si allarga tra le cicatrici, bello come un raggio di luna.
Sirius lo attira di nuovo a sé, ed entrambi si appallottolano nel piumone. La notte ora è fatta di pennellate fugaci, che si avvicendano come riflessi baluginanti negli specchi delle loro iridi.
Per qualche fragile attimo, c'è solo il cupo tamburellio della tempesta.
– Piove come sempre.
Colto alla sprovvista, Sirius trattiene bruscamente il fiato.
Se Remus nota l'effetto delle proprie parole, fa finta di niente.
Sirius torna a respirare normalmente dopo un momento. Addenta nervosamente la punta della lingua ed esita mezzo secondo di troppo prima di rispondere:
– Buffo, no? – in una leggerezza talmente finta che si fa pena da solo.
Remus, accoccolato contro il suo petto, gli getta uno sguardo perplesso dal basso in alto. Ma certo che conosce l'effetto delle proprie parole, e Sirius ora è sicuro che lo stia facendo apposta a far finta di niente, per non pressarlo o per non farlo sentire a disagio. È davvero spiacevole che nessuna delle due cose stia funzionando.
– Sì, è davvero buffo – replica Remus dopo un secondo, candido come la luna – Avrei giurato che stanotte avrebbe nevicato – torna a scrutare la valle con le ciglia socchiuse – Ma per il tuo compleanno non è mai successo.
Diamine.
La bocca si riempie di ruggine.
– Beh, credo abbia senso.
– E perché? – non c'è alcuna provocazione in quella domanda, ma Sirius improvvisamente si sente scottare le guance.
– Perché... – inghiotte bile – Perché non può nevicare per la nascita di un Black – lo sputa d'un fiato, come un boccone marcio.
Nell'udirlo, Remus trasalisce.
– Ehi, ehi, frena – si raddrizza e lo fissa dritto negli occhi. Sirius deve impegnarsi per non distogliere lo sguardo da quelle pozzanghere d'oro che sanno leggerlo come fosse inchiostro fresco su una pergamena – Nessuno ha parlato di qualcosa che non può succedere. Non sei maledetto, Pads – Sirius si irrigidisce e Remus inclina la testa, sorridendo appena – La pioggia è solo pioggia.
Sirius rilascia un grugnito irritato.
– Se è per questo anche la luna è solo la luna.
Ma vorrebbe rimangiarselo nell'esatto istante in cui quelle parole lasciano la sua bocca.
Vede il sorriso spegnersi sul volto di Remus e un fiotto d'odio per se stesso gli erode le viscere con prepotenza. Tutta la sua rabbiosa spavalderia va in fumo e le gote si infiammano ulteriormente.
Stringe le palpebre per mezzo secondo, il labbro inferiore rinchiuso nella morsa dei denti.
– Scusa – riapre un occhio e incontra lo sguardo imbronciato dell'altro – Scusa. Sono un cretino. Hai ragione.
Osserva Remus levare gli occhi al cielo.
– Potrei tirarti uno schiaffo se non fosse il tuo compleanno.
– Sarebbe il regalo perfetto, immagino.
– Idiota.
Le iridi dorate di Remus fanno un'altra giravolta verso l'alto, ma questa volta sta sorridendo. Un blocco di ghiaccio si squaglia di sollievo dentro Sirius. Gli occhi dorati del ragazzo tornano su Sirius e la curva delle sue labbra si intristisce d'un tratto.
– Però, davvero, non sei maledetto – lo ripete dopo un istante, con tutta l'intensità del mondo – Non pensarci neanche.
Sirius si stringe nelle spalle, lasciandosi ricadere sulla colonna dietro di sé. Nuove spine affondano dolorose dentro al cuore.
– Ci penso, però.
– Non devi. Non è vero.
– Sì, e allora perché questo? – Sirius fa un cenno brusco della mano verso il ticchettio frenetico della pioggia e verso il cielo ammontato di nubi che li sovrasta – Perché l'avresti notato anche tu se non fosse tanto importante? – una smorfia gli nasce in faccia ed emozioni proibite gli si gonfiano violente in corpo, prima che possa fermarle – Piove ogni dannata volta, sai, Moony? E fa schifo perché non so come mai. Vorrei che non mi importasse, perché è una stronzata e questa è solo pioggia, ma mi importa. E fa male. Perché, quando dovrebbe nevicare, non nevica ed è come se fosse colpa mia. Perché, quando qualcuno dovrebbe essere felice, non lo è ed è colpa mia – prende un respiro tremante – Perché, quando arriva il mio compleanno, piove e non lo posso controllare ed è scritto che sia così. Non controllo quello che succede quando le persone intorno a me si fanno male. Non posso controllare nemmeno me. Non posso controllare chi sono, non posso riscrivere quello che sono anche se ci ho provato. Cazzo se ci ho provato. Ma provarci non basta e non basterà mai, perché la pioggia continua a cadere – non lo sa quando ha iniziato a piangere, con lo sguardo incastrato al frullio dell'acqua scrosciante, i singhiozzi attorcigliati in gola. Deglutisce a vuoto, le dita artigliate alle ginocchia – Piove, Remus. Piove come sempre.
Un singulto gli sconquassa il petto e Sirius digrigna i denti, serrando gli occhi con forza, prigioniero del suono della pioggia tutt'attorno a sé.
Sente il fruscio del piumone e, mezzo istante dopo, il tocco di una mano indulgente gli carezza la guancia. Sirius non si azzarda ad aprire gli occhi, la vergogna che monta come una valanga. Non piangeva così davanti a qualcuno da più di un anno, e mai davanti a Remus. Mai davanti all'unica persona che si era ripromesso di proteggere a qualunque costo da tutta l'oscurità dentro di sé.
E invece eccolo lì, a farneticare sull'acqua che cade dal cielo come un bambino spaventato.
Idiota, addenta con canini troppo appuntiti il labbro tremolante, idiota.
– Sirius.
Il respiro discontinuo di Sirius si attenua di botto al suono del proprio nome. I Malandrini raramente si chiamano a vicenda con i propri veri nomi e, quando succede, è come essere catapultati brutalmente in una realtà diversa; quasi che il filo sottile che li lega al pomo della luna piena si spezzasse di netto, facendoli precipitare a terra.
Solo in quel momento Sirius realizza di aver detto ad alta voce il nome di Remus, giusto qualche attimo prima. Il filo l'ha rotto lui per primo, senza nemmeno volerlo.
Si sente pungere dal senso di colpa mentre dischiude le palpebre con riluttanza.
Lo sguardo di Remus, attraverso il velo delle lacrime, è illuminato da un sorriso lieve, delicato come la carezza con cui gli sta sfiorando il viso.
– Sirius – ripete il ragazzo, in un mormorio gentile. Il suo nome, tra quelle labbra, è come il fruscio solitario di una pagina bianca – Vieni – Remus si lascia scivolare il piumone dalle spalle e si tira in piedi, tendendogli la mano che solo poco prima gli premeva sulle scie delle lacrime.
Sirius lo fissa immobile per qualche secondo, la bocca ridotta a una fessura obliqua e le ciglia pesanti. Poi le sue dita si stringono su quelle di Remus. Ignora il gelo che lo azzanna quando si scioglie dall'avviluppo delle coperte, lasciandosi aiutare ad alzarsi.
Remus lo trascina lentamente fino al bordo della tettoia, oltre il quale le gocce di pioggia scrosciano tra gli intrichi di fronde della Foresta Proibita, fendendo la brezza e allungandosi in un mosaico fitto di occhi socchiusi. Remus allunga la mano libera oltre la linea invisibile che li separa dalla notte.
La ritira un momento dopo, le dita lucide, e lancia a Sirius un sorriso che lo lascia spiazzato.
– Senti, non puoi controllare la pioggia – afferma, deciso – Ma puoi controllare il suo significato. C'è sempre la scelta della felicità, anche dietro ciò di cui il mondo intero sembra avere paura.
La mano di Sirius è viscida e ghiacciata in quella di lui. Ha i capelli che ricadono in una cascata nera davanti alla faccia.
– Non per tutto – si sente dire, più asciutto di quanto vorrebbe – In questo non riesco a vederci niente di bello. Non posso, Moony, non ci riesco.
Ma in risposta il sorriso di Remus si allarga.
– Beh, con la luna lo hai fatto.
Sirius apre la bocca per replicare ma la richiude subito, allibito, come se Remus gli avesse davvero tirato un ceffone. Getta un'occhiata sbieca al sorriso di lui e alza la testa verso la pioggia.
Con la luna lo hai fatto.
Prende un respiro profondo e annuisce una volta.
D'accordo.
Vacillando, tende a sua volta la mano, affondandola nel buio oltre la tettoia. Gocce fredde gli picchiettano innocue sul palmo aperto. Rimane così per un po', poi chiude il pugno e se lo porta con cura al petto.
Con la luna lo hai fatto.
Guarda Remus e aggiusta la presa delle dita sulle sue, il battito tre le costole che è come lo scoppiettio frenetico e sobbalzante di fuochi d'artificio. Trattiene il fiato e si sporge di slancio dalla ringhiera; senza pensare, come è tanto bravo a fare. Con un gemito, getta la testa all'indietro.
La pioggia gli bacia le palpebre chiuse, seguendo il percorso di lacrime vecchie e nuove. Gli impregna i capelli sciolti, gli cola giù per il collo fin dentro il pigiama, crepitando sulla sua pelle e riempiendogli la bocca quando la schiude.
Fa freddo, ma a Sirius non importa.
– Che significato ha la pioggia, allora? – si sente chiedere, a voce alta per sovrastare il rumore del vento e dell'acqua che gli imbottisce le orecchie – Cosa pensi voglia dire?
– Dimmelo tu – Remus gli lascia la mano e quando Sirius solleva le palpebre per guardarlo, il ragazzo si è appoggiato alla ringhiera di schiena e si è proteso all'indietro, le pozze d'ambra dei suoi occhi che riflettono due volte la falce della luna sbucata tra le nuvole. Sta ridendo, i capelli fradici che ricadono nel vuoto – La pioggia non è di nessuno, Pad, ma questa notte è solo tua.
Mia.
– Dici davvero? – uno straordinario miscuglio di terrore e gioia si incendia dentro di lui – Cazzo, piove da far schifo e il mondo è sull'orlo dell'apocalisse. È davvero la notte perfetta! – ma adesso, dal nulla, sta ridendo anche lui, e quella risata simile a un latrato riecheggia vigorosa sui prati bagnati e tra le torri lucide di casa.
– Lo è! – ribadisce Remus, in un grido cristallino rivolto al cielo – È perfetta!
Sirius si aggrappa con energia alla ringhiera e si sporge ancora di più, i piedi che si sollevano pericolosamente dallo spiazzo di pietra. Il suo stomaco ha un tuffo, ma stanotte ha smesso di avere paura – Visto, mondo? – urla all'oscurità, il cuore impazzito – Sta piovendo ed è perfetto! Piove e io sono ancora qui, chiaro? Sono ancora qui!
Stanchezza e adrenalina gli martellano nel cranio, ma quando incrocia lo sguardo di Remus, si perde in un'altra dimensione. Le scarpe ritoccano terra ma è come se ancora stesse fluttuando.
– Ti amo – gli esce di bocca di getto, ma anche dicendolo non gli sembra abbastanza. Due parole misere per esprimere lo stupendo guazzabuglio di emozioni che non ci sta più nel petto – Ti amo, ti amo – ripete, allungandosi verso di lui e guardandolo con tutta l'intensità del mondo – Adoro guardare la pioggia con te.
Il sorriso di Remus potrebbe far impallidire la Via Lattea.
– Anch'io – e si sporge per baciarlo – Entrambe le cose.
Scoppiano a ridere, le fronti unite, mentre un tuono risponde.
– Merda, sto morendo di freddo – Sirius lo bacia di nuovo attraverso il groviglio dei capelli bagnati – Ed è bellissimo. È questo che significa la pioggia, stanotte, giusto? Morire di freddo e fregarsene. Oppure... non lo so! Non mi interessa, lo capirò con te – preme ancora le labbra sulle sue, ignorando i brividi che si rincorrono sulla sua schiena, smarrito nel desiderio di saperlo vicino – Con te ho tutti i significati del mondo.
Remus ricambia forte il bacio e poi ridacchia, spostandogli dolcemente una ciocca fradicia dietro l'orecchio. Incastra i propri occhi nei suoi. Oro nell'argento. Sguardo prezioso come nient'altro lo sarà mai.
– Sei un meraviglioso idiota, Sirius Black – Remus gli aggancia le mani dietro al collo e lo tira a sé ancora una volta – Buon compleanno.
Nella frenesia del buio, la notte di novembre profuma di pioggia.
Ed è tutto quello che serve.
⋆˚🐾˖°
Cover credits: Kinky-chichi su Deviantart
NdA nel prossimo capitolo ⇢
A chi invece si ferma qui, grazie di aver letto <3
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top