Capitolo 41

~Lily~

Rimango ferma a guardare la Wilson, come imbambolata, cercando di capire se sia seria o meno. Sbatto le palpebre, mentre probabilmente la scimmietta che ho nel cervello sta mettendo a bollire dell'acqua per farsi un tè.

— Cosa? — chiedo, con un mezzo sorriso. Sta scherzando o ha appena ammesso che Lumacorno pensa che lei sia una terrorista?

— Lumacorno è troppo drammatico, — dice, scrollando le spalle, — È una semplicissima pozione che ho preso dagli appunti di mio fratello, nulla di preoccupante. — Mentre parla gesticola, il che mi distrae non poco. — È vero che combinarli in un certo modo possa essere pericoloso, ma lui usava un metodo diverso che cambia radicalmente l'esito finale.

Muovo lo sguardo da una parte all'altra, mentre i miei dubbi continuano a moltiplicarsi. — Che genere di pozione è allora? — chiedo, alzando lo sguardo.

— Una pozione curativa, — risponde. Il sorriso che mi rivolge sembra il velo che nasconde il viso di una sposa. Non riesco a decifrare ciò che vi si cela dietro. — Ho un raro problema di salute, e ho bisogno di quella pozione per potermi riprendere. Se hai notato, non sono stata molto bene negli ultimi tempi.

Annuisco, assente.

Avevo notato, in effetti, che non era più la stessa da un po'. È molto pallida e gli occhi, che una volta erano di un blu vivace e acceso, ora sembrano grigi come nebbia, privi della loro solita luce. Pare incurvarsi sempre di più ogni giorno, e tra i suoi capelli scuri spiccano alcune ciocche argentate che non mi sembra di aver notato prima.

Nonostante ciò, non riesco a non pensare che questa storia abbia qualcosa di sospetto. Se il fratello è un pozionista tanto abile, perchè non ho mai sentito parlare di lui? Che problema di salute può avere, se non riesce a curarsi con una pozione ordinaria?

Forse è sincera e impedendole di fare quella pozione potrei ucciderla; forse non lo è, e cercherà veramente di far esplodere il castello. In ogni caso, troverò il modo di sorvegliarla, così da poterla fermare nel caso in cui le cose si mettano male.

— Va bene. — Sospiro, incrociando le braccia. Stiamo camminando tra gli studenti, adesso, e un paio di loro mi stanno lanciando occhiate strane. Il resto, invece, mi ignora. — Va bene, la aiuterò... volentieri.

Per un momento vedo un vero sorriso balenare sul suo viso, e contagia anche gli occhi; subito dopo, però, questo diminuisce, e sembra che stia semplicemente stirando le labbra. — Sapevo che potevo contare su di te, — dice, con un tono più vivo, — Grazie mille.

Sento qualcuno chiamare il mio nome, dietro di me, e girandomi vedo Alice e Mary che si stanno avvicinando. Prima di parlare con loro, però, c'è ancora una cosa che devo chiedere. — Professoressa, quindi quali sono gli ingredienti che dovrò-

Mi volto di nuovo a guardarla, ma è sparita.

Osservo le persone che mi circondano, ma ci sono solo studenti e, in mezzo a loro, Flitwick, che però non noto subito a causa del fatto che in altezza arriva a malapena alla cintola di buona parte di loro.

Sembra che la Wilson si sia volatilizzata.

— Dov'eri finita? — chiede Mary, che intanto mi ha raggiunta, posandomi una mano sulla spalla, — Ti abbiamo cercata ovunque, ma non c'eri.

— Lo sai che ho una repulsione per i campi da Quidditch, — rispondo, — E poi avevo bisogno di farmi quattro passi, da sola.

— Non sarà per caso perchè sei preoccupata per Potter?

Alice solleva le sopracciglia, mentre Mary mi rivolge quello che è il terzo sorrisino malizioso della giornata. Le colpisco entrambe su un braccio, per poi mettermi le mani sui fianchi. — Non siate ridicole, certo che no. — (In realtà un po' sì, ma è irrilevante.) — Quegli imbecilli si fanno male con la stessa frequenza con cui io mi lavo i denti e se la cavano sempre. C'erano troppe persone e troppo rumore, mi faceva male la testa.

— Scusa se ti abbiamo trascinata a vedere la partita, Lils, — dice Alice, con tono dispiaciuto, prendendomi per mano, — Volevamo farti divertire un po', non pensavamo che ti avrebbe fatto male.

Agito l'altra mano con fare incurante. — No, non preoccupatevi. — Un sorriso mi spunta sulle labbra. — Era la prima volta per Mary come presentatrice, non potevo mancare. Immaginate se mi fossi persa i suoi commenti da cucciolo emozionato!

La diretta interessata ghigna, scuotendo la testa. — Grazie, ma non credo che lo farò di nuovo. Sentivo l'alito di Madame Hooch sul collo, mi sorvegliava come un pastore tedesco.

Ridiamo, decidendo intanto di andare in infermeria per vedere come sta Potter.

Durante il tragitto, mi aggiornano su quello che gli è successo mentre io ero al castello e, come mi aspettavo, la conclusione è che nonostante tutto lui continua ancora a mettere il Quidditch al primo posto, anche se è malato.

Mi strofino gli occhi con una mano, emettendo un sospiro esasperato. — Finirà per uccidersi, un giorno di questi.

— Potremmo metterci a fare delle scommesse, sai quanti soldi potremmo guadagnare? — propone Mary, con un sorriso furbo, — Tra lui e gli altri Malandrini non so chi si faccia più male.

Alice assume una posa solenne. — Scommettete, signori, scommettete! Chi tra i Malandrini sarà quello che si romperà l'osso del collo buttandosi dalle scale oggi?

Nel mezzo delle nostre risate, Alice continua a parlare: — Il mio povero Frank non farebbe mai cose del genere. È un omaccione responsabile lui, se gli succede qualcosa è solo colpa della sua sfortuna!

Quando arriviamo all'infermeria, vediamo Potter completamente circondato da quelle che sembrano essere almeno dieci persone, tra varie ragazze e compagni di squadra. Da uno spiraglio tra la folla, riesco vagamente a vederlo: sta dicendo qualcosa che non riesco a sentire, con un sorriso stampato in faccia e la mano tra i capelli.

Remus, Black e Minus sono invece seduti tutti e tre su un letto vuoto lì vicino, mentre osservano divertiti come Madama Pomfrey cerchi di allontanare gli studenti dal letto del malato.

— Poi vi dovrò curare tutti, incoscienti, non c'è così tanto spazio in questa infermeria! — la sento esclamare, anche da dove ci troviamo.

Per la sua gioia, in poco tempo la piccola folla si disperde, lasciandola sola a rimproverare Potter, secondo lei il più grande incosciente tra tutti per aver giocato pur essendo malato e, soprattutto, per aver fatto allenare la squadra sotto la pioggia. Lui non sembra farci molto caso: tutto ciò che fa è ascoltarla e aggiungere dei commenti scherzosi ogni tanto.

Poi l'infermiera si scaglia contro i Malandrini, intimando loro di uscire dall'infermeria perché "sono stati esposti all'influenza del signor Potter per troppo tempo". Noi rimaniamo nascoste dietro al battente chiuso della porta, per poter entrare indisturbate una volta che Madama Pomfrey si sarà ritirata nel suo piccolo laboratorio, e incrociamo Remus e gli altri due mentre escono dalla stanza. Per nostra sfortuna, la donna li ha seguiti, per essere sicura che nessuno di loro trovi il modo di restare là dentro (nascondendosi sotto un letto, per esempio), quindi riesce a trovarci.

— Le visite per ora sono finite! Tornate stasera! — esclama, con gli occhi che mostrano come sia al limite dell'isteria. Non la biasimo: non dev'essere facile fare l'infermiera in una scuola piena di adolescenti con tendenze auto-distruttive.

Prima che ci sbatta la porta in faccia, riesco a vedere di nuovo Potter, parzialmente sdraiato sotto una marea di coperte e con la schiena appoggiata contro il cuscino. Ha i capelli arruffati e le guance arrossate, ma tutto sommato non sembra stare troppo male, probabilmente grazie a qualsiasi medicina Madama Pomfrey gli abbia rifilato. Quando mi vede, il suo viso assume l'espressione di qualcuno a cui abbiano fatto una festa a sorpresa - sopracciglia alzate, occhi sgranati e tutto.

Sembra che voglia dire qualcosa, ma tutto ciò che sento è lo sbattere della gigantesca porta dell'infermeria.

Osservo i bizzarri ricami nel legno di quercia, per poi alzare la testa e chiudere gli occhi.

Accidenti.

~James~

Non sono mai stato così cosciente dello scorrere del tempo quanto lo sono ora, in questa sterile infermeria, mentre aspetto la sera - o, per essere più precisi e soprattutto più onesti, mentre aspetto che la Evans venga a visitarmi, cosa che suppongo avrebbe fatto molto prima, se Madama Pomfrey non avesse deciso di voler essere la rovina della mia esistenza.

Mi ha sorpreso vederla alle porte dell'infermeria, stamattina.

Non ricordo molto di quello che è successo, ma mi ricordo per certo di non aver visto la sua testa rossa tra la folla che mi stava intorno, né quella al campo né quella che era arrivata fin qui e il cui interesse verso di me non era scemato nel giro di venti minuti, fatta di persone migliori e più umane che, per la cronaca, ricorderò per sempre e che eleverò insieme a me quando sarò in alto, molto in alto, sulla mia scopa, acclamato da ogni direzione come il più grande giocatore di Quidditch del secolo.

Pensavo che non sarebbe più venuta ma invece era lì, ritta, con la mano poggiata sulla borsa, e osservava la gente che stava intorno a me e me, in particolare, studiandomi come fa di solito con tutto e con tutti. Non mi è chiaro quale ruolo io abbia assunto allora ai suoi occhi, se quello di un animale posto davanti allo sguardo avido di uno zoologo o quello di un soldato che combatte per l'esercito nemico.

Aspettare che i suoi passi raggiungano di nuovo questa stanza e che il suo sguardo torni di nuovo a posarsi su di me è una delle torture più strazianti, e il ticchettio dell'orologio a pendolo (che è probabilmente nascosto, visto che non riesco a vederlo da nessuna parte) sta iniziando davvero a darmi sui nervi.

Vorrei alzarmi dal letto solo per cercare quel dannato orologio e gettarlo attraverso una finestra, ma seppur la medicina disgustosa che ho ingerito poche ore fa abbia fatto miracoli e la mia febbre sia scesa con una rapidità impressionante, ho la sensazione che mettere un piede fuori dal letto mi porterebbe, di nuovo, a sbattere con la faccia contro il suolo. La testa inizia improvvisamente a pulsare più forte, forse per avvisarmi di quella nefasta possibilità.

A un certo punto, la mia noia arriva a un punto tale che la mia sola fonte di gioia e di distrazione dalle ondate di calore che continuo a sentire diventa la contemplazione del mio corpo: i raggi del sole colpiscono il muro dietro di me creando giochi di luce curiosi e colorando il bianco della parete con oro e rame, e quando porto la mano in alto, ponendola come ostacolo alla luce, dietro di me si proietta un'ombra scura, mentre intorno al mio braccio si crea un alone di luce che non riesco a decidere se sia arancione o rosso.

Molto presto però Madama Pomfrey si insospettisce, e decide ancora una volta di sottrarre qualcosa dalla mia vita - se prima era l'attenzione della Evans, adesso è la possibilità di apprezzare a pieno il mondo che mi circonda. La prossima volta suppongo che mi strapperà via l'anima.

— Signor Potter, che sta facendo? — chiede l'infermiera, mentre la sua espressione naturalmente cupa viene resa ancora più cupa da un accenno di preoccupazione o, più probabilmente, sospetto.

— Sto cercando di comunicare con qualche divinità che mi possa aiutare, — rispondo, con un sospiro che avrebbe sicuramente distrutto la casa di mattoni del terzo porcellino, se fossi stato il lupo di quella favola, — Se rimarrò qui dentro ancora per qualche minuto credo che impazzirò.

— Suvvia, non faccia il melodrammatico.

Madama Pomfrey non dice nient'altro, e l'unico suono che sento provenire da lei dopo quella frase è uno sbuffo sdegnato.

Il mio braccio, intanto, cade a peso morto sul letto.

Il tempo continua a passare, lento e triste, mentre io penso a tutto ciò che potrei fare in questo momento invece che stare qui - festeggiare con la squadra, fare baldoria, esercitarmi in Difesa, suppongo.

Attraverso le finestre, di cui ho una chiara visuale trovandomi al lato opposto rispetto ad esse, riesco a vedere il sole che scende sempre di più e il cielo che inizia ad assumere colori sempre più saturi e intensi, per poi sprofondare nel buio. È difficile tenere gli occhi aperti, perché insieme al buio sopraggiunge anche la stanchezza, ma appena sento il suono della porta che si apre tutto svanisce.

All'inizio non vedo nessuno, ma dopo un momento la testa della Evans spunta da dietro il battente aperto e così, poi, tutto il resto del suo corpo. Madama Pomfrey non sembra farci molto caso, il che è strano.

Mi sollevo leggermente con le braccia per appoggiarmi meglio al cuscino e dal fianco, che non ha certo giovato dell'atterraggio improvvisato di qualche ora fa, sento arrivare una scarica di dolore che si irradia per tutto il mio corpo.

Alzo di nuovo lo sguardo, massaggiando quella parte, e la Evans sembra ancora più vicina. Ora riesco a vederla meglio, e a giudicare dal suo cipiglio non pare contenta.

— Evans, — dico, con un cenno di saluto, — Sei venuta per portare dei fiori sul mio letto di morte? Non vedo bouquet.

— Ma piantala, — dice, gettando la borsa sulle mie gambe. Non mi aspettavo che fosse così pesante, e il verso che esce dalla mia bocca dopo l'impatto non è qualcosa che definirei esattamente onorevole.

— Ehi, sono un malato, un po' di rispetto! — esclamo, schiarendomi la voce. — E poi, non vorrai farmi peggiorare! Ho una costituzione molto delicata, per tua informazione.

Trascina una sedia accanto al letto e si siede. — Oh, non dirmi che ti preoccupi della tua salute, ora, — risponde, scrutandomi.

— Mi preoccupo più del fatto che se mi spezzerai qualche osso dovrò stare qui più a lungo del dovuto! Questo posto è un inferno, non c'è niente da fare.

La Evans incrocia le braccia, rilassando la schiena e ponendo tutto il suo peso contro lo schienale. — Allora se non vuoi che io ti "spezzi qualche osso", come dici, vedi di non fare più l'idiota come hai fatto oggi.

La osservo, incuriosito. Di solito non mostra preoccupazione ma per la prima volta, incredibilmente, riesco a sentire una traccia di questo sentimento nella sua voce, e non posso negare che ciò mi metta gli organi decisamente in subbuglio.

Sorrido. — Almeno sono un idiota carino.

— Come no, campione, — risponde, scuotendo la testa, — Accidenti, non ho nemmeno idea di come tu abbia fatto a rimanere cosciente per così tanto tempo.

— Il segreto è l'alcool, — affermo, mentre alzo le sopracciglia.

La Evans mi osserva, scettica.

Sospiro.

— Delle pillole per l'influenza che mi sono fatto dare da Remus. Non molto efficaci ma... — Scrollo le spalle. — Abbastanza da farmi resistere per un paio d'ore.

Si china sulla sedia, allungando una mano verso il mio viso. Cerco di allontanarmi, sorpreso da questo movimento improvviso, ma lei riesce comunque a posarmi il dorso della mano sulla fronte.

— Stai calmo, — dice, con un tono divertito che in qualche modo contrasta il rosa che sta colorando lentamente le sue guance, — Non voglio farti male.

Sento le mie orecchie e le mie guance diventare sempre più bollenti, mentre lei sposta la mano da una parte all'altra della mia fronte con gli occhi socchiusi. — Chi me lo garantisce? — chiedo, cercando di mantenere un tono dignitoso, mentre mi rendo conto di non aver mai avuto una reazione del genere nei suoi confronti. L'ho abbracciata un paio di mesi fa (stento ancora a crederci, è incredibile) e non ho fatto una piega, l'ho portata sulla mia groppa sotto forma di cervo, quindi ora come mai un gesto così piccolo mi rende così nervoso?

Con il ghigno che le si forma sulle labbra, sarebbe molto facile scambiarla per una Malandrina. — Nessuno.

Credo che il problema sia principalmente la nostra vicinanza, e soprattutto il fatto che sono in un letto, al suo stesso livello, privo di quella sicurezza che i nostri venticinque centimetri di differenza in altezza mi garantiscono. Essere malato, poi, non aiuta; sento che il mio autocontrollo è a un passo dall'andare a fare le valigie e non tornare più.

Dannata lei e le sue belle lentiggini.

Mette giù la mano, grazie al cielo, e quando si allontana la stretta allo stomaco che ho sentito quando si è avvicinata si allenta.

— Credo che tu non abbia più la febbre, ma sei ancora pallido. Come stai?

Non sembra essere molto a suo agio, a giudicare da quanto si sta torturando le dita - la capisco, in un certo senso, perché di solito le nostre conversazioni sono più un "Evans, esci con me!" e "Vai a farti fottere, Potter!".

— Bene, sì, abbastanza bene. Sono ancora un po' stanco ma sai com'è, non siamo a Lourdes. — Mi schiarisco la voce. — Piuttosto vorrei chiedere a te come stai.

Inclina la testa, aggrottando le sopracciglia con un sorriso confuso. — In che senso, scusa?

— Non so se te ne sei accorta, ma questa conversazione sta procedendo in modo più civile del solito, — spiego, portando indietro un ciuffo di capelli con la mano, — Non che mi dispiaccia, e anche farmi toccare da te non è affatto una brutta esperienza, ma devi ammettere che è strano.

Il rosa del suo viso è diventato rosso, e ora è lei a schiarirsi la voce, a disagio. — Avevo promesso di non fare più l'acida, no? Sto mantenendo la promessa.

— E la borsa sulle gambe?

— Quella te la meritavi.

Sorride, ma per poco tempo: sbuffa, e immediatamente il suo viso torna ad avere quel cipiglio preoccupato con cui è entrata.

Sembra che si senta in colpa per qualcosa.

— Ti sei fatto male, quando sei caduto? — chiede, ancora, e questa volta sono sicuro che si stia effettivamente sentendo in colpa per qualcosa.

— Sto bene, Evans, davvero. Che ti prende? — La osservo, divertito. — Non sarà per caso una battuta di abbordaggio? Perché credo che tu abbia mancato un pezzo.

L'espressione che mi rivolge suggerisce che è sul punto di prendermi a pugni. Poi il suo viso torna all'espressione di prima. — No, Potter. È che... — Riesco quasi a sentire gli ingranaggi del suo cervello che girano, veloci, mentre cerca di misurare le parole. — La verità è che mi sento in colpa per non essere venuta prima. E per non essere riuscita ad aiutarti, soprattutto.

— Oh, a essere sincero non mi aspettavo nemmeno che venissi, quindi questa é una bella s... — inizio a dire, bloccandomi però dopo aver elaborato la seconda parte della frase. Aiutarmi? — Un momento, come?

La Evans si prende i gomiti tra le mani, chiaramente a disagio - se possibile, ancora più di prima. — Quando sei scivolato... ho tirato fuori la bacchetta ma non ho fatto nulla. È stata la Wilson ad aiutarti.

Sussulto, mettendomi drammaticamente una mano sul petto. — Evans, volevi per caso essere il mio cavaliere dall'armatura scintillante? Mi stai sorprendendo sempre di più, stasera.

— Sei un cretino.

Ridacchio tra me e me, riflettendo intanto su quello che ha detto.

Non scherzavo quando ho detto di essere sempre più sorpreso: lei non mi era mai sembrata particolarmente interessata al mio benessere; sapere che a quanto pare si sente in colpa per non essere riuscita a preservarlo...

Mi passo una mano tra i capelli, portandola poi dietro alla nuca. — Non dovresti preoccuparti di queste cose, è compito dei professori provvedere alla nostra sicurezza, non tuo, — dico.

Vedo la sua bocca stirarsi in un sorriso, ma il resto del suo viso rimane immobile, come paralizzato. Non mi guarda: ha lo sguardo puntato a terra, non concentrato, come se stesse conducendo un'altra conversazione nella sua testa. — Forse hai ragione, — afferma, annuendo, mentre giocherella con la stoffa della sua gonna.

— Piuttosto, — dico, battendo le mani, dopo una pausa, — È successo qualcosa di interessante mentre ero via? Dimmi che i Malandrini stanno scappando da Gazza, adesso.

Alza gli occhi, e dal suo sguardo affranto ed esasperato capisco che sì, stanno assolutamente scappando da Gazza.

Non dicendo più una parola riguardo a ciò che è successo prima, inizia a raccontarmi della loro impresa, di come li ha incrociati in corridoio, mentre correvano con Morgana solo sa cosa in mano, come ha visto Gazza correre poi nella stessa direzione, inciampando ogni secondo sui suoi lacci, a quanto pare legati insieme da un incantesimo. — Appena li vedrò gli farò una strigliata che ricorderanno per il resto dei loro giorni! — commenta, sistemando la spilla da Prefetto che ha appuntato sul suo maglioncino, pur sapendo che, alla fine dei conti, non farà assolutamente niente.

Poi la conversazione svia e tocca altri argomenti, ma rimane sempre così - lieve, spensierata, ma allo stesso tempo talmente dinamica da sembrare la lettura di un romanzo di avventura.

— Con tutta la tua grandissima preoccupazione verso di me, — affermo, guadagnandomi un'occhiataccia, — sei riuscita ad apprezzare la partita di oggi? Il fatto che tu sia venuta, Evans...

Fischio piano, per non farmi sentire da Madama Pomfrey, sorridendo.

La Evans sbuffa, alzando gli occhi al cielo. — Sono venuta solo per sentire Mary, non pensare che mi piaccia questo sport, adesso.

Il suo disgusto però (che sicuramente non dimenticherò, perché chi non apprezza quest'arte merita assolutamente la mia vendetta) non le impedisce di commentare la partita evidenziando tutto ciò che le era sembrato strano o tutto quello che è stato, a sua detta, "abbastanza impressionante".

Mi diverte osservarla: le sue mani, pur essendo ferme, sembrano sempre sul punto di sollevarsi e iniziare a gesticolare; il suo naso trema, mentre parla, ma la sua espressione pare comunque tranquilla.

— Devo andare, — mi rivela, ad un certo punto, anche se penso di averlo già capito dal fatto che, dopo essersi girata per guardare dietro di sé (probabilmente verso quell'orologio che io ancora non riesco a vedere), sia saltata su come una molla, — Sta per scattare il coprifuoco.

La fermo, mentre raccoglie le sue cose: — Ehi, uh, aspetta-

La Evans solleva lo sguardo dalla borsa che stava sistemando sulla sua spalla e mi osserva, incuriosita.

— Grazie, — dico, sbadigliando. Deve essere davvero tardi, perché io abbia sonno, o forse è la stanchezza. — Per essere venuta, intendo. La tua visita mi ha fatto davvero bene. — Ghigno. — La te cortese è decisamente meglio della te rompiscatole.

Il modo in cui mi sorride potrebbe far pensare che abbia appena mangiato un limone. — Non farne un'abitudine, rimani sempre insopportabile.

— A-ha, eccola, è tornata!

Si avvicina alla porta a passi veloci, con la borsa che sobbalza sul suo fianco, per poi girarsi un'ultima volta. — Buonanotte, Potter.

Sorrido. — Buonanotte, Evans.

Quando se ne va, mi sento come se un macigno mi fosse stato posto sul petto. Nel frattempo l'infermiera spegne le luci, mandandoci tutti a dormire; anche nel buio continuo a lanciare occhiate furtive alla porta, di tanto in tanto.

Quando a mezzanotte questa si apre, silenziosa, non posso dire di non aver sperato di vedere di nuovo la Evans. Quelli che entrano però sono Peter, Remus e Sirius con una valanga di caramelle e di biscotti tra le braccia, e va bene lo stesso.

///
Scrivere questo capitolo è stato molto istruttivo per me, devo dire, visto che ho imparato due cose: 1) non ho idea di come si scrivano delle interazioni carine e quando lo faccio ne viene fuori qualcosa di aberrante; 2) non so contare i giorni.
Per qualche motivo, infatti, credevo che fossero passati solo dieci giorni da quando ho pubblicato lo scorso capitolo, quindi ero tranquilla avendo già finito buona parte di quello successivo, per poi rendermi conto che in realtà ne erano passati ventiquattro.
Speriamo che non succeda di nuovo. Adieu! :')

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