Capitolo 33
~Lily~
Non va bene.
Non va assolutamente, maledettamente bene. Nemmeno un po'.
Qual è il problema? Oh, sono tanti i problemi, ovviamente, e hanno tutti stranamente deciso di rivelarsi esattamente nell'arco che va dal mio compleanno alla settimana seguente.
Perché sì, è passata una settimana, e ormai non ho più controllo su nessun aspetto della mia vita. E questo fatto, tra l'altro, mi irrita.
Per prima cosa, non appena Potter era fuggito via come un cervo - che è -, mi ero rifugiata nella mia stanza cercando calore nelle lettere che avevo ricevuto per il mio compleanno, ma non posso dire che erano esattamente calorose come mi aspettavo.
Sempre i soliti auguri (pace, gioia, amore e tanti blah, blah, blah smielati e ripetuti da anni), ad eccezione della lettera da parte di mia madre. Ma non in senso positivo, ovviamente.
La lettera era iniziata bene. "Ciao", "Come stai?", "Come va con il ragazzo occhialuto che era venuto a Natale?" (il che mi mise giù di morale peggio di prima, e segnò anche un piccolo declino nel "era iniziata bene"), e cosa più bella: "Petunia se n'è andata di casa per andare a vivere con il suo fidanzato".
Avrei regalato un mazzo di fiori a quella sottospecie di tricheco, sul serio. Per quanto mi stia antipatico (e la cosa è, ovviamente, reciproca), mi aveva fatto il regalo più bello, persino più bello dei dolcetti della nonna.
Poi però iniziò il brutto.
A quanto ne ho capito con gli occhi appannati, papà non sta molto bene. A un certo punto, a lavoro, i colleghi avevano visto che non si muoveva più, e avevano chiamato il pronto soccorso. I medici hanno fatto il possibile, ma papà è ancora in ospedale, anche se sveglio. È debole, e lamenta sempre un dolore bruciante nel petto.
Sono davvero preoccupata.
Papà è sempre stato una figura di riferimento a casa, in qualunque situazione. Lui è il "lato buono" nell'ambito genitoriale, mentre mamma è più severa. Quando non lavora sta sempre seduto lì, sulla poltrona, a leggere il giornale - casualmente sempre aperto nella sezione sportiva - e a parlare vivacemente con noi, oppure alla scrivania, a scribacchiare qualcosa su un'agenda nera.
Ogni volta che gli si chiedeva un permesso, rispondeva sempre con la stessa frase e un sorriso: "Fare il proprio dovere rende liberi". È un uomo con grandi valori, solare e laborioso. Sa sempre dare buoni consigli, anche se spesso lo fa con frasi che - apparentemente - non hanno molto senso, e nel suo insieme è la persona che stimo di più nella mia vita.
Ma ora?
Se papà non ce la farà... cosa succederà a casa? Cosa succederà nel futuro? Cosa succederà a me?
Poi ci si mette pure Potter, con la sua stupida rabbia, i suoi stupidi sbuffi, e il suo evitarmi nonostante il fatto che ogni singolo giorno ci incontriamo in classe, nelle varie Sale della scuola, nei corridoi. E ancora i mormorii, i "Perché Lily e James non battibeccano più?".
Ve lo dico io il perché: abbiamo semplicemente capito che non siamo uccelli e che non abbiamo il becco. Contenti della risposta? Bene. Non fatevi più sentire, grazie e a(non)rrivederci.
Non che me ne importi tanto, comunque. In senso, non c'è nessun gigantesco senso di colpa che mi consuma dall'interno facendomi dannare per ore e ore mentre le mie occhiaie aumentano di giorno in giorno. Certo che no. Sono sei anni che me ne sbatto dei sentimenti di Potter - la cui esistenza, prima di quest'anno, mi era sconosciuta -, perché dovrebbero mai turbarmi proprio adesso?
Forse ho qualcosa che non va. Magari Alice mi ha trasmesso la sua depressione, quella che la assale quando, ad esempio, le si spezza un'unghia. Può essere: di solito mi usa come spalla su cui piangere, e le sue lacrime saranno in qualche modo risalite lungo il mio corpo entrando attraverso le mie narici e raggiungendo il mio cervello.
Oh, no. Sto delirando. Io l'ho detto!
— Lily, cosa ti ha fatto di male quello spezzatino?
Mi risveglio dallo stato di trance in cui sono caduta, solo per rendermi conto di aver percosso violentemente il mio pasto, una porzione di spezzatino di pollo, che ho così amorosamente inforchettato rendendolo uno spezzatino al quadrato.
Onore allo spezzatino. Sei stato un buon pranzo, amico mio.
— Huh? — esordisco, nelle mie capacità intellettuali massime. Sinceramente non sono nelle condizioni di capire qualsiasi cosa, al momento.
— Ti ho chiesto che cosa ti ha spinto ad assassinare il tuo cibo. — ripete Mary, alzando un sopracciglio. — Ricordati che è sacro. Meno dei dolci, ma è pur sempre sacro.
Punto lo sguardo sul piatto, solo per poi rialzarlo di nuovo.
— È già morto, non l'ho ucciso io.
Mary sbatte entrambe le mani sul viso, strofinandole contro di esso.
— Un giorno o l'altro mi farai diventare vegetariana. — borbotta, sospirando esasperata.
Poi si sistema più comodamente sulla panca, puntando lo sguardo addosso a me: — È chiaro che c'è qualcosa che non va. Ora la domanda da cento galeoni è: cosa c'è che non va?
— C'è che non ho dormito, ecco cosa. — rispondo, sbadigliando. Non ho detto né a lei né ad Alice della lettera di mia madre, e non ho intenzione di dirglielo. Provocherei solo più problemi che non ho la possibilità (o la voglia) di risolvere.
— E perché non hai dormito? — domanda la mora, paziente. Punto a una torta vicina a noi, affondando nello stesso tempo la testa tra le braccia.
— Una torta ti perseguitava nei tuoi incubi? — mormora la mora, con un tono di voce molto da narratore per il quale non posso fare a meno di ridere. — Era per tirarti su di morale.
— Un tiramisù sarebbe stato perfetto. — rido, quasi lacrimando, e lo squallore di questa battuta per oggi non mi preoccupa.
So che Mary ha capito cosa non va, e lei sa che io ho capito che lei ha capito. Sa anche, comunque, che non ne voglio parlare. Ed è così.
— Ti vedo agitata in questi giorni. — affermo, cambiando discorso. — Come mai?
Non che abbia veramente visto nulla, solo... l'atmosfera era più movimentata.
Lei si rizza subito a sedere, e arrossisce.
— Io... — inizia, titubante. Poi lancia un'occhiata allo spezzatino. — Hai finito di mangiare?
Seguo il suo sguardo.
— Avrei voluto prendere una porzione di dolce, ma suppongo che il mio stomaco si sia chiuso per oggi.
Lei mi trascina fuori dalla Sala Grande, mentre il mio sguardo vola istintivamente su Potter.
Devo levarmelo dalla testa, accidenti.
Mary si guarda intorno, assicurandosi che non ci sia nessuno.
— Tra una settimana è San Valentino.
Questa frase mi spiazza. Mi ero resa conto che era passata una settimana, ma i giorni sono passati così in fretta che non mi sono preoccupata di informarmi sulla data esatta. San Valentino? Di già?
— Di già? — ripeto, ad alta voce. Mary annuisce, con lo sguardo basso.
— Quindi...? — chiedo, esitante. Ho qualche sospetto, ma non è possibile, perché se è come penso quella non è Mary ma un clone. Mary non penserebbe mai di farlo.
— Vogliodichiararmiaremus. — esordisce la ragazza, tutto d'un fiato. Scuoto la testa, non avendo una capito ciò che ha appena detto.
— Eh?
Ancora una volta, oggi, dò dimostrazione delle mie innate capacità intellettuali. E meno male che sono una delle studentesse più intelligenti della scuola.
— Voglio dichiararmi a Remus. — sussurra Mary, più lentamente.
Spalanco gli occhi, sorpresa. — No...
— Sì.
— Tu...
— Sì.
— Tra una settimana...
— Sì.
Sul mio viso passa una varietà di espressioni che non sapevo di poter esprimere, tante diverse sfumature di gioia e di sorpresa che nessuno ha mai catalogato. Sicuramente, sarò stata la prima persona e donna al mondo a utilizzarle.
— L'hai già detto ad Alice? — chiedo, emozionata.
— Sì, e ha dato di matto. Ha iniziato a preparare i vestiti, i trucchi e i fermacapelli, a riempirmi di fiocchettini bianchi e a scrivere una lista per il mio matrimonio. — rispose la mora, togliendosi un fiocco incastrato tra i voluminosi capelli ricci.
— IO VOGLIO ESSERE LA TESTIMONE! — esclamo, in un impeto di eccitazione, solo per farmi tappare la bocca da Mary: — Shhh, potrebbe essere nei paraggi.
— Ma no, dai, non puoi essere così sfortunata.
Immagino Remus nascosto dietro a una colonna, con un binocolo in mano ad osservarci, e ridacchio.
Mary inizia quindi a bombardarmi di domande: — Pensi che io gli piaccia? Dici che non reagirà male? E se mi rifiuta?
— Dai, ce la farai. L'importante è che lui non svenga nel bel mezzo della tua dichiarazione, per il resto... lo deciderà il destino. — la conforto, posandole una mano sulla spalla e ridendo malvagiamente dentro di me perché lei sì, sa che io e Remus siamo grandi amici (e sa che lo siamo troppo purché ci sia qualcosa di più sotto, quindi è tranquilla e non cerca di tagliarmi la gola ogni notte), ma non sa che lui spesso mi confida alcuni dei suoi segreti e che, per puro caso, mi abbia detto che ha una cotta per una certa Mary MacDonald. E nemmeno lui sa che Mary mi confida lo stesso genere di cose. Anzi, nessuno dei due ha mai pensato di usarmi come gufo per scoprire informazioni sull'altro, quindi ci devo pensare io ad avvicinarli. Che fatica.
Perlomeno, Mary ora si è finalmente decisa, quindi posso vivere in pace e guardare mentre due dei miei migliori amici diventano due piccoli piccioni innamorati.
Due piccioncini.
Cerco di scacciare via il pensiero della Licantropia di Remus, che mi affligge ogni qualvolta penso a lui e Mary insieme. Non che ne faccia un problema: più che altro, è un problema il renderne un problema di Remus. In fondo, c'è pur sempre una probabilità che i loro figli non nascano con questa "malattia", per così dire, e poi non è che Mary inizierà a seguirlo durante la luna piena urlando "Oh REEEEMUS". Non è mica così sciocca.
— Che poi, vedo come ti guarda. C'è qualcosa sotto, a mio parere. — suggerisco, osservandomi distrattamente le unghie.
Per un secondo, Mary resta in silenzio.
— Quindi intendi dire che mi vuole morta? — chiede poi, timorosamente.
La sto mentalmente prendendo a schiaffi. Per tutte le cavallette, Mary, ti sto dando dei suggerimenti palesi sul fatto che gli piaci, e tu pensi l'inverso? Ma il prosciutto invece di mangiarlo te lo sei messo sugli occhi, o cosa?
Fortunatamente non sono dentro questa assurdità dell'amore. È da quando ero alle elementari che non mi viene nessuna cotta.
Mark mi aveva spezzato il cuore, ai tempi, andando a giocare con una mia compagna di classe invece che con me, quindi non voglio nessuna relazione amorosa fino a quando non avrò trovato il ragazzo giusto.
Delusioni infantili, già.
— No, Mary. — replico, pazientemente. — Senti, per ora lascia perdere. Ci penserai quel giorno. L'importante è improvvisare!
Gli studenti iniziano a uscire come un fiume in piena dal portone, cercando di sorpassare l'un l'altro. Di conseguenza, per non essere investite da tutta questa folla, decidiamo di separarci, e andare in una direzione completamente opposta almeno finché non riusciremo a respirare in quel corridoio, ossia quando ci sarà almeno un po' di spazio per muoversi.
E sappiamo tutti come vanno a finire i "Separiamoci", di solito, no?
Buio, dolore e tanto, tanto sangue.
Ma nel mio caso, ovviamente, io non vengo assassinata da un maniaco assetato, senza un motivo preciso, di sangue.
Mi addentro nel corridoio, cercando di trovare una scorciatoia per la mia Sala Comune. E la trovo.
Di lì non passano molti studenti, di solito, anche perché è un luogo nascosto da occhi indiscreti per mezzo di un quadro. Se si sa che è un passaggio segreto, quello, e se si sa rispondere alla domanda dell'uomo nel quadro - un tizio barbuto vagamente somigliante a Babbo Natale -, si può passare.
Le ragnatele si trovano ad ogni angolo, e devo abbassarmi per non scontrarmi con altre che vanno da un muro all'altro.
Oltre alla Torre di Astronomia, quello è l'unico luogo che frequento e che conosco perfettamente da quando sono arrivata ad Hogwarts.
L'incontro è stato piuttosto strano, a dire il vero: sono inciampata a causa di un incantesimo piazzato da qualche idiota, andando a cadere per terra, a pochi centimetri dal quadro.
L'uomo aveva domandato, sibilando "Sei qui per attraversarmi?" e io, che ero stordita dalla caduta e pensavo mi volesse chiedere "Stai bene?", perché è quella la domanda che ogni essere normale farebbe a qualcuno che è caduto di faccia su una superficie di pietra, avevo risposto di sì, così dopo aver risposto dubitante alla domanda ero entrata.
Che incontri strani che si fanno a Hogwarts.
Mentre attraverso la scorciatoia, piena di strane porte, sento dei passi dietro di me.
Non dovrei sentire dei passi, in teoria.
Non ho mai sentito dei passi in quel posto in sei anni che mi trovo a Hogwarts.
Perché sento dei passi?
Diventano sempre più veloci mano a mano che si avvicinano a me.
Questa è la volta buona che muoio, penso.
Petunia ne sarebbe felice, mi sa.
Come il genio quale sono e quale è chiunque in un film dell'orrore, torno indietro per vedere almeno chi è.
Cercando di non farmi scovare, mi stringo al muro, in un angolo buio, trattenendo il respiro. Davanti a me passa veloce una figura alta e snella, che alla luce della finestra si rivela essere la professoressa Wilson.
Cosa diamine ci fa qui?
Con gli occhi che sembrano due palline da tennis per lo stupore, mi avvicino lentamente alla porta attraversata dalla donna. Sento il suo mormorio indefinito, il suono del vetro che si scontra. Dando un'occhiata all'interno, vedo solo una massiccia nebbia di vapore argentato, che si insinua nei miei polmoni, stuzzicandoli. Nulla di più.
— Dannazione, non ho tempo! — la sento dire, con il tono di uno studente che ha lasciato tutto lo studio al giorno prima degli esami.
Sembra avere una certa urgenza, appunto, e non riesco a capire se è perché sta partecipando a una sottospecie di concorso o perché sa che farà una brutta fine entro la fine dell'anno, essendo la professoressa di Difesa.
Decido saggiamente di andarmene, anche perché l'aria è diventata irrespirabile, e ora i miei polmoni bruciano. Come fa la professoressa a respirare, essendo proprio in mezzo al vapore?
Certamente, c'è un 'tuttavia' in questa situazione. Mi sembrava strano, in effetti, che non si fosse presentato prima.
Infatti, visto che la mia vita non è abbastanza miserabile secondo la fortuna e visto che proprio oggi la mia indole da panda gigante decide di rivelarsi, riesco a inciampare nello spazio tra una pietra e l'altra. Fortunatamente non cado, ma il singolo suono prodotto dal piccolo tacco delle mie scarpe si sente eccome, nell'assoluto silenzio del corridoio.
C'è un fragore di boccette, e la voce della professoressa si fa sentire: — C'è nessuno?
No, Ulisse non c'è.
Mi dispiace.
Senza perdere tempo, in punta di piedi e il più velocemente possibile, raggiungo la porta di legno che mi condurrà, così, alla salvezza.
Ma, palesemente, oltre la sua soglia si celano altri problemi.
Tipo Sirius Black con un bastone in mano.
— Ma buongiorno, Evans.
Il suo tono è freddo, glaciale, e sommando quello alla sua apparenza direi di essere finita definitivamente in un film dell'orrore. Lui è il serial killer e io la vittima.
Resisto alla tentazione di scappare via, lontano. Verso il Messico. — Cosa vuoi, Black?
— Abbattere una pentolaccia, guarda. — replica, sarcastico, agitando il bastone. Al mio sguardo, piuttosto scettico, continua: — Dobbiamo parlare di... certe cose che sono successe recentemente, ecco.
Si passa il bastone da una mano all'altra, e ho la vaga sensazione che non sia venuto qui solo per conversare.
— Il tuo amico Potterino ti ha mandato qui perché non ha il coraggio di venire di persona, eh? — sputo, acida. — Non ha gli attributi per affrontarmi?
Non volevo dirlo. Non so nemmeno come mi sia uscito.
Me ne pento.
Ho paura.
Sto diventando come Petunia.
Tira di scatto il bastone verso il basso, in posizione d'attacco, e io indietreggio.
— Sappi che non me ne importa nulla delle regole, Evans. Perciò, ti basti sapere che c'è una condizione secondo la quale, tantomeno, me ne sbatto anche del "le donne non si toccano". — sibila, mentre le sue parole riecheggiano nel silenzio.
Black stringe gli occhi, il cui colore tempestoso rende il suo sguardo ancora più intimidatorio. — Prova anche solo a fare di nuovo del male a James e te ne pentirai amaramente. Te ne darò di santa ragione anche alla babbana, se necessario.
Poi aggiunge: — James probabilmente sarebbe contrario a questo, però lui non è qui, e questa cosa rimarrà tra te e me, dico bene?
Annuisco, impaurita.
— Bene così. — completa, rilassandosi.
— Non userai il bastone proprio oggi, vero? — squittisco. Lui ride: — No, per oggi no.
Poi il suo sguardo diventa di nuovo minaccioso.
— Infatti, questo era solo un'avvertimento. — sibila, e mi pare di sentire un ringhio provenire dalla sua gola. — Ma può finire male per te se non rispetti questo accordo.
Mentre se ne sta per andare, un pensiero mi invade la mente. Perché dovrei avere paura? Sarà anche vero che Black è fisicamente più forte di me, ma negli incantesimi non mi batte.
Il mio spirito da Grifondoro inizia a ruggire, bisognoso di giustizia.
— Black, aspetta un secondo.
Lui si gira, confuso.
— Ti abbassi al livello dei Serpeverde - quelli cattivi -, quindi? — chiedo, stringendo gli occhi a due fessure. — Minacci la gente?
Per un secondo, vedo lo stupore nei suoi occhi. La confusione. Il mio stesso sguardo, quello del "Sto diventando come questa persona?". Poi ritorna il fuoco. — Certo che no. Non sia mai. Io difendo un mio amico, loro lo fanno perché si divertono.
— Perché appendere uno studente per le mutande in cima a un albero è un'azione difensiva, certo. — replico, con rabbia. Io non dimentico. — Loro lo fanno per se stessi, Black. È sempre difesa, ma di se stessi. E tu? Cos'hai tu di diverso?
Resta in silenzio, girandosi di schiena. — Potter è perfettamente capace di difendersi, Black. Me lo venga a dire in faccia ciò che pensa. Non ha bisogno di una tata che prenda le sue posizioni. — scandisco, freddamente. — Perché so che ti ha mandato lui, anche se forse non si aspettava che tu ti presentassi con un bastone.
Silenzio.
— Quindi a te pare giusto urlare in faccia a una persona che ti voleva solo aiutare, vero Evans? — dice Black, ancora girato, colpendo un nervo scoperto. Ciò che ha appena detto rispecchia esattamente ciò che ho pensato io negli ultimi tempi.
No, non mi sembra giusto.
Forse è per questo che mi sentivo costantemente in colpa, anche se lo negavo.
Forse, alla fine, ero io quella che evitava Potter; forse eravamo entrambi quelli che si evitavano.
— Una persona che non ha fatto che altro che strisciarti dietro negli ultimi cinque o sei anni, solamente per avere un appuntamento con te? — continua il moro. — Nemmeno i Medimaghi più prestigiosi fanno aspettare così tanto per un incontro.
— Potrò pure avere il diritto di rifiutare. — sussurro, neutra.
— Ma non hai il diritto di umiliare, Evans. — mi risponde Black, voltandosi a guardarmi in faccia. — So che magari era un po' insistente, ma ti amava. Davvero. E tu non hai fatto altro che trattarlo come una pezza da piedi. Forse anche tu hai un'indole da Serpeverde, che dici?
— Impara a tener conto anche dei sentimenti altrui, rossa, e forse allora potrai capire ciò che ha passato James. — dice, completando il discorso.
Detto questo se ne va, lasciandomi lì da sola, come un pesce lesso.
Perciò me ne vado anch'io, con una valanga di pensieri che mi soffocherà, a breve.
Mi dispiace.
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