43. Broken

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Lacrime da bere; M.E.R.L.O.T.

La palestra dei Serpents era gremita e gli spalti tremavano a causa del tifo. I giocatori non erano ancora entrati, ma io e Caroline eravamo già piene d'ansia e intente a sgranocchiare dei pop corn appena comprati.

La mia amica era così contenta di partecipare agli eventi sportivi scolastici che non potevo non condividere il suo entusiasmo.

Alla fine, avevo ceduto e indossato la maglia con il numero sessantasette, proprio come aveva richiesto Blake.

Forse un po' mi sentivo ridicola, ma sentivo il calore del suo corpo addosso.

Caroline, invece, non aveva dato quella soddisfazione a mio fratello e portava una semplice maglia verde pistacchio che le lasciava scoperto l'ombelico.

«Credi che Blake si monterà la testa?» domandai, indicando con un gesto della mano la maglietta verde, che ancora emanava il suo profumo.

Lo ammetto: non l'avevo ancora lavata e, per un motivo a me sconosciuto, l'avevo infilata nel borsone per il viaggio.

Mi sentivo stupida? Fin troppo. Ma navigare nell'odore di Blake mi faceva sentire totalmente su un altro pianeta abitato solo da me e lui. Un pianeta dove noi due non ci odiavamo e dove Victor, Vincent e mio padre, o anche solo il loro pensiero, erano del tutto assenti.

«Penso che se la sia già montata da un pezzo.» Scosse le spalle.

«Ieri sera... se n'è andato» le confessai a bassa voce.

Alcuni studenti della nostra scuola erano partiti quella mattina stessa per assistere alla partita in trasferta, quindi non volevo farmi sentire e diffondere il pettegolezzo per la settimana successiva.

Spiegai brevemente a Caroline l'accaduto e, stranamente, non mi sentii giudicata.

Le raccontai ogni dettaglio, a partire dallo scatto d'ira di Blake fino al mio sogno erotico.

Nel sentire di quest'ultimo, Caroline sgranò gli occhi e mi prese la mano, stringendola forte.

Fu in quell'istante che i Gators varcarono la porta della palestra.

E notai mio fratello per primo.

Blake, la sua fascia da capitano, il suo numero che portavo sulla schiena, passarono assolutamente in secondo piano.

Victor aveva un occhio nero e l'aria incazzata. Il suo sguardo furibondo era rivolto al capitano, che invece presentava un sorrisetto arrogante.

Non volevo crederci.

Non potevo crederci.

Aveva picchiato Victor.

Senza pronunciare una parole, iniziai a sgomitare tra la folla per uscire.

Mi sentivo soffocare.

Gli occhi di Blake guizzarono su di me, lo sentivo bruciarmi sulla schiena.

«Cenerentola

E sapevo che era per forza lui a chiamarmi a causa di quel soprannome. E non capivo come gli fosse venuto in mente di picchiare Victor e di chiamarmi in mezzo a tutta quella gente: saremmo stati al centro di stupidi pettegolezzi.

In ogni caso, lo ignorai, proseguendo per la mia strada fuori da quella maledetta palestra.

Avevo bisogno di un po' d'aria fresca e, forse, sarei rientrata. Ma avevo dubbi.

Mi ritrovai sola seduta su un muretto.

Il parcheggio era deserto e l'unico rumore che percepivo era il mio respiro affannoso.

Blake non mi seguì. D'altronde, aveva una partita da giocare e io non potevo essere una distrazione.

Volevo togliermi la sua maglia che iniziava a pizzicarmi la pelle, ma non potevo di certo rimanere solo con il reggiseno.

Caroline uscii e si sedette vicino a me.

«Possiamo scambiarci la maglia?»

Lei si guardò intorno e sfilò il top senza farsi problemi.

Sarebbe potuto arrivare chiunque, ma a lei non sembrava importare.

Decisi di voler essere un po' più come lei, così levai la divisa di Blake e gliela passai.

La sua maglia era corta e mi lasciava scoperto il ventre, ma non me ne curai: mi sentivo decisamente meglio dopo aver allontanato da me il profumo di Blake, anche se era rimasto impresso sulla mia pelle.

Caroline rimase in silenzio accanto a me, come se non le importasse della partita.

«Stanotte non ho fatto nulla con Victor, te lo giuro.»

Scossi la testa. «Non importa.»

Sospirò. «L'ho costretto a giocare a Just Dance per tutta la notte... e ti stupirà, ma non si è fermato un secondo.»

Ridemmo insieme. Pensare a mio fratello ballare era divertente.

«Abbiamo parlato. E sembra accettare il fatto che non farò sesso con lui.»

Un piccolo sorriso le solcò il viso, e non potei fare a meno di imitarla.

«Non ce l'ho con te» mentii.

Non era del tutto una bugia, a dire il vero: una parte di me era arrabbiata, o più che altro delusa, ma d'altro canto non mi importava.

«Blake mi ha detto che ci sei rimasta male e mi sono sentita uno schifo, davvero. Scusami Blue: dovevo stare con te e ti ho lasciata a dormire con quell'idiota di mio cugino, facendo arrabbiare i gemelli.»

Le dissi che non importava, che potevamo fingere che quella notte non ci fosse stata.

«Senti Blue...» cominciò. «Non farti abbindolare da Blake. Lui ci tiene a te ma ti ferirà inevitabilmente. È rotto. In un milione di pezzi.»

Aveva ragione e io lo sapevo. Gli erano morti i genitori. O forse era una descrizione banale. Suo padre ci aveva impiegato anni a morire, una lenta agonia che aveva coinvolto anche Blake e Sylvie, e quest'ultima si era suicidata. E Blake aveva trovato i corpi, con cui aveva dovuto condividere la barca per ore prima di poter ricevere aiuto.

Era un ragazzo spezzato.

Ma quegli occhi verdi mi davano una speranza sconosciuta, la speranza di tornare viva.

Nella tasca dei jeans tenevo la metà di quella foto che avevo trovato giorni prima nella sua stanza e la accarezzai con il polpastrello. La portavo ovunque con me, nella speranza che, prima o poi, l'avremmo aggiustata. Una speranza vana, finta, proprio come quella che mi davano gli occhi di Blake.

Nonostante fossimo fuori, riuscivamo comunque a sentire i tifosi gridare.

Ma non rientrammo.

Ero arrabbiata con Blake e non avevo affatto voglia di vederlo giocare e, sopratutto, di fare il tifo per lui.

Lo odiavo più che mai.

Mi aveva ferita in passato e cercava di essere mio amico, nonostante tutto; ma toccare i miei fratelli non era di certo tra le opzioni consentite da quella pseudo-amicizia che, in realtà, nessuno dei due voleva e che, soprattutto, ci feriva soltanto.

Non riuscivo a togliermi dalla testa l'immagine del volto tumefatto di Victor.

Cosa poteva capirne Blake del nostro rapporto? Come osava intromettersi?

Victor, così come mio padre e Vincent, aveva dei modi diversi dalla norma, ma non per questo si meritava un occhio nero.

E poi finii a pensare a tutte quelle volte in cui io non ero potuta uscire a causa dei lividi sul volto.

Deglutii rumorosamente, rimandando indietro le lacrime.

Non importava. Io meritavo le mie punizioni. Victor no.

Mi ripetei quella fino al suono della fine dell'ultimo tempo. Memorizzai ancora e ancora quella regola.

Dai cori che accompagnavano i tifosi che si riversarono fuori dalla palestra, capimmo di aver perso. I Gators erano stati sconfitti senza pietà.

«Come fa Davis a essere il capitano? Fa schifo!» esclamò un ragazzo passandomi davanti.

Ignorai i commenti degli altri.

Non capivo cosa stessero dicendo. Avevo visto innumerevoli volte Blake giocare e sapevo che era un vero campione.

Aspettammo che uscissero. Avrei dovuto vedere Blake e non mi andava affatto, ma non potevo far altro che affrontare la situazione.

Blake e Victor uscirono fianco a fianco, le espressioni deluse e la rabbia sembrava essere svanita dal volto di mio fratello, così come l'arroganza da quella di Blake.

Mi avvicinai di corsa a Victor per ispezionare il suo occhio.

Mi tranquillizzò sottovoce mentre lo tenevo per il mento.

Poi mi attirò contro il suo petto, abbracciandomi.

Durante quel contatto sentii gli occhi di Blake bruciarmi addosso come un incendio che mi divampò dentro.

Mezz'ora dopo l'autobus sarebbe partito per riportarci a casa e non vedevo l'ora di trascorrere qualche ora senza vederlo.

Insieme a Victor, che tenne il braccio posato sulla mia spalla per non perdermi tra la folla, mi diressi verso l'autobus.

«Perché hai tu la mia maglia?» sentii dire da Blake, dietro di noi. «Perché sei un coglione e Blue è arrabbiata con te» sibilò la mia amica.

«Pensa che io, per colpa sua, ho perso una cazzo di partita» borbottò.

Serrai la mascella. Volevo voltarmi e dargli uno schiaffo, ma non gli avrei dato l'ennesima soddisfazione.

Caricai il borsone e feci per salire.

«Non capisco perché tu ce l'abbia con me» disse Blake dopo avermi tirata indietro, allontanandomi dai suoi compagni di squadra e dalle cheerleader.

«Hai picchiato tu Victor?»

Annuì senza la minima esitazione o vergogna. «Ti sei appena risposto.»

Mi prese la mano quando riprovai a scappare.

«Ti ha fatto del male e lo sai.»
«Tu non sai niente! Fatti gli affari tuoi e stai lontano da me, ora e per sempre.»

Finalmente, mi fece andare via.

Durante il viaggio di ritorno mi sedetti accanto a Victor, che mi permise di dormire sulla sua spalla.

Blake restò a distanza di sicurezza accanto a sua cugina.

E io lo odiai con ogni fibra del mio essere.

Aveva ragione Caroline: lui era rotto, lo eravamo entrambi, e non ci saremmo mai potuti riaggiustare a vicenda.

Buongiorno a tutti, come state?
È stata una settimana molto difficile: sabato sera ho avuto un piccolo incidente e quindi ho avuto dolori e problemi per tutti gli scorsi giorni, ma non potevo assolutamente lasciarvi senza questo capitolo.
So che molti di voi in questo momento staranno amando Blake (diciamocelo, ha fatto bene), ma per capire davvero questo capitolo dovete immergervi completamente: sentitevi Blue per qualche istante e solo così potrete capire cosa pensa lei della situazione. Sappiamo tutti che i suoi pensieri sono tossici e malati, ma solo entrando in lei riuscirete a capire la vera essenza della storia.
Bene, ora vi lascio. Come al solito, spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi chiedo, se vi va, di lasciare una stellina e un commento. Spero tanto che la storia di Blue e Blake vi stia entrando nel cuore, che vi venga voglia di parlarne con altri e che aspettiate i capitoli con ansia come faccio io (sì, lo so, sono un po' pazza, ma che ci volete fare?).
Vi mando un grosso abbraccio, ci risentiamo il prossimo sabato!

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