27. New Blue
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I Did Something Bad; Taylor Swift.
Nel corridoio mi scontrai contro Caroline e quasi cademmo come due patate lesse.
Non le raccontai di quanto appena successo tra me e Blake, ma le dissi di fare tutto lei di soppiatto, poiché suo cugino era sotto la doccia.
La aspettai nella sua stanza, seduta in mezzo al letto, stringendo tra le dita quel pezzo di carta strappato, che nascosi prontamente non appena udii i passi della mia amica, che entrò ridendo e si buttò accanto a me.
«Cazzo! Caroline!» Sentimmo urlare pochi minuti dopo.
Blake raggiunse la camera della cugina ed entrò.
Indossava solo un paio di pantaloncini neri: il busto scoperto mi fece deglutire rumorosamente. Gli addominali scolpiti erano ornati da una serie di tatuaggi che lo rendevano solo più attraente.
Mi obbligai a distogliere lo sguardo, fissandomi sul pavimento. Non volevo che pensasse che avesse potere su di me, o che lo avesse quel suo fisico da idiota palestrato.
I due cugini litigarono a lungo, Caroline lo derise e mi scappò qualche risatina, che cercai di dissimulare perché temevo che Blake si arrabbiasse con me.
«Lo so che è stata tua l'idea, Cenerentola.»
«Ti sbagli.»
Caroline lo spintonò fuori, chiudendogli la porta in faccia.
«Che ti va di fare?» domandò, passandomi un lecca-lecca alla fragola nascosto nel comodino. «Se ti proponessi una pazzia accetteresti?»
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La mattina seguente tornai a casa con aria soddisfatta e mi misi subito a preparare il pranzo, poiché mio padre sarebbe tornato e, con un messaggio a Vincent, aveva richiesto un pranzo di famiglia.
Così, mi ero trovata a cucinare il pollo al forno, il suo piatto preferito, e a vestirmi carina per lui.
«Che cazzo hai fatto?» sbraitò non appena varcò la soglia, mentre io ero intenta ad apparecchiare. Immediatamente i miei fratelli, che ancora non mi avevano vista, accorsero.
I loro occhi stupiti mi fecero vacillare per un secondo.
Mio padre mi si avvicinò con cautela e sentii che non sarei andata a scuola, la settimana dopo. Sapevo che mi avrebbe colpita talmente forte da non farmi più camminare.
Dentro di me tremai, ma fuori rimasi imperturbabile, proprio come piaceva a lui.
I suoi occhi divennero una tempesta di ghiaccio pronta ad abbattersi furiosamente su di me e, in quella stupida storia, io non ero altro che una debole fogliolina spazzata via dalla sua furia.
Mi diede uno schiaffo che mi fece voltare il viso.
Aspettai l'altro colpo, sapevo di dover essere paziente: mio padre adorava l'attesa snervante perché sapeva che aumentava la paura.
Mi accarezzò la guancia appena colpita e mi preparai al dolore che sarebbe seguito.
Afferrò una ciocca dei miei lunghi capelli, rigirandosela tra le dita.
«Ora non somigli più a quella troia di tua madre» disse contento, baciandomi la fronte.
Senza aggiungere altro, si dileguò, intimandoci di chiamarlo a pranzo servito.
«Sei impazzita?» mi domandò Vincent, avvicinandosi a me.
Feci spallucce, «Mi ero stufata» mi giustificai semplicemente.
Fu Victor a parlare. «Tu volevi solo assomigliare a una delle troie di Blake Davis.»
Aveva la mascella serrata quando mi si avvicinò e mi mollò un altro schiaffo, sulla guancia ancora illesa.
Mi afferrò per i capelli, ormai scuri e non più biondi, e mi sbatté la faccia sul tavolo, facendo vibrare i piatti. Addirittura uno cadde e si frantumò.
Il rumore mi fece sobbalzare di paura, ma forse la cosa che temevo di più era la mano di Victor premuta contro la mia nuca: non sapevo quali fossero le sue intenzioni perché mio fratello era assolutamente imprevedibile.
«Vic, lei odia Blake. Non penso l'abbia fatto per quello» disse Vincent, prendendo il braccio del suo gemello che, allora, si decise a mollare la presa, permettendomi di tornare dritta.
«Volevo solo che smettesse di odiarmi» ammisi con un cenno del capo verso la direzione in cui nostro padre era da poco sparito.
Victor mi prese per il collo, incurante del fatto che mi stesse facendo male. «Cosa ti sfugge del concetto "Tu fai quello che diciamo noi"?»
Abbassai lo sguardo, i suoi occhi blu erano affilati come due lame e mi sentii troppo impotente sotto di lui.
La testa iniziò a girarmi e l'aria a mancarmi.
Ero impotente. Stavo morendo.
Come potevo anche solo aver pensato di mettere una buona parola per lui con Caroline?
Victor era un bruto, non si meritava di certo la dolcezza della mia amica.
Vincent rimase a guardare la scena a braccia conserte; sapeva che mi meritavo di essere punita e che non avrebbe potuto farci nulla.
La sua negligenza spesso era la peggior punizione. Non avevo mai nessuno dalla mia parte, qualcuno pronto a difendermi.
«Mi dispiace» annaspai. L'ossigeno stava decisamente finendo. Mi divincolai, ma la presa di Victor non si allentò. sembrava una scultura di granito... Era pronto ad uccidermi.
Pensai a quale volevo che fosse il mio ultimo pensiero prima di morire e, nonostante volessi figurarmi mia madre, pensai a Blake e alla foto nel suo portafogli.
Ma non morii. Qualcuno decise che per me non era giunta l'ora.
Il campanello suonò e Victor mollò la presa, permettendomi di riprendere fiato.
E, forse, avrei preferito morire. Blake entrò in cucina e la prima cosa che guardò fui proprio io... anzi, i miei capelli.
Mi voltai d'istinto e corsi via.
E, dopo essermi rinchiusa in bagno, capii che avevo fatto bene. I segni delle mani di Victor campeggiavano sul mio collo, troppo rossi e evidenti per non essere notati, soprattutto se si trattava di Blake che, ormai l'avevo capito, era un osservatore acuto.
I capelli scuri mi fecero rabbrividire.
La pazzia fatta con Caroline la sera prima era stata quella di colorarmi i capelli, ovviamente non in modo permanente. Il colore se ne sarebbe andato, prima o poi, ma, a detta della mia amica, sarebbe durato a lungo.
La verità è che amavo somigliare alla mamma e, nonostante mi fossero rimasti i suoi occhi color del mare, il naso sottile e i lineamenti dolci in generale, la mancanza dei capelli biondi mi faceva sentire diversa.
Una nuova Blue.
Sospirai e tastai il collo dolente con i polpastrelli, ma, non appena sfiorai i segni che stavano diventando violacei, ritrassi subito la mano per il dolore.
Qualcuno bussò alla porta, «Sono Vince.»
Allora aprii.
«Tieni.» Mi passò la busta in cui tenevo i trucchi per le emergenze e capii che Blake non se ne sarebbe andato via tanto in fretta, dunque dovevo impegnarmi al massimo per coprire le dita che campeggiavano sul mio collo.
Uscii solo quando fui certa che il numero sessantasette non avrebbe notato nulla.
Li trovai seduti a tavola in compagnia di mio padre, che teneva davanti a sé la bottiglia di vino rosso già a metà e, nel sentire la sua forte risata, capii che era ubriaco.
Mi sedetti vicino a Vincent, che aveva già riempito il mio piatto, ed evitai di incrociare lo sguardo con i miei commensali: mio padre avrebbe fatto qualche battuta spiacevole, Blake avrebbe indagato su di me e Victor mi faceva paura.
Sparecchiai in totale silenzio dopo che mio padre se n'era andato per una partita a poker a casa di un amico.
Il collo mi faceva a dir poco male e, di tanto in tanto, percepivo ancora la morsa di Victor; ma Blake era ancora in casa nostra, quindi non mi permisi di versare neanche una lacrima, con la paura che potesse in qualche modo sciogliere il trucco e far saltare la mia copertura.
Qualcuno si schiarì la gola alle mie spalle, facendomi sobbalzare e voltare di scatto; Blake era appoggiato allo stipite della porta, le braccia incrociate.
I muscoli tesi dei bicipiti guizzarono quando strinse la presa attorno al suo corpo.
«I tuoi capelli...» mormorò, avvicinandosi a me con un passo.
Lasciò andare le braccia lungo i fianchi e notai un piccolo tatuaggio che gli macchiava l'avambraccio.
I still resist.
Soffermai lo sguardo lì. «Cosa significa?»
Blake sospirò, «Che, nonostante tutto, sono ancora qua» rispose, senza distogliere lo sguardo da me.
«Ne hai tanti?» chiesi, indicando il tatuaggio e ricordando che, durante la sfilata, avevo notato il suo corpo dipinto.
«Ti ho chiesto dei tuoi capelli.... Non dovremmo parlarne?»
Trattenni il fiato. Per un po' volevo davvero dimenticare l'errore commesso, di cui in realtà non mi pentivo; ma se pensavo ai miei capelli ormai scuri pensavo a quel senso di soffocamento provocato da mio fratello e volevo rimuovere quell'immagine.
«Vuoi vederli?» disse, dopo aver compreso che no, non avremmo affrontato il discorso sui miei capelli.
Boccheggiai leggermente ma, senza darmi il tempo di replicare, Blake si sfilò la maglietta e rimase a petto nudo davanti a me.
Eravamo distanti, eppure mi sembrò di percepire il calore della sua pelle sulla mia.
O, forse, calore era riduttivo: sentivo il fuoco che gli divampava dentro pronto a bruciarmi.
I nostri occhi si incrociarono e riuscii a vedere quelle fiamme nei suoi.
Abbandonò la t-shirt sul bancone e si avvicinò a me.
«Perché il sessantasette?»
«È il numero della mia maglia... e la data di nascita di mia madre: il sei luglio.»
Osservai quel numero che stava precisamente sul suo cuore e, poco sotto, un bellissimo scorcio di una foresta con dietro una montagna enorme e delle stelle ad adornare il tutto.
«Sylvie» sussurrò, non appena capì dove si era spostata la mia attenzione.
«Le montagne rappresentano una protezione... rappresentano me, ma ho fallito.»
Deglutì rumorosamente, arrivando a guardare poco sopra l'elastico dei suoi pantaloni. «Quello è un demone» dissi prima che potesse precedermi. «Rappresenta tutti i miei tormenti.»
Poco distante, leggermente a sinistra, una piccola onda. «Mare in tempesta, per non scordare mai il mio viaggio.»
Rimanemmo lì, forse troppo vicini, a parlare a bassa voce dei suoi tatuaggi: mi spiegò il significato di tutti quelli non comprensibili a vista.
Ne aveva altri cosparsi sul torace, alcuni sulle spalle e sulla schiena e altre tre sul braccio.
Il corso di Blake era la tela di un artista.
Ognuno aveva un significato di forza, dolore e resilienza... ma anche di amore.
Mi sentii improvvisamente attaccata in maniera irreversibile a Blake, perché noi due condividevamo tante, troppe cose.
«Ne hai altri?» chiesi in un soffio dopo che terminò di spiegarmi cosa volesse dire il maori che gli adornava il bicipite destro.
I nostri occhi si scontrarono con violenza. Blake annuì, ma con la bocca disse di no, lasciandomi a dir poco confusa.
Infilò di nuovo la maglietta e, poco dopo, iniziò a slacciarsi i jeans.
«Ma che cazzo fai!» sbraitai, incurante del fatto che i miei fratelli avrebbero potuto sentirci.
«Ti mostro il tatuaggio di cui più mi pento.»
Abbassò i jeans e, subito dopo, anche l'orlo dei boxer, stando attento a non farmi vedere niente di sconcertante.
Sul fianco, nascosto dai pantaloni e quindi sempre invisibile, campeggiava un tatuaggio grande quanto una mela.
Un occhio.
Un occhio blu.
«Ero ubriaco quando l'ho fatto» spiegò.
«Sono... sono io?» Blake annuì. «È una foto di anni fa... ma i tuoi occhi sono sempre gli stessi, seppur spenti e tristi.»
Gli stessi occhi di cui stavamo parlando si riempirono di lacrime e le gambe rischiarono di cedermi.
Mi guardò, i suoi occhi mi trafissero. «È stato il mio primo tatuaggio in assoluto... dopo ho iniziato a riempirmi, ma la maggior parte li ho fatti dopo la morte dei miei genitori» spiegò.
«Io e i miei nonni siamo stati un po' nel Wisconsin, dove abitavano loro, e lì ho fatto amicizia con Greg, un tatuatore.»
Mi allontanai di scatto da lui, rendendomi conto che eravamo davvero troppo vicini. Ci stavamo lasciando andare e non era giusto... noi due ci odiavamo.
Non contavano i sensi di colpa di Blake ho il fatto che si fosse tatuato qualcosa di mio... contava che mi aveva ferito e che continuava a farlo imperterrito.
Buongiorno a tutti!
Sabato vuol dire nuovo capitolo, quindi eccoci qui! Cosa ne pensate?
Spero che il vostro weekend stia andando e continui ad andare per il meglio.
Vi abbraccio e ci risentiamo al prossimo capitolo❤️
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