12. Red
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Stay Away; Mod Sun ft. Goody Grace e Machine Gun Kelly.
Mi riaccompagnò a casa e arrivammo allo scoccare delle dieci e, prima che potessi sporgermi a salutarlo con un innocente bacio sulla guancia, superando il mio blocco, la mia portiera si aprì.
«Tempo scaduto, Cenerentola. La carrozza si sta trasformando in zucca... o forse lo è già» disse ironico.
Riservai uno sguardo dispiaciuto a George, che mi rivolse un sorriso semplice e mi fece cenno di scendere. Non volevo metterlo nei casini, sapevo che aveva paura di Blake e decisi di stare al gioco di quest'ultimo e scendere dall'auto, salutando George con un semplice cenno della mano.
«I miei fratelli non si staranno chiedendo dove sei?» dissi, non appena la macchina si allontanò da noi. «Ho inventato una scusa, solo per te.» Mi fece l'occhiolino.
Lo sorpassai fino ad arrivare davanti al portone, in cerca delle chiavi nella borsetta nera.
Sfortunatamente sentii i suoi passi seguirmi.
«Che vuoi Blake?» chiesi, infilando la chiave nella toppa. «I tuoi fratelli ti uccideranno se lo scoprono... e uccideranno lui.» Sbuffai. «E se fossi stufa di farmi dire sempre cosa fare?»
Lui sospirò e lo udii tirare fuori le sigarette dalla tasca. «Perché mi stai attorno Blake?»
All'inizio non rispose, dunque aprii la porta pronta ad entrare e lasciarlo lì.
«Me l'hanno chiesto i tuoi fratelli» confessò. Sgranai gli occhi e mi voltai per guardarlo.
Per la prima volta dopo quattro anni i nostri occhi si scontrarono. Mi guardava inespressivo, ma le sue iridi verdi mi scavano dentro.
Sentii la rabbia bruciare in me come un fuoco.
«Stammi lontano» ordinai, acciuffando la borsa prima che mi cadesse a terra. «Mi hanno chiesto di tenert-»
Lo interruppi avanzando verso di lui, ci ritrovammo improvvisamente vicini in una maniera pericolosa.
«Tu non sai niente!» sbottai. «Sei proprio come loro» mormorai infine.
Lo vidi allungare la mano, come per prendermi prima che potessi scappare. «Non osare toccarmi» sibilai.
«Ti stai facendo usare solo perché mi hanno vista piangere come una disperata quando te ne sei andato, solo perché ho sperato che tornassi per tutti questi anni e loro lo sapevano!»
Blake sospirò e buttò la sigaretta ancora a metà nel posacenere che si trovava a pochi centimetri da lui. «Hai pianto per me?»
Sbuffai, «Vuoi sentirti dire di sì solo per ingigantire il tuo ego del cazzo?»
Indietreggiai fin quando le mie spalle non si trovarono contro la porta. Desiderai di essere chiusa a chiave nella mia stanza, dove mi sarei potuta sciogliere in lacrime come avevo fatto per un lungo tempo a causa di Blake.
«D'ora in poi mi devi stare lontano» sentenziai. «Blue...» Scossi la testa, «Sono stanca di farmi prendere in giro da te, Blake.»
Il suo nome sulla mia bocca lo fece tremare; le sue pupille si dilatarono e io trattenni il fiato per non so quale motivo.
«Non era mia intenzione ferirti.» Scoppiai a ridere, «Falla finita. Ogni volta fai le cose "non pensando di ferirmi", eppure lo fai sempre. L'hai fatto anche anni fa e ogni volta ti comporti di nuovo da stronzo, i tuoi comportamenti a me non stanno bene... non più.»
Si accese un'altra sigaretta e aspirò guardandomi dritto negli occhi con aria strafottente.
«Le cose che faccio non le faccio perché stiano bene a te.» Roteai gli occhi, «Non voglio che tu faccia niente per me. Ti chiedo solo un favore: stammi alla larga.»
Mi passò la sua sigaretta, ma io la guardai impassibile in attesa che ritirasse la mano.
Avevo davvero intenzione di fingere che non esistesse e quel gesto era solo l'inizio.
«Perché non puoi solo fregartene?» chiese.
«Perché ti odio, ti odio con tutta me stessa da quattro lunghi anni e sai cosa? Ti meriti la totale indifferenza.»
«Tu non sei capace né di odiarmi né di essere indifferente nei miei confronti.»
Non aspettai oltre, entrai in casa e gli sbattei la porta in faccia.
Non mi aspettavo che bussasse o provasse a richiamare la mia attenzione, infatti non lo fece.
Rimasi lì per qualche minuto, fin quando non sentii i suoi passi allontanarsi. Allora mi concessi di piangere perché, di nuovo, mi aveva presa in giro.
Non mi crogiolai troppo, mi misi a dormire e scrissi un messaggio a George.
Domattina ci vediamo in biblioteca durante l'intervallo?
Ero arrabbiata con Blake, ma anche con i miei fratelli.
Volevo uscire dalla gabbia e volare con le mie ali, senza avere sempre qualcuno a farmi la guardia. Ero incapace di vivere da sola?
Mi stesi nel letto e mi chiesi cosa avessi fatto di così sbagliato per meritarmi una vita del genere.
Volevo solo essere una ragazza normale.
Le lacrime inumidirono il cuscino.
Il silenzio inondava la casa. Lo amavo. Amavo non sentire parlare i miei fratelli o mio padre, stare da sola.
A molti fa paura la solitudine, ma a me no... io la desideravo ardentemente con ogni fibra del mio corpo.
Volevo andarmene, scappare lontano e rifarmi una vita. Non essere più Blue Williams, la sorella di Vincent e Victor dal quale tenersi alla larga. Volevo che le persone non mi temessero solo per i miei fratelli, ma che mi parlassero e basta.
Volevo correre via. E correre. Correre. Correre.
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Al mio risveglio, mi ritrovai aggrovigliata tra le lenzuola. Impiegai un po' a sciogliermi da quell'incastro, successivamente scrissi a Caroline che sarei andata a scuola con i miei fratelli, poiché ero in ritardo per andare con lei.
Era una bugia, ovviamente. Non me la sentivo ancora di vederla e avevo bisogno di camminare un po' per schiarirmi le idee.
Indossai una felpa grigia e dei jeans scuri, poi applicai un burrocacao che mi lasciò le labbra arrossate.
Scesi le scale e andai in cucina per prendere un caffè, visto che i miei fratelli non c'erano, probabilmente erano rimasti da Joy, e, per fortuna, non avrei dovuto pulire.
Sobbalzai quando trovai mio padre in cucina, con il completo indosso intento a sorseggiare il caffè leggendo il giornale. «Buongiorno» mormorai a testa bassa.
Improvvisamente la voglia di caffeina mi passò e pensai che avrei potuto prenderlo a scuola senza problemi.
Lo salutai di nuovo ma, prima che potessi uscire, lui mi richiamò.
Avanzò verso di me e io tremai visibilmente sotto i suoi occhi neri. «Cos'hai sulla bocca?» tuonò.
Non risposi, sapevo che il silenzio era la cosa migliore.
Prese un tovagliolo e mi afferrò il mento con poca delicatezza. Strofinò la carta sulle mie labbra più volte, fin quando non mi bruciarono esageratamente, fin quando non sentii il sapore del sangue solleticarmi la lingua.
Una lacrima solitaria scese sul mio viso, ma strizzai gli occhi per trattenere le altre.
«Questo ti sembra il modo di andare a scuola?» Scossi il capo e farfugliai delle scuse scomposte, confusa e con le labbra doloranti.
La sua mano presto mi colpì in pieno volto, facendomi voltare la testa.
Non emisi un lamento, nonostante l'anello che portava all'anulare mi avesse fatto un male cane.
Non era la fede nuziale. L'aveva sostituita il giorno dopo aver seppellito la mamma.
Mantenni lo sguardo basso, come avevo imparato da quando lei era morta, e aspettai il suo permesso per andare.
«Quando torni svuota tutto il mio armadio e lava tutte le camicie.» Annuii docile.
«Ho cresciuto una lurida troia» sbottò, dandomi un altro schiaffo, stavolta mi prese il naso e il sangue cominciò a sgorgare, sporcandomi i vestiti.
Me lo ero rotta un paio di volte, a causa sua, e ora era fin troppo delicato.
«Oggi niente scuola. Pulisci tutta la casa da cima a fondo e se quando torno non mi specchio sui pavimenti te la faccio pagare.»
Non risposi. La testa mi girava poiché sapevo che quando succedevano questi incidenti lui voleva che restassi ferma a guardare il sangue imbrattarmi il mento e i vestiti.
Le lacrime sfuggirono al mio controllo e colarono anch'esse, lungo le guance e poi lungo il mento. Stavo diventando liquida, iniziavo a non vederci più.
Mio padre afferrò i bordi del bancone e strinse, come per calmarsi. «Dove hai preso quella robaccia?» Restai in silenzio, «Rispondi!» urlò.
«I-io...» borbottai, con la bocca impastata da sangue e lacrime. Iniziai a tossire, mi sentivo soffocare.
Mio padre mi spinse sul pavimento, battei la testa ma non percepii alcun tipo di dolore, ormai ero del tutto atrofizzata. Il sangue cessò di uscire ma, in quel preciso istante, un calcio mi colpii nello stomaco. Un piatto volò a pochi centimetri da me e una scheggia mi graffiò la guancia, il bruciore mi pervase.
L'idea del burrocacao colorato mi costò un pugno sullo zigomo, proprio sulla ferita appena inferta. Sentivo il mio corpo cedere, non riuscivo più a muovere i muscoli, neanche per supplicarlo di smettere.
«Tu non andrai da nessuna parte. Resterai qui, con me. Non farai come quella lurida cagna di tua madre.»
Mi lasciò sola e, dopo avermi ordinato di ripulire tutto il casino che io avevo fatto, se ne andò.
Chiusi gli occhi. Era tutto scuro. Rosso.
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