C'ERA UNA VOLTA LO SPORT...

Mi dispiace, cari miei multibisnipotini del futuro, di non potervi raccontare storie affascinanti mentre siete seduti sulle mie ginocchia.
Proverò, però, a farlo lo stesso grazie a quest'opera wattpadiana nonostante la distanza temporale che ci divide.
Vi racconterò delle storie su un argomento che, probabilmente, ai vostri tempi non esiste più: lo sport.

Lo so, le gare sportive reali non hanno più senso per la vostra era: l'eccessivo sviluppo tecnologico ha mortificato l'apporto umano e l'eccessiva commercializzazione degli eventi ha dato più valore ai soldi da guadagnare piuttosto che ai valori della competizione.

Questi rovesci della medaglia hanno svuotato di contenuto proprio "l'etica della medaglia": l'importanza intrinseca della fatica per arrivare ad un obiettivo da raggiungere.

Lo sport, sia quello individuale che di gruppo, ci consegnava un messaggio fantastico: poteva esistere un vincitore pur non essendoci perdenti.

Poi arrivarono gli geni delle nuove generazioni del messaggio vincente che rovinarono l'etica sportiva...

Alla faccia dei valori sportivi!

De Coubertin chiiiii?
Cos'è? Un aperitivo?

Del resto, immagino, nel vostro tempo ormai voi vi appassionate solo ad avvenimenti virtuali.

Ma io vi avevo promesso qualche bella storiella da raccontarvi quando ancora gli sportivi erano reali.
Avete visto il video iniziale? Cominciamo dalle gare delle automobili.
C'era una volta, nel loooontano 1979, la Formula Uno.

Due scatenati ragazzi di nome Gilles Villenevue e Renè Arnoux, sulle macchine regine d'Italia e Francia - Ferrari e Renault - , lottavano epicamente nei giri finali del GP di Digione non per il primo ma per un secondo posto.

Enzo Ferrari in persona aveva scelto quel piccolo pilota canadese sconosciuto, lo aveva portato nel circus della F1 e difeso dalle critiche dopo i suoi primi incidenti ed insuccessi.

Più tardi anche Arnoux guiderà per i bolidi rossi.

Né l'uno, né l'altro saranno mai campioni del mondo.

Di più.

Saranno campioni del cuore della gente.

Nel caso di Villenevue, tra l'altro, questo obiettivo sportivo probabilmente sarebbe anche arrivato se non fosse morto, tre anni dopo, durante i giri di prova di un altro gran premio.

Il riscatto sportivo, però, gli arriverà attraverso le vittorie del figlio Jacques: campione del mondo di Formula 1 nel 1997 e vincitore della 500 Miglia di Indianapolis e del Campionato CART nel 1995.

Oggi non c'è anima in quei volanti dai mille comandi.

Non c'è improvvisazione nelle comunicazioni radio con i box.

Non c'è passione in quei circuiti in cui non si può sorpassare mai.

Quello di Gilles Villenevue, comunque, non sarà l'unico caso di grandi corridori che conquisteranno enormi schiere di fans nonostante l'assenza del massimo titolo.

Da ragazzino facevo il tifo per il due volte campione del mondo brasiliano Emerson Fittipaldi: mi aveva incuriosito la sua scelta di non guidare più per top team e passare ad una scadente Copersucar.

Tranquilli, non si tratta di una parolaccia in portoghese, ma quasi...

Era la squadra motoristica brasiliana fondata dal pilota Wilson, il fratello di Fittipaldi.

Diventai tifoso dei basettoni di Fittipaldi anche perché mio fratello lo era del suo avversario ferrarista: il baffuto Clay Regazzoni.

La mia ritrosia a fare il cacciatore di autografi, forse, mi è nata grazie a lui.
Ospite ad un evento e circondato da centinaia di ragazzi urlanti, fui mandato alla caccia di una sua firma da quello spietato di mio fratello e ne uscii con la certezza di avere ammaccature varie nel corpo e rifiuto per il culto della celebrità.

L'italo-svizzero Regazzoni era un altro non vincente che piaceva a tutti per la sua simpatia e per l'agonismo senza calcoli.

Affascinava a maggior ragione perché il suo compagno di squadra era un vincente calcolatore, Niki Lauda, che arrivò in Ferrari grazie a lui e poi lo scavalcò nelle gerarchie divenendo campione del mondo.

Qualche anno dopo, questa sorta di pilota robot senz'anima austriaco, divenne più umano per tutti nella sconfitta: ripresosi da un terribile incidente quasi mortale che lo aveva quasi bruciato vivo e sfigurato per sempre in viso, ritornò in pista dopo qualche gara per non perdere il titolo che aveva quasi ormai conquistato.

All'ultima corsa, però, venne fuori una sorta di coraggio della paura e si ritirò sotto l'acqua scrosciante, ritenendo pericolosa la corsa.
Perse il titolo, ma si dimostrò più uomo da non campione vulnerabile.

Si rifece più avanti negli anni, tornando campione del mondo con un'altra scuderia.

Lo sport regala spesso questi attimi di fiabesca folgorazione.
Si parteggia poeticamente per chi non riesce a vincere.

Quelle gare le seguivo in tv con carta e penna alla mano per segnarmi le posizioni in classifica in evoluzione, poiché lo schermo era ancora asciutto di informazioni per il telespettatore.

Altre storie?
C'era una volta il tennis, cari bimbi.

Quello in cui la racchetta era di legno e non di un fantascientifico materiale non perfettamente identificabile.

Quello in cui lo sponsor non decideva ogni minimo particolare iconico di magliette, scarpe e pantaloncini da indossare rendendo tutti i giocatori uguali.

Quello in cui non ti costringeva a farti giocare tutto l'anno come un automa per non perdere punti in classifica.

Quello in cui non si tiravano solo bombe da fondo campo, una a destra e l'altra a sinistra.

C'era una volta il ciclismo.

Uno sport in cui ancora si accettava stanchezza, crampi e sforzi muscolari, invece che concentrarsi su iniezioni per aumentare i globuli rossi o su farmaci per aumentare la massa muscolare.

C'era una volta il re degli sport: il calcio.

Non quello in cui non si insegna più il dribbling per superare l'uomo, ma quello in cui devi sempre passare la palla al compagno in un tiki taka interminabile.

Non quello del campionato spezzatino spalmato su tre giorni, ma delle partite in contemporanea.

Non quello ad uso e consumo degli sponsor e del dio denaro, ma per gli sportivi in fila per acquistare un biglietto.

Non quello in TV sette giorni su sette con i campionati della serie B dell'Uzbekistan e dell'Uganda, ma quello allo stadio una volta ogni due settimane per la propria squadra del cuore.

Mio padre, ogni tanto, mi ci portava ed essendo un rappresentante delle forze dell'ordine entravamo gratis.
Un episodio mi fece capire, in una di queste volte, il potere di dividere o unire che ha questo sport.

La squadra di casa quasi alla fine della partita non riesce ancora a segnare per vincere la partita, nonostante i tanti attacchi.
Due suoi tifosi litigano aspramente sulle cause: stanno quasi venendo alle mani, quando... gooooool.
Quelle stesse mani che stavano divenendo violente per futili motivi dialettici si trasformano nei fraterni terminali di un appassionatissimo abbraccio.

Il calcio a volte è un vero tramite di relazione nel rapporto padre/figlio.
Un pò come la danza in quello madre/figlia.

Il padre appassionato in genere non vede l'ora di avere un maschietto per infondere l'insano tifoso per una squadra e, regolarmente, il figliolo prende la strada opposta.

Successe così anche a me.
Mio padre per la Juventus ed io, non so neanche perché, per l'Inter.

Era il calcio delle bandiere: nella mia Giacinto Facchetti e Sandro Mazzola.

Comprando un libro autobiografico del baffo compresi l'importanza della storia umana al posto di quella del calciatore: la tristezza di Mazzola nel perdere troppo presto il papà campione Valentino, morto in un incidente aereo insieme a tutti i suoi compagni di squadra del Torino, e diventare a sua volta campione con il cruccio di non poter far vedere orgogliosamente la sua ascesa calcistica al padre.

Ma ogni squadra aveva il suo capitano fedele.
I Totti, i Maldini o i Del Piero di oggi sono soltanto eccezioni in un mare di denaro richiesto che si riversa sui campioni per rubarli alle squadre d'appartenenza.

Ricordo la domenica pomeriggio nella mia stanzetta con i secondi tempi di Tutto il calcio minuto per minuto con la maglietta numero 9 di Boninsegna sulla parete.

Ricordo, quasi con pudore, il pianto per la sua cessione ad una squadra avversaria.

Niente Sky, dirette tv di ogni partita e serie, approfondimenti e programmi di chiacchiere inutili: solo il Novantesimo Minuto di Paolo Valenti, i commenti e gli sfotto' del giorno dopo nei bar o nelle scuole.

- Fatti piccolo e ti porto in tribuna.

Davanti all'evidenza della natura, ad un certo punto, mio padre non riuscì più a nascondere la mia crescita.
Niente più stadio.

La domenica allora si passava per strada con gli amici a giocare, in contemporanea alla serie A, le nostre partite per strada: per pali i sacchetti dell'immondizia ancora orfani della differenziata, per campo la piazza d'asfalto con le righe bianche segnate col gesso lasciato per terra da qualcuno dopo aver rifatto il tetto di casa.

La trasferta era sfidare quelli della strada affianco.

Da ragazzo, per me, il calcio subi' la retrocessione rispetto ad altri interessi legati alle relazioni umane con l'altro sesso.

Cambiavo io, ma cambiava anche il calcio: gli interessi economici aumentavano in modo spropositato e nel paese delle meraviglie calcistiche scoprimmo che ci si poteva anche accordare per perdere.

Il calcioscommesse ebbe il demerito di tradire tutti quei ragazzini che credevano ai valori dello sport.

Questi campioni, ancora ora, hanno un potere di emulazione immenso nei loro confronti: lo si vede da come per i campetti esultano i bambini imitando i loro giocatori preferiti.


Non tutti ne approfittano nel modo giusto, tradendo lo spirito di lealtà per guadagnare un fallo o dimostrando di non saper accettare la sconfitta con proteste eccessive sul campo e lamentele indecenti davanti ai microfoni.

Del resto parliamo di uno sport che può unire improvvisamente una nazione intera grazie ad una vittoria inaspettata contro i mostruosi giocolieri brasiliani o i campioni in carica argentini rinforzati da un giovane fuoriclasse come Maradona.

Lo sport capovolge la logica e i giudizi: un allenatore come Bearzot, ad esempio, da inetta comparsa si trasforma in genio del pallone.

La vittoria mondiale dell'82 la ricordo ancora per la festa del quartiere con gli amici e una passeggiata infinita con loro verso il centro della città con addosso le magliette del risorto Paolo Pablito Rossi e di un inimitabile signore di classe come Gaetano Scirea.

Le auto festanti imprigionate nel traffico e noi, invece, a piedi con l'obiettivo di abbracciare chiunque ci venisse incontro con un tricolore in mano selezionando accuratamente, in particolare, le coetanee... L'atmosfera di gioia favoriva gli incontri tra sconosciuti.

Poi diventi adulto e il cerchio della vita pare fare un giro a 360 gradi...



Torna un nuovo scandalo che, al di là dei colori sociali coinvolti o di quelli non scoperti, manda nuovamente in frantumi l'etica di questo sport, ma tutto viene dimenticato grazie ad una nuova vittoria ai campionati del mondo.

Gli stessi vituperati protagonisti della nuova vergogna pallonara si ergono a conquistatori della coppa: il tifo per la nazionale trascende nuovamente i colori dei club.

Adesso sono i tuoi figli che ti chiedono di prendere l'automobile e imbottigliarti nel traffico. Maglia azzurra di Totti e Del Piero, bandiera dell'Italia, pentole e coperchi per divertirsi: le famiglie, per una sera, si svuotano di pensieri e pensano solo a gioire.

La nostalgia, però, ti consegna l'assist giusto per un gol della complicità: la telefonata al padre, ormai anziano, per commentare l'epica vittoria.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top