• capitolo 9 •
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Tess' pov
Il buon profumo di caffè mi dilaga le narici e il bicchiere caldo in cui è contenuto, permette alle mie dita ancora gelide un po' di pace dal freddo di oggi.
Porto il bicchiere alla bocca e lo sorseggio lentamente per far sì che io non mi bruci la lingua, e ne gusto il sapore amaro ma non troppo.
«Buongiornissimo»
Dylan arriva da me passando in mezzo alla folla di studenti e mi accoglie con la sua solita positività accompagnata da un sorriso.
Gli faccio un cenno con il capo per ricambiare il saluto mentre mi sono bruciata leggermente la lingua. Come sempre.
«Hai passato la notte in bianco?» mi chiede alludendo al mio grande bicchiere di caffè.
«In realtà ho freddo.» gli dico dopo aver fatto un altro sorso.
«Non che io abbia dormito poi così tanto.» aggiungo infine.
Si avvicina di più a me e mi ruba il bicchiere di caffè facendo in fretta un sorso, ma lo allontana subito dalle labbra.
«Brucia!»
«Ti sta bene scemo.» dico mentre rido.
Sono questi i momenti che mi piace di più trascorrere con Dylan; stupidi, che possono sembrare banali, ma che ti cambiano l'opinione generale sulla giornata da un " brutta " ad un " bella ".
«Posso farti una domanda?» mi dice timidamente lui.
Conosco ogni suo modo di fare e a che gesto è legato. Quando si racchiude tra le spalle vuol dire che è un po' in imbarazzo, ma quell'imbarazzo dovuto alla timidezza.
Annuisco prontamente e lui si schiarisce la gola.
«Tu... tu me lo diresti se ti fidanzassi qualcuno, vero?»
Vorrei ridere, è una domanda buffa, ma dal suo comportamento capisco che ci dà peso, quindi evito di farlo.
«Certo, perché non dovrei?»
«Beh sai... in realtà non lo so.» dice mentre rilassa le sue braccia e sgranchisce le ossa; non è più teso adesso.
Gli faccio un sorriso e gli dono un abbraccio che mi ricambia immediatamente.
Suona la campana che dà l'inizio alla prima ora di scuola e ci incamminiamo verso l'aula di storia, per nulla pronta a questa nuova giornata scolastica.
*
Entro in casa dopo aver passato il pomeriggio da Silvia, fuori ha già iniziato a far buio.
«Sono a casa!» urlo per farmi sentire da mia madre e Peter. Ma non c'è nessuna risposta.
M'incammino verso la camera di mia madre; magari è lì e non mi ha sentita.
Camino lentamente e con le orecchie tese, quando sento una voce bassa e potente sbraitare.
Sono sicuramente in camera.
E non mi hanno sentita perché quell'imbecille sta urlando contro mia madre.
Mi avvicino subito alla porta e non c'è nemmeno bisogno di attaccare l'orecchio alla superficie. Si sente tutto.
«Ti ho detto che non puoi scrivergli cazzo!»
«Mi ha fatto solo un complimento e ho voluto rispondergli in modo educato... tutto quí»
«Io non voglio, tu non fai, è così complicato da capire?!» la sua voce rimbomba nelle mie orecchie e trafigge il mio petto.
Apro la porta di scatto e mi avvicino verso di lui a passo veloce mentre sento mia madre singhiozzare.
«Non devi permetterti a trattarla in quel modo!» gli dico con voce alta.
«Non sto alle tue regole bambina!»
Bambina.
Questa parola non doveva dirla.
«Ragiono sicuramente meglio di te, e non dico che tu debba fare chissà cosa, ma semplicemente non urlarle in faccia impartendo ordini assurdi.»
Lo fulmino con lo sguardo.
«Non sono ordini assurdi» puntualizza scandendo ogni parola con una lentezza tale da farmi innervosire ancora di più.
«Tuo padre vi ha abbandonate, è uno stronzo, e lei non deve scrivergli!»
Sento un dolore al petto quando pronuncia la parola padre.
Non avevo pensato con chi avesse potuto scriversi mia madre. Era proprio lui.
Ma ciò non giustificava le urla di Peter.
Ma non dico nulla, aspetto che lui spari un'altra delle sue cazzate. E infatti già si prepara.
Alza le sopracciglia.
Allarga le narici.
Forma un sorriso beffardo sul volto.
«Ora che ci penso poteva portarti via con lui.»
Continua a sorridere.
Guarda mia madre.
Mia madre lo guarda con occhi distrutti.
Io sento un peso sul cuore.
Scappo via da lí.
Mia madre mi chiama.
Mi fermo e le dico di non preouccuparsi, l'avrei chiamata presto.
Apro la porta di casa ma non la chiudo.
Corro più veloce.
Gli occhi mi si sono inumiditi e mi bruciano a contatto con il vento pungente di fine ottobre.
Sento una goccia di pioggia posarsi sul naso.
Ne arrivano presto tante altre, che si confondono con le mie lacrime.
Corro non so dove, o forse in realtà lo so, ma stanno facendo tutto le mie gambe. Il mio cervello non pensa a questo, ma bensì alle parole di quel mostro e alla sua espressione mentre me le diceva. I suoi occhi brillavano di cattiveria.
Le strade sono illuminate solo dalla luce fievole dei lampioni, il cielo è totalmente coperto da un fitto strato di nuvole nere.
La pioggia cade sui miei vestiti e si intrufola sulla mia pelle.
Ho i capelli bagnati.
Potrei scivolare da un momento all'altro; le mie scarpe cambiano direzione da sole.
Sento appesentirsi il respiro e provo un dolore ai fianchi. Il solito che ci viene quando corriamo troppo.
Mi fermo piegando un po' la schiena e poggiando le mani e il peso sulle ginocchia.
Cado per terra sfinita con il fiatone a mille e gli occhi offuscati.
Mi viene da vomitare.
In questo momento in realtà, mi viene da morire.
Quel mostro ora è con mia madre e ha dato voce ai miei pensieri di quando mio padre se n'era andato: " forse era meglio che me ne fossi andata con lui ".
Per le strade non c'è anima viva. Passa solo qualche macchina, ma molto velocemente.
Sono sola, avvolta dal buio profondo e dalla tristezza che già sento che chiama il mio nome.
«Tess?!»
Ma non è la voce della tristezza.
Anzi, mi ricorda la sicurezza, la felicità.
Giro il collo in direzione della voce e la cerco con lo sguardo.
« ... Chris?!»
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