Incenso
Quando lo vidi steso in quella bara, pallido, rigido come uno stoccafisso, realizzai per la prima volta che era andato via per sempre. Avevo ricevuto quella maledetta telefonata che ero ancora a casa, seduto sul letto a leggere il libro che mi aveva regalato qualche giorno prima. I diari di Kurt Cobain. Una storia così intensa, forte, triste. Quella di Kurt. Triste come il finale della nostra. Tranciata da un colpo d'ascia improvviso. Retta dalla mano invisibile di un fato avverso. Crudele e sadico. Non c'è stato il tempo per le lacrime per me, prima del funerale. Prima dei visi affranti nella chiesa, prima delle pacche sulle spalle e gli abbracci degli amici. Prima che l'incubo si materializzasse fra l'orazione e l'odore dell'incenso. Per giorni non sono riuscito nemmeno a ricordare chi mi avesse chiamato per dirmelo. Marta me lo ha ripetuto qualche giorno fa di essere stata lei, ed era stupita che non ricordassi. Lei non sa niente, esattamente come tutto il resto del mondo. Per tutti era morto un mio amico. A casa quando hanno visto che non mangiavo, pensavano fosse uno stato temporaneo, il semplice shock per la scomparsa di un coetaneo. Il primo approccio con la morte. Quando dopo una settimana hanno dovuto costringermi a pranzare con la forza, hanno realizzato che non fosse esattamente così. Io e lui, siamo sempre molto attenti a non mostrarci troppo uniti. A non farci vedere assieme in pubblico. Come una mamma gatta fa con i suoi cuccioli, proteggevamo la nostra privacy. Molti non capivano nemmeno perché fossi così disperato. Molti pensavano addirittura che non ci conoscessimo e io stessi recitando. Che stessi sfruttando la sua morte per dimostrare che non ero poi così sfigato come la gente pensava di me, se ero suo amico. Dopo quel pasto gettato giu sotto la minaccia di farmi ricoverare in una struttura psichiatrica, i miei mi hanno fatto sedere alla poltrona dei grandi discorsi, e mi hanno tempestato di domande. A nessuno è venuto in mente nemmeno per un istante di chiedermi se ci fosse stata qualcosa in più. Se non fosse stata una relazione che andasse oltre l'amicizia, la nostra. La parola omosessualità era tabù fra le mura della nostra abitazione. Un figlio checca per mio padre sarebbe stata una sciagura. Cattolico fervente e un passato da calciatore. Ora fa l'operaio. Triste, ogni giorno torna dalla fabbrica. Ogni tanto mi capita di vederlo mentre fissa la parete bianca di fronte alla sua poltrona da re. Lì immagina come sarebbe stato il suo futuro se a vent'anni non gli fosse ceduto il ginocchio destro. Ad un passo dal provino con la Roma. Lo spirito cameratesco e omofobico degli spogliatoi, però, non lo ha mai abbandonato. Per mia madre sarebbe un dolore da non condividere con nessuno. Da celare alle amiche del coro di canto gregoriane. Da tenere stretto fra le mura di casa mentre lava i piatti o stira, lacrime da tenere per sé. Quasi ci avevo sperato che me lo chiedessero. Avevo voglia di urlarlo "sono una checca e sì, gliel'ho succhiato" "come dici papà? Una volta? Ah no, molto più di una volta", ma alla fine dovetti soffocare quell'urlo in gola. L'ho dovuto soffocare centinaia di volte, in questi mesi. Al funerale mi sedetti in fondo, sperando che non mi vedesse nessuno, ma la gente arriva in ritardo anche in funerali e tutti mi strisciavano davanti prima di arrivare ai loro posti vuoti. Mi sono dovuto sorbire pacche consolatorie che mi infastidivano soltanto. Quando quel supplizio è finito, ho visto la bara passarmi di lato. Nella mia mente sono saltato su di essa e l'ho gettata in terra, mi sono preso il suo corpo e sono scappato via. Ho dormito tutta la notte piangendo e stringendolo. Nella realtà sono stato codardo un'altra volta. L'ennesima.
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