Spezzato

L'aria mi graffia i polmoni mentre corro. Ogni respiro è una lama affilata, ogni passo più veloce dell'altro. Non sento altro che il rumore sordo del mio cuore, che tambureggia nelle orecchie, coprendo perfino il suono degli spari.
Qualcuno urla alle mie spalle di non tornare nel capannone, ma non posso fermarmi. Non ora. Non quando Evan è là dentro, ferito. Li ignoro, ignoro tutto e tutti. Sono quasi arrivata all'ingresso del capannone. Il mio sguardo cerca tra la polvere, i resti di casse spezzate, i vetri infranti. E lì, in mezzo al caos, lo vedo.

Evan è riverso a terra, un braccio disteso, l'altro piegato su di sé come a stringere qualcosa che non c'è. Il suo viso è pallido, una maschera di dolore e fatica.
Tutto in me si ferma.
Un istante fa correvo, con il fiato corto, ma ora il mondo rallenta, e c'è solo Evan. In un battito di ciglia sono in ginocchio accanto a lui, ignorando le schegge e il sangue intorno.

«Evan...», la mia voce trema, e le mani anche. Provo a fermare il sangue che esce dalla ferita al fianco, spingendo con forza. Non posso lasciarlo andare, non posso. Le dita si tingono di rosso, e lui geme, le palpebre che si sollevano appena, come se anche guardarmi richiedesse troppa energia.
«Agente... Kelley», sussurra e i suoi occhi si fissano nei miei. Uno sguardo dolce che non riesco a sopportare.

«Andrà tutto bene. Andrà bene», lo rassicuro. «Non chiudere gli occhi. Starai bene, okay?».
Lui sorride appena, un accenno, e in quell'attimo è lo stesso Evan che conosco, quello che mi tiene testa con lo sguardo, quello che non ha mai avuto paura di mostrarmi quanto tiene a me, anche quando entrambi fingevamo il contrario.
I suoi occhi sembrano quasi voler imprimere il mio viso nella sua mente: «Vattene».

Una lacrima scivola sulla mia guancia e cade sui suoi vestiti sporchi di sangue: «No. Dobbiamo uscire da qui insieme», continuo a tenere pressate le mani sulla ferita e lancio un'occhiata verso l'uscita. Devo trascinarlo fino a lì.
Afferro la sua pistola, pronta a difenderlo ad ogni costo.
Il suo respiro è un rantolo debole, ma Evan riesce a piegare un angolo delle labbra in un sorriso stanco, ironico. «Non mi ascolti... Mai», sussurra, quasi divertito, nonostante il dolore.
«Mai», rispondo. Ho il cuore che batte all'impazzata, ma la mia mente è lucida, come se un istinto antico mi stesse guidando.

Una scarica di colpi si infrange contro le casse dietro di noi, il suono secco del legno che si spacca mi riporta bruscamente alla realtà. Mi rannicchio, spingendo Evan più vicino a terra e sollevando la pistola in direzione del suono. Ho solo un attimo per agire.
Senza pensarci, afferro Evan sotto le braccia e lo sollevo, aiutandolo a mettersi a carponi, mentre i suoi gemiti strozzati mi fanno male quanto il pensiero di vederlo in questo stato.

Con un'ultima occhiata dietro le spalle, prendo fiato e comincio a trascinarlo verso l'uscita. La sua pistola pesa nella mia mano, ma la tengo stretta, puntandola verso ogni possibile minaccia. Le scarpe strisciano sul pavimento ruvido, una mano sul suo corpo, l'altra pronta a sparare.
Appena raggiungiamo la soglia del capannone, un colpo rimbomba nelle mie orecchie. È questione di un istante: il dolore esplode nella mia spalla come una lama rovente che si infila nella carne. La vista mi si annebbia, ma stringo i denti e mantengo la presa su Evan, unita solo alla furia di tenerlo al sicuro. Però lui non collabora: sviene letteralmente a pochi centimetri dalla porta, facendomi crollare insieme a lui.

Qualcuno da fuori allunga le mani per trascinarlo via e traggo un sospiro di sollievo nel vederlo lontano dal pericolo. Lontano da ulteriori proiettili, almeno.
Sto per trascinarmi fuori anch'io quando scorgo un'ombra muoversi nella mia direzione: Matthew. Mi sta puntando contro la sua arma.
Non c'è tempo per pensare. Istintivamente, alzo la pistola e premo il grilletto. Il colpo risuona in un boato ovattato, come se fosse attutito dalla distanza e dal dolore che mi attraversa la spalla. Matthew barcolla, il suo volto è una maschera di incredulità prima che un agente gli piombi addosso, bloccandolo e ammanettandolo. Per un istante, sento il sollievo travolgermi, un'ondata di adrenalina che cede il passo alla stanchezza e al dolore.
Poi tutto diventa scuro.

Quando riapro gli occhi, tutto è sfocato. La luce è bianca, accecante, e filtra tra le palpebre semiaperte, colpendo i miei occhi come aghi sottili. Ci metto qualche secondo a mettere a fuoco, il mondo sembra oscillare come se fossi su una barca alla deriva. Mi giro, e la stanza lentamente si rivela: muri bianchi, un soffitto freddo e impersonale, e un bip regolare, ipnotico, che scandisce il tempo.

Il dolore è la prima cosa che riconosco con chiarezza. La spalla brucia come se qualcuno ci avesse infilato un ferro rovente, un dolore profondo, che pulsa in sincronia con il mio respiro. Ogni movimento è una tortura, come se il mio corpo fosse stato ricomposto in modo sbagliato. Chiudo gli occhi per un attimo, tentando di raccogliere i pensieri, di capire dove mi trovo e cosa sia successo. Sento un odore pungente di disinfettante, di lenzuola sterili, e realizzo di essere in ospedale.

L'ultimo ricordo che ho è il volto di Matthew e il suono sordo dello sparo, il mio dito sul grilletto, la mia spalla che esplode in un dolore feroce e poi... Evan! Il bip delle macchine sembra accelerare in risposta al battito impazzito del mio cuore. Dov'è? Sta bene? Le immagini del capannone mi travolgono: il suo corpo riverso, il sangue che macchiava il pavimento. Stringo le coperte con forza, come se potessi aggrapparmi a loro per fermare il vortice di ansia che mi assale. La porta si apre con un leggero cigolio. Un'infermiera entra, una donna sui quarant'anni con i capelli raccolti in una coda ordinata. Ha un'espressione gentile, ma il mio sguardo è affilato, pieno di domande che non riesco a trattenere.

«Sai dov'è il signor Royden? Evan. Evan Royden», la mia voce esce fuori come un rantolo nervoso. L'infermiera si avvicina con calma, portando una cartella clinica sotto il braccio.
«Althea», mormora. «Come ti senti?»
«Evan come sta?».
Mi rivolge un sorriso che dovrebbe essere rassicurante: «Il signor Royden ha avuto diverse ferite importanti», dice. Io tremo. «Ha perso molto sangue...», continua con una lentezza che dovrebbe essere illegale. «Ma per fortuna nessun organo vitale è stato compromesso. Ha perso molto sangue, ma per il momento è stabile».

Stabile.
Stabile.
Stabile.

Provo a imprimere questa parola nella mia mente per placare il panico, ma le mie mani continuano a tremare.
«Voglio vederlo», la mia voce è ferma, quasi una supplica. «Devo vederlo»
L'infermiera esita, il suo sguardo passa dal mio viso ai monitor accanto al letto. «Temo non sia possibile. Sta ancora riposando... è sotto sedazione e ha bisogno di tranquillità»
«Per favore», insisto.
«Mi dispiace. Anche lei ha bisogno di riposo, signorina»
«Non posso riposare se prima non lo vedo», sibilo. «E se non sarà lei ad accompagnarmi, vagherò per l'ospedale fino a quando non lo avrò trovato».

Assumo l'espressione più minacciosa che riesco a fare. Anche se non so quanto io possa essere minacciosa con una flebo attaccata al braccio e una spalla totalmente immobilizzata e dolorante. Molto dolorante.
L'infermiera sospira, poi si avvicina e mi aiuta ad alzarmi. La seguo lungo un corridoio che sembra infinito, con le pareti bianche che si susseguono identiche. Ogni passo che faccio è un misto di dolore e speranza, ma non rallento finché non ci troviamo davanti ad una porta, piantonata da due miei colleghi che mi salutano con un sorriso triste. L'infermiera la apre lentamente. Il primo sguardo che ho di Evan è come un pugno nello stomaco.

È disteso sul letto, immobile, con il viso talmente pallido da sembrare quasi trasparente sotto la luce fredda della stanza. Bendaggi avvolgono il suo fianco e il braccio destro, mentre una flebo pende accanto a lui.
Il respiratore emette un sibilo regolare, che si intreccia al bip costante dei macchinari. Ogni suono sembra scandire quanto è fragile, quanto si stia aggrappando a una vita che normalmente porta con la forza di un titano. Ma ora... ora è spezzato.

Mi avvicino lentamente, le gambe che tremano sotto il peso di ciò che vedo. Ogni respiro che prendo sembra più difficile, ogni passo una lotta contro l'istinto di scappare da questa immagine che non voglio fissare nella mia mente. Mi siedo sul bordo del letto, e prendo la sua mano. È fredda. Non la mano calda che mi ha tirata su mille volte.
Le lacrime iniziano a scendere senza che me ne accorga, silenziose, pesanti. Non riesco a smettere di guardarlo.

«Evan...», la mia voce è un sussurro spezzato. Non so neanche cosa speri di ottenere dicendo il suo nome. Forse solo ricordargli che sono qui.
Sembra così fragile da sembrare un'altra persona. Non dovrebbe essere qui. Non lui. Non così. È un uomo forte, un dannato testardo che non si piega mai, che affronta tutto con quel sorriso arrogante che mi fa impazzire.
Mentre ora è indifeso, disarmato.
Mi piego in avanti, posando la fronte contro la sua mano. «Ti amo», bisbiglio. «Ti amo, Evan. Svegliati presto, ti prego».

La voce dell'infermiera interrompe il mio monologo: «Deve tornare nella sua stanza», consiglia. «Anche lei ha bisogno di riposo».
Non mi muovo di un millimetro. «Non vado da nessuna parte. Non finché non si sveglia».
L'infermiera sospira, come se sapesse già che non c'è modo di convincermi. «Va bene», dice infine, con un tono rassegnato. «Ma se ha bisogno di qualcosa, mi chiami».
Annuisco appena, il rumore dei suoi passi che si allontanano mi riporta nel silenzio della stanza. Resto ferma per un tempo indefinito, osservando il petto di Evan sollevarsi e abbassarsi lentamente, aggrappandomi a questo movimento come a un'ancora.

Dopo un tempo che sembra eterno, la porta si apre di nuovo. Stavolta è Rafael. Quando entra nella stanza, il suo aspetto mi colpisce come un pugno. Il viso è gonfio, coperto di lividi, e cammina con evidente difficoltà. Ogni passo sembra una fatica immensa, ma c'è una determinazione feroce nei suoi occhi.
«Non riuscivo a restare lontano», dice con un sorriso tirato, la voce roca.
«Rafael», mi alzo e vado verso di lui, ignorando il dolore alla spalla.

Quando ci incontriamo a metà strada, ci abbracciamo alla meno peggio senza dire una parola. È un abbraccio strano, storto, disperato, carico di tutto ciò che abbiamo vissuto nelle ultime ore. Entrambi siamo sopravvissuti a qualcosa di terribile, e questo gesto silenzioso è il nostro modo di riconoscerlo.
«È passato», sussurra al mio orecchio. «Sei stata grande»
«Tu sei stato grande»
«Lo siamo stati entrambi», concede con il suo solito tono ironico che mi strappa un sorriso. La leggerezza di questo brevissimo istante muore subito, comunque. Entrambi siamo troppo scossi per la gravità delle condizioni di Evan.

Rafael sembra leggermi nel pensiero: «Si riprenderà presto», mi rassicura. «È un osso duro»
«Hai ragione», confermo, ma con meno sicurezza. «Si riprenderà».
Rimaniamo così per qualche minuto, uniti dalla paura e dalla speranza. Poi Rafael si avvicina al letto e, con un'espressione che riflette il mio stesso dolore, posa una mano sul braccio di Evan.
«Non osare morire, Evan», bisbiglia. «Non osare»
«Non lo farà», confermo.
Non lo farà.
Vero?

Buonaseraaaaa ❤️❤️❤️
Finalmente sono riuscita ad aggiornare.
Scusate, scusate, scusate infinitamente per questo ritardo. Ho avuto giornate incasinate 👀
Ma sono felice di essere riuscita a finire il capitolo 🤯🤯🤯
Cosa ne pensate? Siete preoccupati per Evan?
Sappiate che siamo quasi alla fine della storia.
Prevedo un massimo di due capitoli.
Grazie per aver aspettato l'aggiornamento.
Vi aspetto nei commenti.
Un bacio ❤️❤️

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