Seccatura
Pensavo di conoscere il volto della rabbia. Davvero, credevo di scorgerla nei visi arrabbiati della gente, ma in questo momento capisco che mi sbagliavo. La rabbia ha una faccia ben precisa: quella di Evan Royden.
L'ho baciato. Non so perché l'ho fatto. Il mio fottuto cervello non ha fatto due più due e ha deciso di tentare il suicidio. E adesso me ne sto immobile sulla sedia a fissare i lineamenti di Evan farsi sempre più duri, passando da un'iniziale fase di shock ad una di fastidio e poi furia.
Me la sto facendo sotto.
Anche Rafael se la sta facendo sotto. È rimasto scioccato pure lui e ci fissa con le labbra schiuse e gli occhi spalancati. Che panico.
«Scusi, signore», punto gli occhi sul pavimento e balzo in piedi, cercando di assumere una posizione rigida e solenne come mi hanno insegnato all'accademia. Evan continua a fissarmi e immagino di vedere del fumo uscire dalle sue orecchie. Somiglia ad un drago quando si arrabbia. Un drago molto spaventoso. «Volevo solo darle una spiegazione pratica, signore. Credo sia arrivato il momento di tornarmene a casa, signore», lo saluto in modo formale come non faccio da un po' di tempo e deglutisco mentre lo sorpasso per avvicinarmi alla porta. Lui ruota il busto e continua ad incenerirmi con lo sguardo.
Rafael si alza e si schiarisce la voce: «Ti accompagno»
«Grazie»
«No», il signor Royden torna a parlare con l'affermazione negativa più secca di sempre. «L'accompagno io».
Oddio, vuole uccidermi.
Lancio degli sguardi a Rafael per fargli capire che deve assolutamente seguirci o aiutarmi, ma lui mima con le labbra un: mi dispiace. Non è incoraggiante. Per niente.
Mi tremano le mani mentre provo a mettere la giacca e sto tremando talmente tanto da non riuscire a tirare su la zip.
Fanculo. Evan apre la porta e mi lascia passare per prima. Non dice una parola. So solo che la sua presenza mi sta annegando. Non respiro, giuro. Mi sento sott'acqua.
Camminiamo fianco a fianco lungo il corridoio, poi ci infiliamo nell'ascensore.
Voglio piangere. Continuo a fissarmi le scarpe.
«Punto primo», inizia e mi viene già voglia di piangere a causa del suo tono basso e severo. «Dovrei farti un provvedimento disciplinare».
Oh, merda.
Merda. Merda. Merda.
«Punto secondo», continua: «Ciò che hai appena fatto viola chiaramente il codice di condotta professionale»
«Lo so, signo-»
«Ti ho chiesto di parlare?».
Finalmente lo guardo e rivedo in lui il capo dipartimento che ho conosciuto quando sono arrivata. Rigido. Spietato. Insensibile.
Evan non c'è.
È il signor Royden. E basta.
Ricaccio indietro le lacrime e aspetto che sia lui a continuare: «Punto terzo», conclude. «Non farlo mai più»
«Sì, signore».
Le porte dell'ascensore si aprono e mi fiondo fuori come un fulmine. Sono arrabbiata con me stessa. E anche con lui, cavolo.
Avrei dovuto fargli un bel discorsetto quando mi ha baciata al parco! Okay, lo ha fatto per il bene della missione, ma me ne frego. Lo odio. Lo odio, cavolo.
Stringo i pugni e sbatto la portiera della sua auto prima di prendere posto sul sedile. Lui ovviamente nota il mio atteggiamento passivo aggressivo, ma preferisce ignorarmi.
Pezzo di ghiaccio che non è altro.
Perché non si scongela di tanto in tanto?
Non si stanca di vivere dentro i suoi schemi?
«Sento i tuoi insulti da qui», mette in moto e mi regala l'ennesima occhiataccia.
«Non mi pare di aver aperto bocca», ringhio.
«Hai dei pensieri piuttosto rumorosi»
«Non riesco a farli smettere, signore. Non posso controllarli, mi dispiace», guardo fuori dal finestrino e provo a non fissarlo attraverso il riflesso.
«Dovresti imparare a farlo, invece», ribatte. «Dovresti collegare più spesso il cervello al corpo e agire in modo razionale. Sai quanti ne ho conosciuti di agenti impulsivi?».
Non so rispondere, dunque continua: «Tanti. E sai quanti ne ho visti morire?».
Mi stringo nelle spalle e provo a rendere regolare il respiro. Non rispondo.
«Te lo dico io: troppi»
«Mi dispiace, signore»
«Ti rendi conto di essere troppo impulsiva, agente Kelley? Ti rendi conto del fatto che spesso non rifletti prima di agire?», il suo tono ora si fa più pacato, ma sempre screziato di ira.
«Me ne rendo conto, signore. Mi dispiace. Cercherò di essere meno avventata»
«Non devi cercare di esserlo», mi corregge. «Devi esserlo. Punto».
Cala il silenzio e mi chiudo nell'autocommiserazione per gran parte del tragitto. Siamo quasi vicino a casa mia quando il cellulare di Evan squilla. Risponde e la voce di un uomo si diffonde nell'abitacolo. È un agente di polizia. Gli comunica che un narcotrafficante che stavano cercando da tempo è stato finalmente avvistato in un locale ed è in corso una sparatoria. Urge il suo intervento immediato.
«Sono quasi lì», risponde. «Arrivo».
E aumenta la velocità in modo spaventoso.
Io ammetto di essere colta dall'ansia.
«Signore».
Non mi risponde. Sta pensando a qualcosa: lo capisco da come assottiglia lo sguardo e irrigidisce la mascella.
Sta già elaborando un piano.
Piano che attuerà solo se riuscirà a raggiungere il luogo. Va troppo veloce. Mi sento sulle montagne russe e credo di dover vomitare.
«Ho la nausea, signore»
«Vomita dove ti pare, agente Kelley. Non posso rallentare».
Ah. Che gentile.
Chiudo gli occhi e provo a convincere me stessa del fatto che sto bene. Sto benissimo.
Non stiamo andando incontro alla morte.
No. Per niente.
Non abbiamo appena evitato di investire un uomo in motorino. No. Va tutto bene.
«Temo che il rischio di fare del male a dei civili sia alto, signore».
Accosta in fretta in una strada poco trafficata e sussulto quando allunga il braccio verso il cruscotto e tira fuori una pistola e delle manette. «Resta qui»
«Vengo con te», mi scordo di essere formale. Cavolo. Sono davvero agitata.
«Resta qui», sibila.
«Io voglio venire. Sono un'agente. Non posso starmene qui con le mani in mano»
«Resta. Qui», scandisce bene le parole, poi corre via. Lo vedo allontanarsi velocemente fino a quando non gira l'angolo della strada e non posso più vederlo.
Ho paura. Le mie vene pulsano, le orecchie fischiano.
C'è una sparatoria in corso. E lui non indossa nemmeno un giubbotto antiproiettile.
Gli occhi mi si appannano e mi rendo conto di averli pieni di lacrime. Ma che diavolo mi prende?
Soffio l'aria fuori dalle labbra e tiro su col naso.
Ti prego, Evan, non farti sparare.
Ti prego, non farti sparare.
Ti prego.
Dondolo sul sedile e guardo fuori dal finestrino per provare a calmarmi, ma noto qualcosa che mi manda in allarme: un'ombra che balza giù da un balcone, per poi atterrare su un cassonetto della spazzatura.
Oh, no.
Lo vedo rialzarsi e guardarsi furtivamente intorno prima di correre nella mia direzione. Sta scappando.
Quest'uomo sta scappando.
Devo fare qualcosa. Dovrei chiamare rinforzi? Non c'è tempo. È sempre più vicino.
Non posso lasciarlo scappare.
Non c'è tempo per pensare. Merda.
Sono stata addestrata per questo e adesso non so assolutamente che cosa fare se non... SBAM!
Apro la portiera con uno scatto e lo colpisco appena in tempo, facendolo crollare al suolo. Non se lo aspettava. Non mi aveva proprio vista. Sta per rialzarsi, ma mi fiondo su di lui per bloccarlo sotto il mio corpo. Stringo forte le mie dita attorno alle sue braccia e tutti i muscoli gridano di dolore mentre lui si dimena e inizia a lottare con furia per liberarsi dalla mia presa.
La tensione aumenta e la colluttazione diventa più feroce.
Nonostante i miei sforzi per mantenere il controllo, l'uomo riesce a liberarsi e a colpirmi lo stomaco con un forte calcio che mi provoca un conato di vomito che ricaccio indietro.
«Levati di mezzo», ringhia, rialzandosi. Io non ho intenzione di lasciarlo andare.
Mi aggancio alle sue gambe e crolla a terra ancora una volta.
Questa mossa lo fa infuriare, motivo per cui mi tira i capelli con rabbia ed il mio collo s'infiamma di dolore. Gli rispondo con una gomitata tra le costole che lo fa gemere, poi con un pugno sul naso. Le mie dita si macchiano di sangue. Del suo.
«Lurida stronzetta», ricevo un ulteriore calcio allo stomaco, poi ancora un altro. Rispondo afferrandogli un piede per farlo tornare con la faccia sul pavimento. Ora sono sopra di lui.
Le mie braccia non hanno più forza, ma premo le mie mani con grinta sulle sue guance e affondo le unghie nella carne del suo volto. Lo sento gemere di dolore e continuo fino a quando non mi ritrovo ancora una volta con la schiena a terra e le sue mani attorno al collo.
È proprio in questo momento che mi rendo conto di essere fottuta. Mi sta strangolando. Quest'uomo mi sta strangolando.
Delle lacrime mi rigano le guance, la mente è in tumulto mentre l'ossigeno diventa sempre più scarso.
Il mio corpo non risponde più ai comandi.
Vorrei colpirlo, vorrei difendermi, ma le mie braccia sono così pesanti e gli occhi non riescono a stare aperti.
Le mie mani afferrano l'aria mentre cerco di liberarmi dalla sua presa mortale.
Poi, improvvisamente, un bagliore di speranza. Un'ombra familiare sembra volare su di noi e con un placcaggio violento mi libera dal criminale, trascinandolo con sé lontano dal mio corpo tremolante.
I miei polmoni tornano a riempirsi di aria e la vista diviene sempre più chiara fino a quando non riesco a vedere benissimo Evan sull'uomo che stava per ammazzarmi.
Adesso è lui ad avere le mani di Evan attorno al collo.
Adesso è lui ad elemosinare aria.
Adesso è lui con gli occhi pieni di lacrime.
Le dita di Evan sono serrate come grinfie di acciaio. La sua rabbia è palpabile nell'aria, un'energia feroce sembra vibrare attorno a lui mentre tiene immobile il criminale in una morsa implacabile.
«Guardami!», ordina con tono tagliente. «Sei finito, Dann. Sei finito, cazzo. Rimpiangerai di non essere morto sotto le mie mani». Stringe di più la presa, poi gli sbatte la testa contro l'asfalto con forza e lo tiene fermo mentre lo ammanetta in fretta. Dietro di noi iniziano ad arrivare diversi agenti e si fermano un attimo ad osservare la scena.
Evan gli tira i capelli per sollevargli la testa e parla al suo orecchio. Gli dice qualcosa che non sento, ma gli occhi di Dann saettano su di me.
Ora gli agenti si muovono verso di lui e lo portano via mentre il capo dipartimento si sposta in fretta verso di me.
Prende il mio viso tra le sue mani. Tremano.
«Che ti ha fatto?», sussurra, gli occhi due mine vaganti in cerca di ferite. Le trova. «Che ti ha fatto?», ripete. «Stai bene?».
Il mio volto è inondato di lacrime e non riesco a parlare.
«Stai bene, Althea? Parlami, ti prego».
Faccio segno di sì con la testa, ma mi fa male tutto. Ogni cosa.
«Signor Royden», qualcuno lo chiama, ma Evan non guarda altro che me. Accorcia ancora le distanze, avanza di un passo.
Le sue mani continuano a tremare contro la mia pelle. Il suo sguardo colmo di preoccupazione mi fa perdere il controllo sulle lacrime che continuano a scendere imperterrite.
«Sei stata brava», mormora, scostandomi con delle carezze i capelli dal viso. «Sei stata brava», ripete. Mi bacia la fronte.
Un singhiozzo sfugge dalle mie labbra, poi un altro.
Tutta la paura e l'agitazione si trasformano in un pianto disperato. Il signor Royden mi stringe in un abbraccio dolce e forte. Mi lascia piangere contro il suo petto e continua ad accarezzarmi la testa con una delicatezza disarmante.
Il suo cuore batte più forte del mio.
«Signor Royden», riconosco la voce di un mio collega. «Come dobbiamo procedere con i complici e con l'arrestato?».
Evan risponde mentre continua a tenermi stretta contro il suo torace: «Portateli alla centrale. Lasciateli in cella finché non sarò arrivato. Mettete Dann in isolamento»
«Sì, signore»
«E trovate in fretta una spiegazione da darmi per la fuga del sospettato numero uno», aggiunge con rabbia. «O metterete piede nel mio dipartimento solo per pulire i gabinetti»
«Sì, signore»
«Adesso sparite», ordina ancora.
«Sì, signore».
Evan continua a far scorrere le dita tra i miei capelli. Ha dato ordini ai suoi agenti mentre mi regalava carezze e mi teneva tra le sue braccia. Non ha smesso nemmeno per un istante.
«Ti porto in ospedale?», si abbassa per arrivare all'altezza del mio viso. «Ti ha ferita?», torna a guardare il mio corpo nella sua interezza in cerca di sangue.
Credo di essere sotto shock. Stavo per essere uccisa.
Stavo per morire.
«A casa», non riconosco nemmeno la mia voce roca. «Voglio andare a casa»
«Va bene», il suo braccio passa attorno alla mia vita e mi regge praticamente in piedi mentre mi aiuta a prendere posto sul sedile del passeggero.
Fa il giro dell'abitacolo, si sfila la pistola dai jeans e la ripone nel cruscotto dal quale tira fuori una bottiglietta d'acqua.
«Bevi un po'», afferro la bottiglia, ma questa trema tra le mie dita in modo imbarazzante. È Evan ad aiutarmi a bere proprio come si farebbe con una bambina. L'acqua mi scivola sul mento e mi bagna il collo dolorante.
Una volta finito, Evan mette in moto e sussurra un: «Ti porto a casa»
«Grazie».
Resta in silenzio per gran parte del tragitto, ma continua a far saettare lo sguardo su di me. Come se temesse di vedermi morire qui da un momento all'altro.
«Lo abbiamo preso grazie a te», dice.
«Lo avreste preso lo stesso», parlare mi fa male. Spero marcisca in galera.
«No, Althea. Lo abbiamo preso grazie a te», si ferma davanti alla mia abitazione. «Hai fatto un ottimo lavoro».
Esce dall'auto e non mi dà nemmeno il tempo di aprire la portiera che è già lui a farlo. Come prima, mi circonda la vita con il suo braccio.
È lui ad aprire la porta, a togliermi la giacca, ad accompagnarmi in cucina per prendere posto su una sedia.
Mi riempie un altro bicchiere d'acqua e mi osserva attentamente mentre lo bevo. Quando finisco, si sistema tra le mie gambe e mi preme due dita sotto il mento per controllare i segni che ho sul collo.
Deglutisce, le iridi scure un incendio. La sua espressione parla chiaro: se Dann fosse qui, lo ucciderebbe.
«Posso controllare le ferite, Althea?», fa un cenno in direzione del mio torace e mi ritrovo a deglutire, il cuore un tamburo impazzito. Faccio segno di sì con la testa e mi sfila con gentilezza la maglietta. Rimango mezza nuda davanti a lui, ma questo non mi fa sentire a disagio.
Alla vista degli enormi lividi che già iniziano a formarsi Evan chiude gli occhi e soffia dell'aria fuori dalle labbra.
Avrebbe voluto non vederli.
Li riapre e deglutisce mentre continua il suo esame, tastando con cautela il torace alla ricerca di contusioni o fratture.
Si concentra sulle costole, poi mi chiede di voltarmi per scrutare la mia schiena.
Dai suoi respiri profondi capisco di non avere un bell'aspetto.
Mi sento come se un tir mi avesse appena investita.
«Sto per morire?», sdrammatizzo. La piccola risata spontanea mi provoca una fitta di dolore. Il sorriso si trasforma presto in una smorfia.
«Mi dispiace», mormora.
«Per cosa?»
«Per non essere arrivato prima», sussurra, il viso un dipinto del senso di colpa. Mi viene voglia di dargli un bacio.
Al diavolo il provvedimento disciplinare.
«Me la stavo cavando bene», provo ad alleggerire la situazione ed Evan si sforza di farmi un sorriso triste. «So che non si direbbe, ma gliele ho suonate di brutto»
«Ho visto che il suo naso non era messo molto bene», commenta. «E mancava qualche dente»
«Sono diventata una pantera, ormai»
«Una tigre», mi prende in giro e con un gesto naturale mi lascia una carezza sulla guancia. «Mi hai spaventato a morte», ammette poi. Il cuore mi balza in gola. Sono in apnea. Non respiro più.
Ancora un'altra carezza. Che le prende, signor Royden?
«Ho avuto paura anch'io», ammetto.
«È normale averla», risponde.
«A lei è mai successo? Di... Insomma, ecco, rischiare di essere ucciso da qualcuno?».
Annuisce: «Capita più spesso di quanto credi di trovarsi a lottare tra la vita e la morte»
«E non ha mai paura di morire? Io ero... Terrorizzata»
«In alcuni momenti la paura è inevitabile, Althea. Con il tempo imparerai a non farti controllare da lei».
I suoi occhi tornano sui lividi nel mio torace e mi ricordo di essere ancora in reggiseno. Questa volta avvampo.
Evan percepisce il mio disagio, dunque mi porge la maglietta e mi aiuta a rimetterla.
«Inutile sottolineare il fatto che sei stata nuovamente impulsiva, precipitosa, incosciente e che hai agito in solitudine senza avere un agente a coprirti, giusto?»
«Non ci credo», borbotto. «Ho rischiato la mia vita per catturare un narcotrafficante, lo abbiamo anche preso e lei mi sta facendo la predica sulla mia impulsività?»
«Non ti sto facendo la predica, Althea»
«Sì, invece».
Si passa la mano tra i capelli e sospira, poi si arrende: «Va bene, lasciamo perdere. Non voglio parlare di questo. È solo che questo lato di te mi fa paura, Althea. Hai rischiato di morire»
«Una seccatura in meno per lei, signor Royden», sparo le parole senza pensarci e l'espressione ferita che gli si stampa in faccia sembra quella di un uomo che è appena stato colpito da un proiettile.
«Una seccatura? Pensi di essere una seccatura per me?», si è arrabbiato.
«Non lo so», mi stringo nelle spalle. «A volte penso di sì».
Avanza verso di me e accorcia drasticamente le distanze tra di noi: «Se tu fossi una seccatura non staremmo qui a parlare, Althea. Pensi di essere la prima agente che viene aggredita durante un'operazione? Pensi che io stia lì a controllare le ferite di tutti?»
«No, signore»
«Allora perché sono qui, Althea?»
«Non lo so», ammetto.
Nella stanza cala il silenzio. Io guardo lui, lui guarda me.
Nessuno dei due ha idea di cosa dire.
È Evan ad agire. Afferra la mia mano per avvicinarmi al suo corpo e mi attira in un abbraccio: «Vieni qui», mormora. «Sono felice di vederti viva. Non sei una seccatura», mi rassicura. «Non pensarlo più».
Affondo la fronte contro la sua t-shirt ed inspiro il profumo dolce: «Va bene, signore»
«Evan», dice.
«Come?»
«Chiamami Evan. Mi piacerebbe sentirti usare il mio nome».
Nello stomaco una marea di farfalle volano come impazzite.
«Nessun provvedimento disciplinare?», chiedo.
La mia domanda lo fa ridere e il suo petto va su e giù sotto la mia guancia: «Mi farai diventare pazzo, agente Kelley».
Buon pomeriggiooo ❤️❤️❤️
Dai che sono tornata prestissimo.
Non volevo farvi aspettare.
Scusate se non c'è già la serata con Matthew, ma il capitolo sarebbe stato troppo lungo.
Quindi, Matthew vi attende nel prossimo capitolo.
Intanto... fatemi sapere TUTTO ciò che vi passa per la testa su quello che è appena successo. Mentre scrivevo immaginavo già le vostre reazioni e non vedo l'ora di leggerle 😍😍
Adesso vado a rispondere ai commenti nel capitolo precedente.
Un bacio enorme
Sara
Ps. Grazie grazie grazie per l'affetto che mi date. ❤️
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