Che panico
Da quando sono arrivata a Boston passo un sacco di tempo da sola, soprattutto durante le ore lavorative quando non mi è concesso parlare al telefono con amici e parenti. In genere tutti partono per delle missioni da fare mentre io rimango in compagnia di me stessa a svolgere lavori di routine: gestire l'archivio, mettere in ordine documenti, rispondere alle chiamate. Una parola per descrivere le mie mansioni? Noia. Noia mortale. Anzi, sembra quasi che io sia diventata l'esperta di tutto ciò che è noioso in questo posto.
È sempre un colpo al cuore quando tutti gli altri hanno dei compiti importanti da svolgere e scappano via, agitati come delle api nel panico mentre io rimango seduta dietro la mia scrivania a fissare il vuoto con un sorriso da ebete. Oh, no, non pensate a me. Andate pure a lottare contro il male. Amo restare qui a fissare la polvere accumularsi sui fascicoli, davvero.
Per non parlare del mio nuovo amico: l'agente Smith. Lui ed io formiamo una sorta di squadra di supereroi dei lavori noiosi. A volte ci sfidiamo a chi riesce a rispondere a più telefonate o a chi riesce a mettere più in alto le cartelle. Abbiamo anche un nostro rituale sacro: l'ora del sandwich. Ne mangiamo sempre uno insieme a mezzogiorno. Credo sia il mio unico punto di riferimento. E non so se fare amicizia con un sessantenne con la sciatica sia la scelta migliore per fare carriera qui dentro.
Sbuffo e spingo in avanti un carrello colmo di fascicoli in direzione della stanza di archiviazione. L'odore pungente della polvere mi fa subito starnutire e maledico con tutte le mie forze il comandante Barret che mi ha spedita fin qui senza più farsi sentire. Ecco cosa mi tocca fare, comandante Barret. Spero che il caffè le vada di traverso mentre legge il giornale sulla sua stupida poltrona.
Mi muovo tra gli alti scaffali e sistemo ad uno ad uno le pratiche finché non sento il suono distante di passi che si avvicinano. Alzo lo sguardo in direzione della porta e percepisco nell'aria una sorta di tensione, come una corrente elettrica prima di un temporale.
Poi la porta si apre bruscamente ed entra lui: il capo del dipartimento, il temuto e venerato signore dei destini criminali. Evan Royden.
I nostri sguardi si incrociano per un breve e intenso istante, come un fulmine che sparisce nel buio. Lui non sembra far caso a me, mentre io ammetto di essere spinta da un bagliore di curiosità. La sua figura slanciata si muove tra le ombre della stanza con una grazia che pare quasi innaturale, come se la forza di gravità non avesse effetto su di lui. Ogni suo movimento è un'armonia di potenza ed eleganza selvaggia. Mentre scorre tra gli scaffali i suoi capelli neri brillano come l'oscurità stessa. Afferra una cartella e, senza una parola, va via. Rimango immobile un attimo, il cuore che batte in modo irregolare. Mamma mia, che panico.
Questo tipo mi terrorizza. Calma, cuore. È andato via. È tutto okay. Torno a concentrarmi sul mio lavoro, le mani tremano leggermente mentre sfoglio i documenti. Accidenti.
Il comandante Barret mi ha inviato un'email dopo i miei primi sette giorni di permanenza a Boston. Mi ha richiesto un primo resoconto della mia esperienza. Incrocio le gambe sul divano e avvicino il portatile allo stomaco, pronta per scrivere una relazione basata sul nulla. Provo a digitare qualcosa, qualsiasi cosa, ma non mi viene in testa niente da dire. Zero.
Chiamo mia sorella Jude in soccorso e sorrido quando risponde al secondo squillo: «Spero che tu non mi stia chiamando per lamentarti ancora una volta di quanto sia noioso il tuo lavoro», mi minaccia, il tono divertito.
«No. Ho bisogno di una mano. Devo scrivere un resoconto sulla mia prima settimana qui e non saprei cosa dire a parte il fatto che sono diventata un tutt'uno con l'archivio»
«Mh»
«Già»
«Beh, scrivi la verità»
«Grazie, Jude. Sei di grande aiuto», sbuffo e mi massaggio le tempie con le dita, poi provo ad abbozzare qualcosa: «Cinque ottobre. È passata una settimana da quando mi sono ritrovata catapultata da New York a Boston come una sorta di spia segreta».
Sento Jude ridere dall'altro lato del telefono: «Più o meno come James Bond, ma con molta meno classe e molto più caffè»
«Scommetto che a James Bond non è mai stata assegnata l'importante missione di preparare il caffè per l'intero ufficio», ridacchio amaramente. «Negli ultimi sette giorni ho avuto modo di svolgere diverse e delicate mansioni all'interno della centrale: rifornire la macchinetta delle bibite, fare fotocopie e distribuire cartelle con le foto dei criminali come se fossero santini. Non ho nemmeno avuto la possibilità di sfoggiare le mie abilità segrete di spionaggio, se ne ho qualcuna, perché pare che tutti abbiano deciso di ignorarmi. I miei colleghi, ovvero le persone che dovrebbero essere i miei futuri complici, sembra abbiano scelto la strategia dell'ignorare l'intruso, cioè io. Chiaramente aveva ragione, comandante Barret, sono anonima e invisibile. Forse troppo invisibile. Qui sono totalmente trasparente. Ogni volta che mi avvicino a qualcuno vedo occhi che guardano altrove, persone che diventano improvvisamente molto interessate al loro caffè o al computer, come se avessi il potere di polverizzarli con un solo sguardo»
«Direi che con qualche correzione può essere una giusta descrizione di ciò che ti sta succedendo, Altee», pronuncia il mio nomignolo in modo tenero. So che è dispiaciuta per me. Da brava sorella maggiore farebbe di tutto pur di proteggermi e farmi stare bene. Una lacrima solitaria mi scivola giù per la guancia e la asciugo in fretta. Non. Abbatterti.
«Voglio andare via da qui», ammetto.
«Resisti, Altee. Scommetto che andrà tutto bene»
«Lo spero», mormoro.
«Anch'io. Adesso scrivi quella relazione e non piagnucolare. Domani prova a spiegare la situazione al tuo capo. Insomma, potresti chiedergli gentilmente di renderti partecipe in qualcosa».
Solo immaginare di chiedere una cosa del genere al signor Royden mi fa venire i brividi.
«Non credo sia una buona idea»
«Provaci. Potrebbe funzionare».
E il giorno dopo ci provo.
Beh, almeno sono queste le mie intenzioni, ma il mio cuor di leone non è per niente d'accordo. Soprattutto perché pare che il signor Royden non sia di buon umore. Tutti gli agenti evitano di incrociare il suo sguardo quando passa in corridoio e nessuno ha osato bussare alla porta del suo ufficio oggi.
Nessuno a parte me. Stupida. Stupida. Stupida.
Vorrei tagliarmi la mano con la quale ho colpito il legno della porta quando sento un brusco "avanti".
Mi affaccio timidamente all'ingresso della stanza e lo trovo proprio dietro la sua scrivania, immerso tra una marea di post-it e mappe geografiche.
«Buongiorno, signor Royden. Posso disturbarla un attimo?», sorrido cercando di nascondere l'agitazione. Alza lo sguardo dai documenti e mi rivolge un'occhiata intensa: «Entra»
«Sì, signore». Mi tremano le gambe. Chiudo la porta alle mie spalle e deglutisco. Evan mi osserva con attenzione, in attesa di un mio segno di vita.
Forza, Althea. Sei venuta qui con uno scopo.
«Signor Royden, volevo parlarle di una cosa. Riguarda le missioni operative. Io vorrei...»
«Le missioni operative sono assegnate in base alle competenze e all'esperienza, agente Kelley», risponde senza nemmeno lasciarmi finire. Brusco. Serio. Aspro. Non mi vengono altre parole per descrivere il suo tono. Mai gentile.
«Lo so, signore», provo a mantenere la mia compostezza. «Ma da quando sono arrivata qui, ecco, ammetto di sentirmi esclusa». L'ho detto. Finalmente. Mi sento più leggera adesso. «Mi piacerebbe avere l'opportunità di dimostrare le mie capacità sul campo».
Un lento sorriso scaltro si fa strada sul suo volto e, senza alcuna ragione al mondo, sento le mie guance colorarsi di rosa.
«L'esperienza in questo lavoro è importante, agente Kelley. E da quel che ho letto sul tuo conto non ne hai abbastanza. Non posso mettere a rischio i miei agenti o la sicurezza delle operazioni». Solleva la mano e mi fa cenno di andare. Tutto qui? Non ho il diritto di ribattere?
Dovrei andarmene, invece mi blocco. Sono arrabbiata.
«Penso di non meritare un trattamento del genere. Non sono una segretaria. Sono qui per svolgere il mio lavoro che non è di certo portare il caffè a tutti e fare le fotocopie».
Mi scruta per un momento, lo sguardo che mi rivolge è divertito. Mi vede di certo come un piccolo moscerino che si ribella al potere supremo. Si starà facendo delle grandi risate dentro quella corazza di muscoli.
«Non importa ciò che pensi. Tu non ti unisci alla squadra fino a quando non sarò io ad ordinarlo», indica per l'ennesima volta l'uscita e temo di non poter più restare qui a protestare. Conficco le unghie nei palmi e giro sui tacchi, ringhiando un cordiale saluto. Non finisce qui, signor Royden. Quanto è vero che mi chiamo Althea Darlene Kelley.
CIAO A TUTTI! 🫶
Eccomi tornata con un nuovo capitolo 🎉
Stiamo entrando piano piano nel vivo della storia e vi ringrazio per l'entusiasmo con cui avete accolto questa nuova avventura 😍
Grazie per i voti e i commenti. Mi date la motivazione ad andare avanti con la scrittura.
Fatemi sapere cosa ne pensate e se vi è piaciuto.
Un bacio grande,
Sara.
Ps. Buon ferragosto ⛱
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