Bum

È buio. Credo.
Nella stanza in cui mi ritrovo non filtra più nemmeno un briciolo di luce. Tutto è immerso nel silenzio. L'aria è pesante, impregnata di sudore, polvere e paura. I miei polsi, ancora legati, bruciano per le ferite provocate dalle corde, ma non posso cedere alla stanchezza.

Rafael non parla.
Non riesco più a vederlo, ma mi consolo concentrandomi sul suono del suo respiro. È debole, affannato, ma c'è.
Credo sia svenuto. O sta dormendo.
O sta talmente male da non riuscire a muoversi o a rispondermi. Matthew lo ha massacrato per poi andare via.
Non lo vedo da parecchio tempo e non so se essere sollevata o meno.

Devo pensare.
Devo muovermi.
Ma c'è qualcosa di strano in questo silenzio. Un vuoto, quasi innaturale. È come se fossi immersa in una bolla pronta a scoppiare da un momento all'altro. Un gemito appena percettibile interrompe i miei pensieri. Rafael. Sta riprendendo conoscenza. Mi inclino in avanti, cercando di ascoltare meglio. «Ehi...» sussurro, il più piano possibile. Non posso permettermi di fare troppo rumore. «Riesci a sentirmi?»

Un altro gemito, un suono indistinto che potrebbe essere un sì. Ma non importa. Il semplice fatto che sia vivo mi dà una scintilla di speranza. «Ti tirerò fuori di qui», assicuro.
Ma ho paura.
E non credo alle mie parole.
Poi, all'improvviso, un suono. Dalla porta. Un lieve scricchiolio di passi. Gelida consapevolezza mi paralizza per un attimo. Matthew è tornato. Mi irrigidisco, sperando di non aver fatto troppo rumore. Il respiro si blocca nella gola, ogni muscolo si tende mentre cerco di ascoltare oltre il suono del mio stesso battito cardiaco.

I passi si avvicinano, lenti, calcolati. Ecco che appare, una sagoma appena distinguibile contro il chiarore lontano della luce che filtra dalla porta semiaperta. Non è Matthew.
Un uomo robusto, con la barba tagliata di fresco e un completo elegante, cammina lentamente verso di me. Thomson. Ho già visto il suo volto su svariati dossier. Il suo sorriso è sottile, predatorio, e i suoi occhi mi scrutano come se fossi un oggetto, qualcosa da usare e poi gettare.

«Finalmente ci incontriamo, agente Kelley», dice con una voce bassa, piena di veleno. Si avvicina, il suo sguardo cade su Rafael, ancora riverso al suolo. Poi torna su di me, con quel sorriso tagliente. «Non sai quanto ho aspettato questo momento. Il comandante Barrett mi ha parlato così bene di te», mi lascia un buffetto sulla guancia ed io ricaccio indietro un conato di vomito.

Fingo di essere colpita dalle sue parole e lui mi risponde con una risata: «Smetti di recitare, mia cara. Sappiamo entrambi che il tuo comandante è fottuto. Doveva prestare più attenzione, mandare una persona affidabile e non... Te»
«Non so di cosa tu stia...», le parole mi muoiono in gola perché un dolore lampante mi attraversa la guancia sinistra. Mi ha dato uno schiaffo. Forte. Ben assestato.
«Credevi davvero di potermi fregare, agente Kelley? Credevi di farmi dormire sogni tranquilli dando a Barrett false informazioni? Hai fregato Barrett, Matthew, ma non me», muove con un piede il corpo di Rafael che non emette nessun gemito, poi prosegue: «Contrariamente a ciò che hai comunicato al tuo comandante, mia cara Althea, ad aspettarmi alla fabbrica c'erano un bel po' di agenti. E dico c'erano, tesoro, perché temo che già da qualche minuto in molti non siano più tra noi».

Il tempo sembra fermarsi. Sgrano gli occhi e il mio cuore si ferma per poi ripartire più veloce di prima.
«Bum», bisbiglia, mimando con le mani un'esplosione.
No.
No, no, no.
Non può essere vero.
Evan.
Thomson non mostra segni di mentire.  Lo ha detto con una tale noncuranza che sento il gelo invadere il mio corpo. Devo mantenere la calma. Devo concentrarmi.

Nessuno è morto.
Sta bluffando.
Nessun agente è stato ferito.
Evan sta bene.
Evan sta arrivando.
Sarà qui a momenti.
Lo ripeto nella mente come un mantra e mi sforzo di crederci.

«Che cosa vuoi?», non riconosco nemmeno la mia voce. Debole. Bassa. Quasi assente. Ho parlato?
Thomson continua a camminare lentamente nella stanza, osservando ogni angolo, poi si volta verso di me.
«Da te? Niente. Non mi servi. Sto solo cercando di non annoiarmi»
«Dov'è Matthew?»
«Come siamo curiosi, agente Kelley», afferra una vecchia sedia e ci si siede sopra, posizionandosi davanti a me. Thomson incrocia le gambe, come se fosse in un tranquillo salotto piuttosto che in una stanza di prigionia soffocante. Il suo sguardo non lascia il mio, ed è così intenso che sento il bisogno di abbassare gli occhi, di distogliere lo sguardo, ma resisto. Non posso mostrare debolezza.

«Matthew», dice infine, stiracchiandosi come un felino. «Al momento ha cose più importanti da fare. Tipo prepararsi a morire, immagino. Ma non pensare a lui, tesoro. Si è scavato la fossa da solo. Pensa piuttosto ai tuoi colleghi, poverini».
La mia mente è un vortice. Le parole di Thomson continuano a rimbalzarmi in testa. "Bum", l'eco dell'esplosione che ha evocato mi tormenta. Evan. È impossibile pensare che lui, che la squadra, che qualcuno... Non può essere vero. Thomson sta giocando con me, cerca di minare la mia concentrazione, di farmi cedere.

«Sei uno stronzo», sussurro, più per sfogare la frustrazione che altro.
Thomson ride piano, un suono vuoto e privo di gioia. «Lo so. Ma la differenza è che io sopravviverò a questa storia, mentre voi due...», si ferma, lanciando un'occhiata a Rafael, ancora immobile, prima di tornare su di me. «Beh, dubito che ve la caverete così bene».
Lo guardo, cercando di raccogliere le forze, di pensare a una via d'uscita, ma niente sembra essere la soluzione.

Poi si volta bruscamente verso la porta. «È ora di muoverci», annuncia. «Alcuni amici ci stanno aspettando. Non voglio farli attendere troppo». Con un cenno rapido, tre dei suoi uomini entrano nella stanza. Uno di loro strappa via le corde che mi legavano i polsi e mi trascina in piedi.
Il dolore è lancinante, ma non mi lamento.
Thomson fa un segno verso Rafael, che è ancora privo di sensi. «Prendetelo», ordina, e due uomini lo sollevano con fatica. Rafael sembra più morto che vivo, e la paura si stringe intorno al mio petto come una morsa. Deve sopravvivere.

Ci caricano su un furgone scuro, uno di quelli senza targhe. Le luci di Boston sono lontane, come un mondo parallelo che non posso più toccare. Il furgone parte con uno scossone e ci dirigiamo verso un luogo che non conosco, ma che Thomson sembra aver pianificato attentamente.
Il tempo sembra dilatarsi mentre il furgone attraversa la città. Attraverso la piccola grata metallica che separa il vano posteriore dal conducente, sento Thomson parlare con i suoi uomini.

«Il piano è semplice», sta dicendo, con la calma glaciale di chi ha già vinto. «Gli Harbor uccideranno Matthew, si prenderanno il carico e il controllo del traffico, e io mi occuperò di gestire gli affari dall'alto. Il biondo in fin di vita... sarà il nostro bonus. Lo useremo per tenere a bada eventuali interferenze. Quanto a te, Althea cara, so che stai ascoltando...» si ferma per un attimo, e posso quasi sentire il suo sorriso malefico. «Sei la mia garanzia contro la polizia. Se solo vedo da lontano uno dei tuoi amici poliziotti ti faccio saltare la testa. Loro sanno che ne sono capace e staranno buoni e in disparte».

Il mio stomaco si contrae. Devo vomitare.
La mia mente torna a Evan.
Ti prego, fa che sia vivo.
Ti prego.

Finalmente il furgone si ferma. Siamo in un vecchio magazzino abbandonato vicino al porto. Uno di quei luoghi dimenticati dalla città, coperto di ruggine e graffiti, perfetto per un incontro lontano da occhi indiscreti. Dalle finestre alte e sporche intravedo i fari delle navi in lontananza e il debole bagliore dell'acqua nera del porto.
Vengo spinta fuori dal furgone e trascinata verso l'entrata del magazzino, i miei passi sono incerti sull'asfalto irregolare. L'aria sa di salsedine e di metallo, e il rumore dell'acqua che lambisce le banchine riempie il silenzio che ci circonda. Intravedo anche un enorme camion di gelati. È lì la merce di Thomson?

Qualcuno mi spintona e smetto di fissare il veicolo, entrando dentro il magazzino. Qui ci sono già gli Harbor ad attenderci.
Sono in dieci. Ci fissano con sguardi duri.
Uno di loro si fa avanti e credo sia il loro capo. I suoi occhi freddi sono concentrati solo su Thomson. Sono qui per gli affari.

«Thomson», saluta con un cenno del capo, la voce bassa e tagliente. «Hai portato la merce?»
Thomson sorride, quel sorriso tagliente che mi fa venire voglia di strapparglielo via dal volto. «Come promesso. È tutto sul retro. Mentre il vostro amico Rafael è tutto vostro. Sano e salvo. Più o meno», ghigna mentre il capo degli Harbor scruta Rafael, che viene buttato a terra davanti a lui come un sacco vuoto. Si accovaccia vicino al suo corpo e gli alza il mento con due dita, osservandolo da vicino. Rafael è pallido, debole, ma ancora vivo.

«Va bene», dice infine l'uomo, alzandosi. «Matthew?»
Thomson alza le spalle con disinvoltura. «Sta aspettando. Credo sia ancora convinto che ci sarà uno scambio, ma quando vi presenterete voi... beh, direi che non avrà molte possibilità di sopravvivere. Giusto?»
Gli Harbor si scambiano sguardi di intesa. Hanno il loro piano, e Matthew non farà parte del futuro.
«Perché non lo uccidi tu?», uno di loro avanza la proposta.

Thomson lo scruta come se fosse un insetto apparso dal nulla. «Non mi macchio di un peccato inutile. Se Matthew vive o muore non è affar mio».
Io li fisso, cercando disperatamente di trovare una via d'uscita. Non posso lasciare che uccidano una persona.
La mia mente corre a mille, cercando un piano per fermare questa follia, ma ogni pensiero sembra condurmi a un vicolo cieco. Matthew è destinato a morire. Io sono un ostaggio. E il tempo sta per scadere.

«Allora siamo d'accordo?» Il capo degli Harbor parla con voce gutturale, il suo sguardo si muove tra Thomson e Rafael, ancora steso a terra come un cadavere abbandonato. «Lo scambio è fatto. Matthew morirà. Noi prendiamo il controllo, e tu... beh, tu avrai ciò che ti spetta». Da una macchina esce un ulteriore uomo con dei borsoni neri. Gli uomini di Thomson ne controllano il contenuto, poi annuiscono.

«Bene. Ora, se volete scusarmi, ho altri affari da seguire». Thomson si gira, facendo un cenno ai suoi uomini di prepararsi a partire. Ma proprio mentre si volta, le porte del magazzino si spalancano con un rumore assordante.
«Thomson!» Una voce familiare risuona nell'aria. Il cuore mi balza in petto. È Matthew.
Lo vedo entrare nel magazzino con passo deciso, il volto animato da una rabbia furiosa. Il suo sguardo è incollato su Thomson, e sembra ignorare tutto il resto, compresi gli Harbor che si irrigidiscono, mettendo subito mano alle armi.

«Pensavi davvero di fregarmi, Thomson?»
Le parole di Matthew riecheggiano tra le pareti spoglie del magazzino, un misto di disprezzo e consapevolezza. Thomson si gira lentamente verso di lui, un sorrisetto sicuro che non abbandona mai il suo viso. «Ah, il nostro eroe è arrivato. Devo ammettere che hai fatto meglio di quanto mi aspettassi, Matthew. Ma ormai non importa più, vero? Sei un condannato a morte».
Uno degli Harbor fa un passo avanti, la mano nascosta nella giacca. «È tempo di chiudere la partita».

L'atmosfera si carica di tensione. Sento il cuore martellarmi nel petto. Devo fare qualcosa.
Ma prima che chiunque possa agire, il rombo assordante di elicotteri riempie l'aria. Il suono inconfondibile delle pale che tagliano il cielo sopra di noi è un segnale inequivocabile: la polizia è arrivata. E con loro, c'è Evan Royden.

Un urlo metallico di megafoni esplode all'improvviso, facendo eco attraverso il porto. È la sua voce. È lui. Ed io mi sento felice come mai prima d'ora. Così felice che scoppio in un pianto liberatorio. Sei vivo.
«Polizia! Buttate le armi e tenete le mani ben in vista! Siete circondati!».
Il caos scoppia in un istante. Gli Harbor si girano di scatto, cercando vie di fuga, ma ogni uscita è già bloccata. Uomini in uniforme nera, armati fino ai denti, invadono il magazzino, irrompendo da ogni angolo. Non riesco a contarli. Sono tantissimi. Le luci delle torce balenano come lampi, illuminando facce impaurite e mani che corrono alle armi.

Ombre distorte si proiettano sui muri diroccati mentre le urla si mischiano al suono delle armi che vengono disarmate.
Thomson non perde un secondo. In un lampo, mi afferra per il braccio e mi tira contro di sé, il suo braccio stretto intorno al mio collo. «Un passo indietro, o la uccido!».
Il suo respiro mi brucia la pelle, e sento il freddo metallo della sua pistola contro la mia tempia.

Evan si fa spazio tra gli agenti come un Dio vendicatore. Lo vedo spuntare dall'ombra, imponente nella sua divisa scura, il viso duro, gli occhi fissi su di noi come un predatore pronto a scattare.
«Non sei nella posizione di fare richieste, Thomson» La voce di Evan adesso non arriva più dai megafoni. È vicina. Molto vicina. Il silenzio cade per un istante, prima che Evan faccia un passo avanti, sfidando la stretta di Thomson su di me.

«Fai un passo indietro!» ringhia ancora lui, spingendo la pistola ancora più forte contro la mia tempia. Il suo respiro è irregolare, e il sudore gli cola dalla fronte.
«È la tua unica occasione, Thomson: lasciala andare».
Ma Thomson è come una bestia braccata, i suoi nervi tesi all'inverosimile. «Non scherzare con me, Royden! Le farò saltare il cervello qui e ora se non fai quello che dico!»
Evan sorride. È un sorriso feroce, senza traccia di umanità.

«Se la tocchi sei morto», ribatte con voce tagliente. Ancora un passo avanti.
Thomson indietreggia, trascinandomi con sé: «Un altro passo e...»
«E cosa?»
«Lei muore e tu la guardi. E tutto il tuo esercito non servirà a nulla!».
Evan risponde con una risata. «Se anche solo un capello cade dalla sua testa, Thomson, ti assicuro che non avrò pietà. Nessuna trattativa. Nessuna via d'uscita. Nessuna speranza di sopravvivenza».

Thomson mi stringe più forte, ma la tensione nel suo corpo è palpabile. Sa che è finita. Lo sa.
C'è un silenzio teso, carico di violenza imminente. Lo sento nel modo in cui il corpo di Thomson trema dietro di me, il suo respiro si fa più frenetico. Ma non è solo la paura che mi invade. È qualcosa di più. Mi tornano in mente i momenti in cui Evan mi ha insegnato a combattere, a difendermi. La sua voce calma, ma determinata, che mi spiegava ogni mossa con precisione.

Il suo sguardo si incrocia con il mio. È uno sguardo che dice tutto. Fidati di me. È il momento.
Respiro a fondo, ignorando il panico che cerca di sopraffarmi. Poi, con un movimento rapido, giro il polso come mi aveva insegnato Evan, colpendo con il gomito il fianco di Thomson. È una mossa perfetta. Thomson rilascia per un istante la presa intorno al mio collo, e in quel preciso secondo, mi abbasso sotto il suo braccio e mi giro per colpirlo con il palmo della mano sotto il mento. Il suo grido soffocato di dolore mi riempie di una feroce soddisfazione.

Mi libero appena in tempo. Thomson, ormai fuori controllo, barcolla all'indietro, ma non demorde. Recupera la pistola, il volto distorto dalla rabbia e dalla disperazione. I suoi occhi folli sono fissi su di me mentre alza l'arma. Prima che io possa reagire, un'esplosione squarcia l'aria. Il colpo parte.
Un suono sordo, ma non sono io a essere colpita.

Evan è più veloce. La sua pistola ruggisce, e il proiettile colpisce Thomson in pieno petto. Il suo corpo si irrigidisce per un istante, gli occhi si spalancano in un misto di sorpresa e terrore. Poi, senza un suono, crolla a terra come un sacco vuoto. Per un lungo momento, l'unico suono che riesco a sentire è il mio stesso respiro, spezzato e affannato. Poi altri spari si levano intorno a noi. Siamo nel mezzo di un conflitto a fuoco. Evan si avvicina a grandi passi, gli occhi neri di rabbia ancora puntati sul corpo immobile di Thomson. Non un briciolo di rimorso nei suoi lineamenti scolpiti.

Quando mi raggiunge, mi afferra delicatamente per le spalle, tirandomi contro di sé in un abbraccio protettivo. Mi trascina in direzione dell'uscita, coprendomi interamente con il suo corpo.
Il suo calore mi avvolge, e improvvisamente tutta la tensione mi lascia, come se la sua presenza fosse l'unica cosa che può tenermi al sicuro.
«Va tutto bene», sussurra. «Va tutto bene, okay? Adesso ci penso io. Sei stata brava, amore. Sei stata brava».

La sua voce è ferma, autoritaria, ma con una dolcezza che mi fa cedere alla stanchezza che per troppo tempo ho ignorato. Evan mi guarda negli occhi, cercando di trasmettermi sicurezza, e per un attimo riesco a credergli, nonostante tutto. «Esci fuori, ci sono delle ambulanze. Non è finita, ma tu devi andartene da qui», continua, il tono perentorio, lasciandomi intendere che non accetta discussioni.
Sento le mani tremare, il cuore ancora batte troppo forte nel petto, ma annuisco, incapace di oppormi. Mi spinge delicatamente verso l'uscita del magazzino, e prima che possa protestare, già mi trovo all'esterno.

L'aria fredda della notte mi colpisce il viso, un contrasto violento con l'asfissiante calore del conflitto che ho appena lasciato alle spalle. Di fronte a me, le luci intermittenti di un'ambulanza lampeggiano, illuminando l'asfalto irregolare. Gli infermieri mi vedono, ma non mi avvicino subito.
Mi volto indietro, verso le porte del magazzino, e una sensazione di vuoto mi avvolge. Evan è ancora lì dentro. Non ho finito con lui, non abbiamo finito. Ma la sua figura imponente, che si staglia tra le ombre, mi trasmette una forza che non posso ignorare. Sa cosa deve fare.

Faccio qualche passo verso l'ambulanza, ma proprio in questo momento, un rumore improvviso lacera l'aria. Un altro sparo. Mi fermo, il fiato si blocca in gola, il sangue si ghiaccia nelle vene.
Il silenzio che segue è assordante. Poi, dalla radiotrasmittente di uno degli agenti vicini, si sente una voce agitata, distorta dal rumore di fondo. «Agente a terra. Ripeto, agente a terra. Ferita da arma da fuoco. Non è cosciente. Si tratta... Si tratta del signor Royden».
No.

💀💀💀💀
Ciao a tutti!
Come state? 😂😂
Sicuro non bene dopo la fine di questo capitolo 🫠
Non vedo l'ora di leggere i vostri scleri 😂😂😂
Ci avviciniamo alla fine della storia 🥲
Già mi mancano questi due.
Fatemi sapere cosa ne pensate del capitolo.
Inoltre vi ricordo che su Instagram mi trovate com'è lovewillkillus_
Mentre se volete vi invito a dare un'occhiata alla mia nuova storia: AMORI E ALTRI MALANNI.
Un bacio grande
Sara

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