43. Doppio disastro

"Bird set free" Sia

"Troppo corto".

Mi spogliai velocemente e indossai il quinto della lista che Marty aveva preparato per me. Alzai le braccia e feci un giro su me stessa.

"Troppo corto"

"Sai dire solo 'Troppo corto'? Hai detto la stessa cosa di tutti i vestiti precedenti!", esclamai spalancando gli occhi verso di lei, stesa sul mio letto ad osservarmi come se fossi ad un colloquio di lavoro.

"Perché erano tutti troppo corti", affermò semplicemente.

Alzai gli occhi al cielo e gli diedi le spalle mentre mi infilavo l'ultimo vestito, sperando che non disprezzasse anche questo. "Qual è la tua concezione di corto, scusa?"

"Quel tipo di vestito facilmente levabile. Basta un attimo e Tyler si insinua nell... "

"Okay, ho capito". Mi girai e sorrisi forzatamente, alzando le braccia per darle la visuale intera. Cercai di andare oltre quello che stava cercando di insinuare. Insomma... non è che mi facesse stare bene pensare  una cosa del genere. Ma non volevo turbarla con le mie paranoie, quindi preferii non farglielo notare, perché sapevo che non l'avesse detto con cattive intenzioni. "Questo?"

"Si". I suoi occhi scorrerono dalla mia testa fino ai piedi. Poi finalmente la vidi annuire. "Si. Può andar bene"

"Troppo corto". Jordy apparve all'improvviso e si appoggiò di fianco all'uscio della porta, sistemandosi gli occhiali da vista che portava per studiare le sue materie incomprensibili sugli occhi con un gesto rapido della mano.

"Non ti ci mettere anche tu"

"Non è poi così tanto corto", osservò Marty.

"E' troppo corto, Ele. Non uscirai di casa così. E' già tanto che la mamma abbia deciso di sospendere la tua punizione"

"E di chi è la colpa della mia punizione?", rimarcai posandomi le mani sui fianchi ed inclinando la testa.

"Tua e delle tue folli uscite serali, in cui non si sa quello che fai"

Non riuscii a nascondere la frustrazione. Perché diavolo non si fidava e basta? Ero sua sorella, cavolo! "Stavamo solo studiando, Jor. Te l'ho già detto"

"Se lo dici tu ". Sparì dalla mia visuale con neanche troppa enfasi, non lasciandomi neanche il tempo di replicare. Dio, quanto era frustrante!

Se prima fosse piacevole sapere che si preoccupasse per me, e che a volte mi faceva pressione solo per il mio bene, in quel momento era così snervante. Volevo solo che mio fratello accettasse le mie scelte di vita e che le rispettasse come io facevo con lui. Ero stufa marcia della sua iperprotettività nei miei confronti.

"Non ascoltarlo, sorellina. Questo è il migliore". Marty si alzò dal letto e mi sorrise alzando i pollici in su. Mi fece l'occhiolino dando un ultimo sguardo al mio vestito nero quasi fino al ginocchio, con le maniche lunghe e delle piccole e tenere decorazioni floreali sulla parte inferiore della gonna.

"Buona fortuna per la tua uscita a quattro". Detto questo uscì dalla stanza e qualche secondo dopo chiuse la porta della sua, attaccata a quella di Jordy in fondo al corridoio.

Mi guardai un'ultima volta allo specchio prima di scendere e prendere la borsa. Ci infilai il telefono e le chiavi di casa e, una volta all'ingresso al piano di sotto, afferrai la giacca dall'appendiabiti.

"Sei splendida, amica mia. Dove le hai tirate fuori quelle gambe assassine?", esclamò Susan una volta in macchina. Provò anche a fischiare per dimostrare la sua approvazione, ma uscì solo un suono strozzato.

"Neanche tu sei da meno", osservai, notando quanto la sua passione per il blu stasera si fosse fatta sentire. Indossava un vestito completamente attillato di colore blu, un giacchetto celeste, scarpe con il tacco blu. Oh, e non dimentichiamoci la collana con uno strano ciondolo blu. Avrebbe dovuto rappresentare il senso della vita, una cosa del genere.

"Si vede che sono nervosa?", mi chiese ravviandosi i capelli con uno strano gesto delle dita.

"Assolutamente no. Sfodera uno dei tuoi migliori sorrisi da 'Sono calma e felice' e andrà tutto bene". la rassicurai dandole una leggera pacca sulla spalla, le mani sul volante e lo sguardo fisso sulla strada. Le prime luci della sera cominciavano a farsi vedere in lontananza, dove la superficie del sole scompariva e, attraverso quella sottilissima linea, prendeva il suo posto la luna.

"Okay. Beh, speriamo, almeno"

Mi venne un po' da ridere a vederla così agitata. Io non ero poi così tanto nervosa, a dire il vero. Se fosse stato un 'vero' appuntamento tra me e Tyler, cavolo se lo sarei stata. Ed all'inizio l'idea era quella.

Ma la situazione era... degenerata. Dopo che Clay aveva preso a pungi Kendall, la tensione ogni volta che ci ritrovavamo tutti insieme era insopportabile. Credevo che... Argh, non lo so. Certo, non è che il suo comportamento mi fosse andato troppo giù, ma a Susan è andato proprio di traverso.

Lei e Clay non riuscivano a stare nella stessa stanza senza che chiunque gli fosse intorno lo notasse. Non facevano altro che scambiarsi frecciatine, insulti, e spesso urla. E la cosa che mi sembrava più strana era che non faceva altro che ripetermi che non voleva avere nulla a che fare con lui. Eppure all'idea di incontrarlo ad una semplicissima cena fremeva.

"Sicura che non ti dispiaccia che ci siamo intromessi nel vostro appuntamento?"

"Ti ho già detto che non fa nulla. E' di gran lunga più interessante sapere di aiutare due innamorati"

"Per Tyler va bene?", domandò incerta. Non commentò la mia uscita, però, e ne fui immensamente felice.

Beh, che dire. L'idea non l'aveva reso particolarmente entusiasta. Quando gliel'avevo detto, poi, mi sembrava anche di cattivo umore. Non ribatté e se ne andò semplicemente, senza commentare la questione, quindi interpretai forzatamente il suo silenzio come un sì. Ovviamente sapevo non lo fosse, ma non avevo la minima intenzione di riferirlo a Susan.

"Va bene", risposi solamente, con la paura che qualsiasi altra parola in più potesse fornirle indizi sul fatto che non le stavo dicendo la verità.

Avevamo scelto, per la nostra 'gran' serata, un semplicissimo e banalissimo ristorante a pochi minuti da casa. Più le cose fossero state formali, più imbarazzo ci sarebbe stato. Da aggiungere alla quantità abbondante che c'era già.

Io e Susan ci sedemmo subito al nostro tavolo mentre aspettavamo Tyler e Clay. Quando vidi gli inconfondibili ricci capelli castani di Clay spuntare dalla porta d'ingresso cominciai a chiamare incessantemente Tyler. Non avevo intenzione di gestire da sola la tensione tra questi due.

Dopo almeno dieci squilli, riagganciai il telefono frustrata, nello stesso momento in cui Clay (almeno, una versione di lui totalmente imbarazzata) prese posto in modo titubante davanti a noi.

"Buonasera, ragazze", ci salutò in evidente disagio. Sembrava si fosse dato da fare per trovare qualcosa di adatto alla situazione. Si era messo una semplice camicia bianca che fuoriusciva dai suoi pantaloni neri, e si era tirato indietro i riccioli con il gel.

"Siete splendide, entrambe", aggiunse quasi subito. Apprezzai il fatto che mi avesse lanciato un'occhiata prima di buttare gli occhi su Susan e non staccarli mai più.

"Ti sei fatta una nuotatina prima di venire qui? Sembra che tu sia passata sotto una cascata di vernice blu"

"Sei poco carino, Clayton", ribatté Susan.

"Non chiamarmi Clayton"

"E tu sii più gentile". Lui alzò gli occhi al cielo senza risponderle. "Tyler?", domandò dopo qualche minuto.

"Me lo chiedo anch' io", ammisi nervosamente.

"Hai provato a chiamarlo?", intervenne Susan, tentando di controllare la sua voce.

"Tre volte. Dopo un po' parte la segreteria"

"Forse sta guidando e non può rispondere... ",  tentò.

"Non credo dobbiamo più preoccuparcene". Clay guardò dietro di noi. Neanche il tempo di girarmi, che Tyler si materializzò al suo fianco. Indossava uno dei suoi soliti maglioni neri ed un paio di Jeans.

"Scusate il ritardo", disse sedendo vicino a Clay. Notai solo in quel momento guardando bene il suo viso, che aveva un'aspetto terribile. I capelli erano tutti spettinati, due profonde occhiaie solcavano il suo volto paurosamente bianco e stanco, ed aveva gli occhi annebbiati.

"Ti senti bene?", gli chiese Susan notando il suo aspetto.

"E' vero, amico. Non hai una bella cera", osservò Clay senza mezzi termini.

"Sto benissimo. Ordiniamo?", domandò con tono spazientito. Avevo già un brutto presentimento per la serata.

"Allora. Come vanno gli allenamenti?", chiese Susan per costruire un qualche tipo di conversazione, visto che nessuno sembrava intenzionato a spiccicare la prima parola.

Clay e Tyler la guardarono di traverso per la domanda un po' frivola. "Vanno bene. Contiamo di vincere anche l'ultima partita della stagione, per chiudere l'anno in bellezza", ammise Clay mettendo in bocca un pezzo della sua bistecca. "Giusto?". Si girò verso Tyler. Lui, però, sembrava così assente.

"Giusto", rispose sottovoce. Non ero affatto sicura di averlo sentito, o di aver soltanto visto le sue labbra mimare la parola.

"E poi?". Avevo la vaga impressione di riferirmi più a Clay, che a Tyler.

"Cosa?", domandò lui.

"Dopo. Dopo la fine della scuola. Il college, quella roba lì", spiegai.

"Già, poi?", intervenne Susan, quasi come a volerlo sfidare.

"Poi si vedrà", rispose Clay tranquillamente.

"Certo. Si vedrà", le fece eco lei mettendo il broncio. Non avevo idea del motivo per cui si stessero punzecchiando, ma immaginai avesse a che fare con il fatto che si odiassero. Di certo non avevo intenzione di chiedere: l'ultima cosa che volevo era che il cibo volasse fuori dai nostri piatti.

"E tu?". Quando Clay vide che Tyler non rispondeva, gli diede una pacca sulla spalla per farlo svegliare. Avevo lo stomaco contorto per la preoccupazione da quando l'avevo visto così.

"Si, scusate", farfugliò sistemandosi i capelli. "Io cosa?"

"Parlavamo del college", gli spiegai cercando di mantenere la calma e non lasciarmi prendere dall'ansia. La sua espressione spaesata era terribilmente angosciante. Ma cercai di non abbandonarmi ai pensieri peggiori: avrà solo dormito poco.

Tyler si girò a guardarmi per la prima volta in tutta la serata. Non riuscii ad interpretare il suo sguardo, però. Avrei detto che fosse solo stanco, o magari un po' confuso, ma dovetti obbligarmi ad aprire gli occhi. Non sembrava proprio solo confuso.

"Il college", ripeté a sé stesso. "Non ne ho la più pallida idea"

"Quindi cosa farai?", gli chiese Susan.

"Cos'è tutta questa pressione?", replicò in modo urtato. Sarei voluta andare lì e fare qualcosa quando vidi l'espressione ferita di Susan. "Mancano ancora mesi. Godiamoceli e basta"

"E poi quando finiranno?". Tutti gli occhi si puntarono su di me. Normalmente ne sarei stata intimorita, ma in quel momento la mia unica intenzione era quella di capire che cosa prendesse a quello che avrebbe dovuto essere il mio ragazzo.

"Non lo so, non voglio pensarci", replicò abbassando la testa. Non faceva altro che ripetermi che non voleva pensarci. Non volevo mettergli pressione, ma ero un po' preoccupata per lui. Avrei voluto farglielo notare, ma non mi sembrava né il momento né il luogo, e soprattutto nello stato in cui si trovava.

Durante il resto della cena cercai lo sguardo di Tyler più volte, ma l'unica cosa di cui sembrava preoccuparsi era proprio di evitarmi, come se volesse farlo apposta. Così, mi limitai al mio solito silenzio, mentre rivedevo nella mente tutti i possibili motivi per cui avesse potuto avercela con me. O anche solo essere così distante.

Sì, distante era l'aggettivo che più gli si addiceva in quel momento. Chino sul suo piatto, come se si volesse toccare il petto con il mento, non disse ne fece nulla. Sembrava davvero un cane bastonato. E nonostante un po' ce l'avessi con lui perché mi stava evitando, dentro di me ero solo dispiaciuta e ferita a vederlo così.

Susan e Clay, per grazia di Dio, non esplosero in conversazioni troppo mirate e decise come era loro solito fare negli ultimi tempi, e nel mio silenzio gliene fui davvero grata.

Dividemmo il conto e, una volta fuori, mentre l'aria dei primi giorni di Aprile ancora gelida mi graffiava il volto, vagammo un po' per le strade intorno al ristorante.

"Vi va un gelato?", propose Susan speranzosa nel continuare la serata. Ero felice che almeno lei si stesse divertendo.

Come se potesse entrare dentro di me, Tyler mi aveva trasmesso il suo umore nero. Ma non ero tanto amareggiata, quanto solo dispiaciuta. Camminava affianco a me, né troppo lontano, ma neanche troppo vicino. Aveva entrambe le mani nelle tasche del giacchetto e si stringeva nelle spalle per proteggersi dal freddo. O da me, ero indecisa.

Ci fermammo nel parcheggio, aspettando di trovare un compromesso tra di noi. "Certo", rispose Clay per primo.

Lui e Susan si girarono a guardare me e Tyler. "Per me va bene", acconsentii.

"Tyler?", domando Clay. Mi sembrò che lo stesse chiedendo al vento.

"Cosa c'è?", chiese evidentemente infastidito che qualcuno l'avesse disturbato.

"Ti va un gelato?", ripropose Susan. Io me ne stavo in silenzio come un'idiota. Non avevo voglia di replicare perché, a dire il vero, non sapevo cosa dire.

"Perché dobbiamo mangiare un gelato quando ci sono cinque gradi?", intervenne Tyler, a dispetto di tutto quello che ci eravamo aspettati di sentire.

"Un modo per passare del tempo insieme, immagino", osservò Susan scrollando le spalle nel pesante giacchetto. Mi lanciò un'occhiata stranita, ma non seppi darle risposta. Non ne avevo neppure per me stessa.

"E cosa abbiamo fatto fino ad ora? Non vi è bastato?"

Okay, questo era davvero troppo. Non si era mai comportato così prima d'ora. Sarei potuta passare sopra a qualcosa che avesse detto se non fosse stato nelle sue intenzioni, ma il suo tono lasciava chiaramente trapelare che era e come nelle sue intenzioni. E la cosa non mi andava affatto bene.

Questo non era il ragazzo che amavo. Insomma, fisicamente lo era. Ma il Tyler che conoscevo io non si sarebbe mai rivolto così a delle persone con cui aveva piacere nel passare del tempo insieme. Era ovvio che c'era qualcosa che non andava.

L'avevamo capito sia io che Susan. E non me ne sarei rimasta lì a guardare uccidere i suoi rapporti con le persone solamente perché quella mattina si era alzato dalla parte sbagliata del letto.

"Mi spieghi che diavolo ti prende?", sbottai girandomi furiosamente verso di lui.

Vidi, anche nel buio, i suoi occhi illuminarsi, ma fu' solo per un brevissimo instante. Subito dopo tornarono offuscati come lo erano stati per tutta la serata. "Che vuoi dire?", domandò assicurandosi di non lasciar trapelare nella sua voce alcun tipo di emozione.

"Che voglio dire, Tyler? Ma fai sul serio? Cos'è, ti sei svegliato con la voglia di gettare merda sugli altri?", urlai. Ero perfettamente consapevole di sembrare una squilibrata, soprattutto alle persone che passavano nel parcheggio e si fermavano ad osservare la scena. Non mi importava affatto del loro giudizio, però.

Avevo solo un disperato bisogno di rivedere l'amore negli suoi occhi per avere la forza di andare avanti.

"Ti stai rendendo ridicola. Smettila", osservò guardandosi intorno.

Lo feci anche io e dovetti obbligarmi a darmi una calmata. Chiusi gli occhi per un secondo, poi li riaprii. Mi sembrò di vedere i suoi più fragili e vulnerabili.

"Okay. Prima di tutto, sembra che tu non dorma da settimane, ed è spaventoso", ammisi, tentando di calmare il mio tono di voce, ma risultò ugualmente insicuro e tremante.

"Sto bene. Sono solo un po' stanco", si difese. La mia vera domanda però era: Stanco di cosa?

"Allora perché stasera sembra che ti sia morto il gatto?", continuai, sperando che facendone dell'ironia avrebbe migliorato le cose. Per fortuna funzionò. Tyler abbozzò un sorriso, che tentò di nascondere quasi subito.

"Non è nulla, davvero. E' solo che ho preso male una cosa che mi hanno detto", ammise finalmente. A quel punto la preoccupazione si trasformò in pura curiosità.

"Che cosa?", gli chiesi.

Il gelo tornò a ripopolare il suo viso, e mi maledii per averlo permesso. Serrò la mascella e strinse i pugni, chiaramente intenzionato a non voler accennare nulla sulla faccenda. "Non è importante"

"Se a quanto pare ti fa stare così, credo proprio che lo sia", insistei.

"Ele, lascia stare", si intromise Clay. Okay, la situazione cominciava a farsi strana. Clay sapeva che cosa gli succedeva ed io no?

"Perché? Tu sai di che parla?"

Si mise sulle difensive ed abbassò lo sguardo. "No", rispose con neanche troppa enfasi.

"No? Perché ho l'impressione che sia tutto il contrario?"

"Allora questo gelato? Io sto morendo di fame!", esclamò Susan tentando di rimediare alla situazione.

Clay per la prima volta sembrò acconsentire volentieri ad una delle sue proposte. "Andiamo"

Mi affrettai ad afferrarlo e bloccargli il braccio prima che potesse muoversi. Sentivo gli occhi di Tyler bruciarmi sul colpo. Sul viso. Sulle mani. "Che diavolo succede?", implorai.

"Ele, ti prego ", sussurrò Susan.

"Anche tu lo sai?", dissi mentre sentivo gli occhi spalancarsi involontariamente. Davvero, mi stavano prendendo in giro o cosa? Mi sentivo davvero stupida ed inutile in quella situazione.

"Io... ", farfugliò, mentre vedevo il suo viso lasciarsi abbandonare al panico.

"Non sono affari tuoi, okay?", ringhiò Tyler con un tono di voce così furioso che non sapevo neanche avesse. Cavolo se faceva male. Sentivo il cuore martellarmi nel petto e minacciare di esplodere, o addirittura smettere di battere.

Non sapevo cosa dire. Ma, non saprei dire se per fortuna, non ce n'era bisogno. "In realtà sono affari suoi ", mormorò Susan tra sé e sé. Clay si girò a guardare prima lei, e poi me in modo apprensivo.

E Tyler, invece, era solo distrutto. Non trovavo un'altra parola per descrivere le sue spalle ricurve verso il basso, i suoi occhi derisi e le sue mani strette a pugno.

"Che vuol dire che sono affari miei?", chiesi, non preoccupandomi del tremolio che sentivo nella mia voce. Desideravo quella risposta. Ma forse, più di tutti, la temevo, e di certo, qualunque fosse, ero sicura di non essere pronta a sentirla.

"Stava scherzando", buttò Tyler sulle difensive.

"Stava scherzando? Mi avete preso per un idiota?", gridai. Il parcheggio si era fatto deserto, per mia fortuna. Potevo almeno sfogare la rabbia liberamente.

"Tyler... ", sussurrò Susan. Mi girai verso di lei, poi verso Clay. "Amico... "

"Maledizione", mormorò Tyler a denti stretti. Sembrava andato fuori di testa. Si passava nervosamente una mano tra i capelli, o stringeva forte gli occhi, o serrava la mascella, stringeva i pugni. Era spaventoso vederlo così, ed era ancora più spaventoso essere consapevole che non avevo la più pallida idea del motivo per cui lo stesse facendo.

Mi venne in mente che avesse potuto sapere che gli stavo nascondendo su Maggie e Malcom. Ne avevo parlato solamente con Susan perché avevo bisogno di dirlo a qualcuno, ma non ero sicura del fatto che gliel'avesse detto. E di sicuro mi aspettavo una reazione completamente diversa.

"Ho paura", ammisi avvicinandomi a lui. Mi guardò, ma non riuscii a leggere nessun tipo di emozioni nei suoi occhi.

"Sta cercando chi ti ha fatto del male da piccola", esplose la voce di Susan tutto d'un fiato. Dovetti analizzare ogni singola parola nella mia mente per capirne il significato da quanto aveva parlato veloce.

Ed allora, capii che quella che avevo provato prima era solo tristezza. La paura arrivò in quell'esatto istante, quando il vento costruì davanti a me le parole che non avrei mai voluto sentire. Giuravo di averle viste. Incise in modo permanente sulle labbra di Susan, nei capelli di Clay, negli occhi della persona che amavo.

Permanente era la parola più esatta e sbagliata allo stesso tempo. Esatta per loro, sbagliata per me.

"Cosa?", sussurrai con una morsa alla gola, che rese incerto il mio respiro per un secondo.

In un attimo Tyler mi fu accanto. Tentò di accarezzarmi i capelli, le guance, il viso. Ma l'unica cosa che percepivo sulla pelle era la paura. "Mi dispiace. Guardami. Ho bisogno di spiegarti", tentò di dire addolcendo il tono della voce.

Avrei voluto urlare, ma sapevo che i polmoni non me l'avrebbero permesso, Quindi mi abbandonai alla rabbia. Non era una soluzione, ma era per me un'inevitabile rimedio.

"Che cosa stai facendo?", chiesi. Sentivo il bisogno di accertarmi che fosse davvero la verità prima di fare qualcosa di irrazionale, dettato solo dall'ira del momento.

Sembrò sul punto di scappare. Guardò dietro di me, in cerca di aiuto, o di un minimo di conforto in Susan o Clay. Evidentemente non lo trovò, perché piantò di nuovo gli occhi nei miei in modo ancora più disperato. "Sono andato alla polizia e... "

Okay. Questo era anche peggio di tutto quello che mi ero immaginata di scoprire. "Alla polizia?", ripetei sbattendo le palpebre, cercando di mettere a fuoco la figura di Tyler che cominciava a diventare offuscata.

"Si... Mi hanno detto che... "

"Non voglio sapere che cosa cazzo ti hanno detto!", urlai agitando le braccia. "Non voglio sapere nulla di tutta questa faccenda, maledizione!". Mi coprii il viso con le mani nel disperato tentativo di nascondere le lacrime che sentivo arrivarmi agli occhi. Non potevo mostrarmi debole. Non ora.

"Ascoltami", sussurrò, ma nonostante ciò la sua voce suonò decisa come non mai. E, onestamente? Invidiavo il fatto che lui riuscisse a sembrare così sicuro di sé, mentre io mi sentivo andare lentamente in pezzi.

"No", replicai allontanandomi. Feci qualche passo indietro, ma non servì a nulla. Tentò di afferrarmi le mani per poterlo guardare negli occhi. "Lasciami", sibilai strattonando la sua presa.

Non ne volle sapere. "Lasciami!", gridai. Lo fece, alzando le mani in segno di resa. Ma io non volevo che si arrendesse. Se c'era una cosa di cui avevo bisogno era quella di sfogarmi.

"Ele, ti prego. So che adesso sei arrabbiata ma... ". Susan tentò di avvicinarsi e di mettermi una mano sul braccio. Senza troppi mezzi termini me la scrollai di dosso. Sapevo di averla ferita, ma non mi importava. Era lei che aveva ferito me.

A quel punto mi rimase una cosa da fare. Lasciai che la rabbia si impossessasse di me. Desideravo così tanto ferire Tyler nello stesso modo in cui lui aveva ferito me. Non pensai neanche al modo migliore per farlo, perché non ce ne fu bisogno.

"Sai una cosa, allora? Pensi di essere l'unico ad avere il potere di far del male alle persone? Di nascondergli le cose e sperare che vada tutto bene? Che non si ribellino? Che ti stiano a sentire e accettino tutte le stronzate che fai senza fiatare? TI sbagli, Tyler. Ti sbagli di grosso", sibilai avvicinandomi a lui. Il fatto che non riuscii ad intimorirlo non fece altro che farmi arrabbiare ancora di più.

"Ele. No", tentò di persuadermi Susan dietro di me. Non ci sarebbe riuscita, però. Ero del tutto intenzionata a dire ciò che avevo da dire.

"Lasciala sfogarsi, Susan", disse Tyler tenendo gli occhi fissi nei miei, come se mi stesse sfidando a distogliere lo sguardo per prima.

"No, amico, tu non capisci E' meglio ", intervenne Clay. Non mi soffermai neanche per più di due secondi nel capire perché tutti sapessero di cosa stessi parlando.

"Sfogarmi, Tyler? Dici davvero? Sai qual è la verità? La verità è che eri convinto che fossi l'unico che stava nascondendo qualcosa. Che fossi l'unico abbastanza pieno di sé da potersi permettere di mentirmi", continuai avanzando.

"Stai dicendo cose che non pensi. Forse è meglio che tu la smetta", replicò stringendo i pugni lungo i fianchi.

"E chi lo ha detto? Tu? Credi di sapere che cosa penso?"

"Ele, smettila. Te ne pentirai", disse Susan con voce decisa dietro di me.

"Io dovrei smetterla? Ma fate sul serio?!", urlai girandomi. Quello bastò a zittirla.

"Vuoi sapere una cosa? Forse sei talmente accecato dall'ego per te stesso che non ti sei accorto che ti stavo nascondendo qualcosa. E non mi sorprende affatto"

"Smettila", sibilò.

"Sai una cosa? A Natale, mentre tu te la spassavi a poker, l'unica persona che è rimasta della tua famiglia ha preferito far sapere a me, e non a te, che tuo padre picchiava tua madre. Che l'ha fatto per tutta la vita, e tu non te ne sei mai accorto. Questo come ti fa sentire, Tyler? Adesso capisci come ci si sente?"

Lo vidi indietreggiare, sbattere ripetutamente le palpebre mettendo a fuoco la scena davanti a lui. Susan strattonò Clay per un braccio e lo obbligò ad allontanarsi. Quando rimanemmo soli, e vidi la sua espressione distrutta e contorta dal dolore, sentii inspiegabilmente le lacrime sgorgare dei miei occhi.

Mi sentii malissimo quando realizzai quello che avevo appena fatto. Credevo che mi avrebbe fatto sentire meglio fare in modo di fargli provare lo stesso dolore che provavo io.

Ma quando riaprì gli occhi dopo averli chiusi per qualche secondo, erano bagnati di lacrime trattenute a stento. Una morsa mi chiuse lo stomaco.

Tyler si portò una mano sul cuore e strinse forte, cercando di alleviare il dolore.

Avrei voluto urlargli che non funzionava così, ma non avevo più le forze per parlare.

"Non è vero", ripeté più volte, tentando di riuscire a convincersi che fosse così. Ma non ce ne fu più bisogno quando i suoi occhi incontrarono di nuovo i miei.

"Non è vero", sussurrò. Una lacrima solitaria gli solcò il volto. Mi venne da piangere, e volli strapparmi i capelli. Che diavolo mi stava succedendo? Quella non ero io.

Mi sentii male a vederlo così distrutto, ma allo stesso tempo mi diede fastidio. Perché se c'era qualcosa di sicuro nelle mie intenzioni era quello di ferirlo. Ma sospettavo davvero che vederlo così aveva ferito anche me, e non era stata una mossa tanto geniale.

"Mi dispiace", riuscii a sussurrare prima di rannicchiarmi a terra. Non mi ero mai sentita tanto peggio.

"Non è vero. Non ti dispiace", replicò accucciandosi verso di me. Era così dolcemente incredibile come, anche in una situazione del genere, quello che faceva forza ad entrambi e portava il peso del dolore sulle spalle era sempre lui. Perché leggevo nei suoi occhi quanto era devastato.

Quanto io l'avevo devastato.

Eppure stava comunque cercando di tenermi in piedi lui, quando a malapena ci riusciva con sé stesso.

"Perché me l'hai detto così?", domandò con voce rotta.

"Ti odio", replicai asciugandomi le lacrime. Tuttavia, ci pensò lui. Mi passò lentamente il pollice sulle guance con un sorriso triste sul viso. Mi spezzava il cuore.

"Tu non mi odi, nocciolina". Scosse la testa. Quello bastò per farmi riprendere. Non potevo dimenticare ciò che mi aveva detto solo pochi minuti prima.

Mi alzai di scatto da terra, assicurandomi di tenermi a debita distanza da lui. Quanto l'avevo ferito facendo solo un passo indietro era devastante, ma mi obbligai a non perdermi d'animo.

"Non credo che sia giusto che noi... ". Mi puntai un dito contro il petto, indecisa su cosa dire. Più che altro, indecisa se dirlo o meno. "Che noi continuiamo a... "

Lo vidi sbiancare. "Che stai dicendo?", mormorò.

"Non posso dimenticare quello che hai fatto, che stai facendo... Io non lo so. Maledizione, non so se è il caso... ", farfugliai.

"L'ho fatto per te", si difese. No, invece. Avevo il brutto presentimento che non fosse solo quello. E se lo stesse facendo solo per salvare sé stesso da me?

Scossi la testa, tentando di non lasciarmi persuadere. "Lasciamo stare tutto"

"Perché stai dicendo così?". Mi si spezzò il cuore, ma dovetti attingere a tutta la mia forza di volontà per rimanere lucida e proteggermi.

"Ognuno per la sua strada, okay?"

"No, nocciolina. Aspetta", tentò avvicinandosi a me con uno scatto, ma lo respinsi allontanandomi.

Mi strappai la collana che mi aveva regalato dal collo e la gettai ai nostri piedi. Lo vidi chiudere gli occhi. Mi sentii così orribilmente vuota.

"Ognuno per la sua strada", ripetei. Quella, per me, non era più una domanda.

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