39. Tutto messo in discussione
"Impossible", James Arthur
"Alex?", ripetei come un'idiota. Non poteva essere lo stesso Alex che pensavo io. Non avrebbe avuto nessun motivo per venire a parlarmi con così tanta foga. Non ci vedevamo da anni.
"Alex Larson. Mary Larson. Chloé Larson. Andiamo, non ti ricordi di me?"
"Quanti anni hai?", domandai. Speravo con tutto il cuore che le mie teorie folli venissero smentite.
Espresse il suo disappunto per la domanda strana in una smorfia. "Quattordici. Beh, quasi quindici... A Maggio... il tredici Maggio... ma questo che centra?"
Sforzai il mio cervello a compiere quel calcolo. Sei anni, più otto anni faceva... Quattordici. Quattordici anni.
"Okay". Scossi la testa per scacciare via i pensieri peggiori che mi sono venuti in mente. Cerco di pensare erano. Non avrà avuto nulla di importante da dirmi. Sarà passato per un saluto.
"Okay cosa? Ti ricordi di me si o no? Abbiamo passato tutte le estati insieme da bambini"
Mi si rivoltò lo stomaco. Tra tutto, doveva andare a pescare proprio quei ricordi, nello stesso esatto momento in cui stavo cercando di dimenticarli del tutto.
Annuii come un'ebete. "Si, si, si. Mi ricordo di te, Alex"
Sentii Tyler percorrere i pochi passi che ci separavano ed afferrare automaticamente la mia mano, come se quel gesto non gliel'avesse suggerito il cervello, bensì il cuore. Le sue dita erano sicure e stabili, e riuscirò o a tranquillizzare un po' le mie, che sembrava potessero sgretolarsi da un momento all'altro.
"Perché sei qui?". Fui percossa da un brivido di paura quando sentii la domanda uscire dalla bocca di Tyler, la stessa che io stavo cercando di evitare. Perché non ero affatto sicura di voler sapere la risposta.
"Devo parlare con Ele. Questo mi sembrava chiaro", ribatté il ragazzo con una smorfia di disgusto osservando le nostre mani intrecciate. Mi venne automatico nasconderle dietro la mia schiena.
"Di cosa?", rispose Tyler, non lasciandosi intimorire.
"Che ti frega, spostato". Lo squadrò da capo a piedi.
"Sto perdendo la pazienza, nocciolina", sibilò a denti stretti fissando Alex come se fosse un nemico da abbattere.
Mi sembrava di star masticando sassi quando pronunciai le stesse parole che mai avrei voluto rivolgere nella situazione in cui mi trovavo. "Di che cosa devi parlarmi?"
Fissò Tyler con un'espressione più che minacciosa, pensando probabilmente di poter intimorire un ragazzo di quattro anni più grande di lui. Sbuffò e, quasi con disprezzo, tornò a fissare me. "Di una cosa. Ma lui non ce lo voglio. Chi è, il tuo ragazzo?"
"La cosa ti crea problemi, ragazzino?", replicò Tyler socchiudendo gli occhi. Con leggero piacere, lo vidi deglutire e sbattere ripetutamente le palpebre.
"Quindi?", domandò Alex spazientito.
"Beh... Di qualsiasi cosa si tratti, puoi dirmela anche davanti a lui, non c'è problema". Assunse un'espressione vagamente preoccupata, il che non fece altro che farmi battere il cuore per il nervosismo ancora più forte.
"No, Ele, forse non hai capito. Non credo proprio sia il caso, davvero amico, forse è meglio se torni dentro", parlò con Tyler, ma il suo tono non era più di scherno come quello di poco prima. Si sentiva che non era mai stato più serio di così.
Deglutii, deglutii, deglutii. Provai in tutti i modi a scacciare la brutta sensazione che mi si era formata in gola.
Ma mi riuscì così difficile farlo mentre osservavo questo ragazzo così cresciuto, che era rimasto incastrato nei miei ricordi più oscuri, e per un secondo l'idea di scappare a gambe elevate senza affrontare il problema mi sfiorò la mente.
Mi ricomposi immediatamente. Se era quello che pensavo, era anche l'unico modo per provare a superare davvero tutto quello. Ma mi spaventava così tanto che sentivo le gambe minacciare di cedere.
"Senti ragazzino, qualunque cosa sia mi sta bene, quindi smettila di farti troppi problemi e parla".
Alex si girò a guardarmi, come a chiedere il mio consenso. "Siete sicuri? Ele?"
"Si, si. Ha ragione. Qualunque cosa hai da dire a me puoi dirla anche a lui", confermai tentando di rimanere lucida.
"Se lo dite voi ", mormorò a sé stesso. Guardai Tyler, sperando che possa tranquillizzarmi. Mi rivolse uno dei suoi sorrisi 'Andrà tutto bene, ci sono io', e le mie mani smisero per un secondo di contorcersi su sé stesse.
"Beh... ". Si passò una mano dietro la nuca, tentando di allisciare i ricci e ribelli capelli biondi. "Fa freddino qui. Che ne dite di parlarne davanti ad una tazza di caffè fumante?", propose.
"Okay", accettai la proposta. Nonostante sapessi che il pensiero era talmente stupido da non valere il tempo che stavo impiegando per preoccuparmene, forse l'idea di un pubblico intorno a noi avrebbe potuto obbligare me stessa a non scoppiare in lacrime ed a contenersi.
Tyler rientrò in casa un secondo, per prendere le chiavi e i nostri giacchetti. Dopo aver chiuso la porta, ci incamminammo nel più completo silenzio verso il bar più vicino da quelle parti.
Ad ogni passo che percorrevo mi sforzai di non pensare a nulla. Sapevo per certo che Alex non era lì per raccontarmi che amava il suo coniglio, o che era morto il suo cane, o di quanto odiasse studiare, ma per cose indubbiamente più importanti. E il fatto che avesse paura che Tyler assistesse alla nostra conversazione mi turbava solo di più.
Quando arrivammo nel piccolo ambiente proprio dopo l'appartamento di Tyler, il buio aveva preso il posto dello straccio di sole che c'era solo cinque minuti prima. I lampioni cominciavano ad accendersi uno dopo l'altro, le luci del bar quasi mi accecarono quando spingemmo la porta a vetri e l'odore di caffè ci invase le narici.
Giusto qualche lavoratore che aveva appena concluso il suo turno occupa i tavoli, mentre sorseggiava una tazza di tè con la moglie o, all'occorrenza, con l'amante segreta.
Ordinammo i nostri tre caffè, ed aspettammo in silenzio finché le tazze fumanti non ci furono messe sotto gli occhi.
Mandai giù il mio come se stessi bevendo acqua, sperando che il bruciore in gola mi distraesse. Tyler mi lanciò un'occhiata preoccupata.
"Buono, no?", osservò Alex, tentando di alleviare la tensione.
Annuii e basta, fissandolo come se mi fossi incantata. "Stai bene?", sussurrò Tyler spostando leggermente la testa verso di me. Annuii ancora. Le parole sincere che mi ero ripromessa di dirgli mi morirono in gola.
"Sentite, non dovrei neanche essere qui. La mamma mi aveva proibito da sempre di parlartene, quindi vediamo di fare in fretta"
"Perché?", intervenne Tyler.
"Perché... beh, immagino perché comunque non c'era molto da fare"
"Che cosa centra tua mamma in tutto questo?", domandai con una difficoltà tale da mordermi la lingua subito dopo.
"Sai quando andavamo a mare, no? Grace era sempre così gentile con me e Chloé. Ci portava sempre la pizza bianca, quella del forno dietro casa. Cavolo quanto era buona... ho anche provato a cercarla, ma... "
"Vai al punto", lo interruppe Tyler con durezza. Lui sospirò, e bevve a lungo dalla sua tazza di caffè.
"Ele, non ho idea di cosa tu abbia passato quel giorno, davvero. So che probabilmente hai sempre vissuto con la convinzione che fossi troppo piccolo per capire, e forse facevi bene a pensarlo"
Sentii come se il mio stomaco minacciasse di restringersi da un momento all'altro. Avrei voluto tapparmi le orecchie e rannicchiarmi sulla lurida sedia di questo sporco bar. Sbattei le palpebre per costringermi a tenere gli occhi aperti.
"Non era così?", rifletté Tyler con voce spezzata. Sentii un pizzico di paura renderla incerta.
"Probabilmente si. Insomma, sono uno svitato anche adesso. Lo sanno tutti. Ma gli occhi ce li avevo, non è che non potessi vedere quello che stavo vedendo"
Quando si girò verso di me, la pietà che lessi nei suoi occhi mi diede la piena conferma di qualcosa che non avrei mai voluto sapere.
E poi, un bell'accompagnamento. Abbastanza frequente, direi anche.
Avevo perso il conto di quante volte, in situazioni simili, me le ero sentita dire. "Mi dispiace". Non saprò mai se a qualcuno fosse dispiaciuto davvero.
"Che cosa che cosa hai visto?", mormorai, ricacciando indietro le lacrime.
Scosse la testa mentre strizzava gli occhi. "Non lo dirò, mi dispiace. A vedere le vostre facce, non credo proprio ce ne sia bisogno", ammise.
"Okay", affermò Tyler annuendo. Stava cercando di fare quello che io non riuscivo a fare in quel momento: pensare in modo razionale. "Okay. Capito. Perché sei qui, solo per dirci questo?"
Afferrai istintivamente il mio maglione da sotto il cappotto e sfogai tutto quello che sentivo stritolando e strappando la stoffa.
Dovevo darmi qualcosa da fare per affrontare anche le prossime confessioni. Quando sentii il tessuto contorcersi, era come se mi sentissi più leggera.
"In un certo senso, si. Il fatto è che... ". Cercai attentamente le parole da utilizzare. "L'ho detto a mia madre"
Le mie dita vennero attraversate da una rabbia tale da riuscire a fare a brandelli l'orlo della mia maglietta.
Mi fermai quando sentii la mano rassicurante e decisa di Tyler insinuarsi sotto il mio cappotto in modo preoccupato.
Mi afferrò i polsi e li allontanò dal disastro che stavo causando, poggiandosi le mie mani in grembo per tenerle al sicuro.
"Che cosa le hai detto?", chiese lui per me.
"Quello che avevo visto. Non ne capivo il significato, ma mi sembrava strano, ovviamente. Quindi non appena sono andato da lei gliel'ho raccontato. Scusami, Ele, davvero. Ero piccolo, non capivo"
"E non l'ha detto a mia madre?"
"Avrebbe dovuto? Lo sapeva già da te", affermò semplicemente.
Quando scrutò le nostre espressioni, lo vidi così serio da mettermi angoscia. "Oppure no?"
Mi limitai a scuotere la testa. "Tu non gliel'hai detto? Quindi lei non ne ha idea?", domandò con tono scioccato.
"E' una lunga storia, ma ora lo sa. Vai avanti", lo ammonì Tyler.
Lo liquidai con uno strano gesto della testa, le mani bloccate da quelle di Tyler.
"Comunque... Certo, lei ha capito subito quando le ho descritto la scena. Così si... Quella sera stessa, ci siamo fatti un giro per la spiaggia prima di andare via. Avevo visto la macchina. Speravo di ritrovarla"
"E poi che cosa avreste fatto?"
"Quello che abbiamo fatto. L'abbiamo trovata. Quando l'ho riconosciuta, l'ho indicata a mia mamma, e lei ha preso la targa"
"Ha preso la targa?", le parole mi uscirono di bocca involontariamente, anche se avevo supplicato il mio cervello di non pronunciarle.
"Si". Annuii per confermare la sua risposta.
"E cosa ci ha fatto?", gli chiese Tyler.
Lui alzò le mani sopra la testa. "Avevo otto anni, amico. Non potevo farci molto. Mia madre la portò alla polizia, però. Sperava in un miracolo. Denunciò la cosa, fornì il numero della targa, sperando che sarebbero risaliti al proprietario"
Mi venne la nausea, e dovetti deglutire più e più volte per mandare giù la saliva, finchè non rimasi con la bocca secca. Il proprietario.
"Non l'hanno trovato, ovviamente", ragionò Tyler con voce incerta, sperando che fosse la verità.
"E qui arriviamo al motivo per cui sono qui". Sospirò e chiuse gli occhi. Per quanto fosse possibile, mi sentii ancora di più sprofondare.
"E' da quando ho otto anni, dal giorno in cui mia madre è tornata dalla polizia con un'espressione furiosa, che ci penso. Mi disse di non dire tutto questo mai a nessuno, per nessuna ragione"
"Lo feci?", sussurrai.
"Si Ele. Non era la mia vita, in fondo, ma la tua. Non avevo il diritto di parlarne con nessuno. Se non con te. Ed è per questo che sono qui ora"
"Perché solo adesso?"
"Perché prima credevo che mia madre fosse solo dispiaciuta per la delusione di non averlo trovato"
"Non era così?"
"Non del tutto. Insomma, in un certo senso si. Non voleva darti altri motivi per starci male, quindi mi ha chiesto di non parlarne. E li ho capito cosa intendesse. Ma era solo una parte della verità. Credo stesse solo coprendo le tracce"
"Tracce di cosa?", gli chiesi in preda all'agitazione.
"Della verità". Fece una smorfia che non riuscii ad interpretare.
"Quale verità?"
"Non ne ho idea. Ma non credo che il suo fosse dispiacere. Piuttosto... Impotenza, si. Quando seppe davvero come erano andate le cose in polizia, si arrese". Dal tono di voce con cui pronunciava le ultime parole, sembrava che avesse concluso le confessioni.
Un attimo di silenzio di riflessione cadde sul nostro tavolo, interrotto dal mormorio di voci intorno a noi.
"È tutto?", concluse Tyler.
"Si. Almeno, per quanto ne so io", rispose alzando le spalle. Una piccola sensazione di sollievo mi riscaldò tutto il corpo fino alle punte dei piedi.
"Non capisco che cosa intendessi con impotenza, però", osservò di fianco a me.
"Non lo capisco neanche io ora. Mi venne spontaneo. Disse 'Abbiamo perso'. Credevo che intendesse che non l'avessero trovato, ma oggi continuo a pensarci, e non mi sembra più solo questo. Disse anche che... "
"Basta", sussurrai. Il mio tono deciso e allo stesso tempo sofferente bastò per zittirli entrambi. Non mi importava nulla di esser sembrata brusca o arrogante. L'unica cosa che desideravo in quel momento era andarmene di qui e rinchiudermi da qualche parte per piangere tutte le lacrime che stavo a stento trattenendo.
"Okay", mormorò Alex. Lasciammo il bar qualche minuto dopo, con mio grande sollievo. L'aria gelida della sera mi distrasse per un istante da tutta quella orribile situazione.
Tyler mi porse le chiavi di casa sua. "Aspettami cinque minuti, ti riaccompagno io"
"Non c'è bisogno, mi faccio una passeggiata", risposi tentando di restituirgliele.
In tutta risposta, infilò le mani nelle tasche anteriori della giacca e mi rivolse un flebile sorriso. "Ti riaccompagno io, nocciolina", affermò in modo deciso. Affermazione che suonava più come un'odine.
Mi sforzai di sorridere, anche se ero sicura fosse sembrata più una smorfia che un sorriso, e mi incamminai verso casa sua con le chiavi a penzoloni tra le dita.
Tyler's pov
La osservai per qualche secondo andarsene via, fino a quando non sparì dietro l'angolo e il buio della notte me la portò via.
A quel punto, mi voltai verso la facciata del bar e mi avvicinai al ragazzino impertinente che avevo conosciuto solo un'ora prima, sperando che potesse fornirmi l'aiuto di cui avevo disperatamente bisogno.
"Perché ho l'impressione di essere nei guai?", domandò socchiudendo gli occhi. Mi sforzai di essere gentile, in modo da poter sperare di ottenere quello che volevo da un ragazzino di quattordici anni in preda agli ormoni e che parlava decisamente troppo.
"Non sei nei guai. Ma lo sarai, se non mi aiuti".
"Che vuoi da me? Sono stato il più gentile e delicato possibile nel riferirvi quello che sapevo"
"Non è per questo, infatti". Avrei dovuto ringraziarlo per avermi fatto aprire gli occhi, ma l'orgoglio mi impedì di farlo.
Non che prima fossi così cieco da non vedere in che stato riusciva a ridurla, ma il quel momento avevo davvero capito che bastava anche solo un accenno della faccenda e crollava.
E nonostante cercassi di starle vicino, non potevo entrarle dentro e spegnere il dolore che provava.
Potevo alleviarlo, ma non mi sarebbe mai bastato finché avessi avuto sotto gli occhi la prova del dolore che la consumava.
Ero deciso nell'aiutarla più di quanto sapevo avrei potuto fare. Anche se quello non le fosse sembrato il motivo giusto per farlo , speravo che potessi in qualche modo cambiare le cose.
Era un disperato tentativo di metterci del mio. Non credevo che l'amore, per quanto incondizionato potesse mai essere, sarebbe mai bastava.
"Senti, amico. Se vuoi un consiglio su come farti una canna, sarò più che felice di aiutarti. Altrimenti vai al sodo, ho di meglio da fare"
Mi trattenni davanti all'arroganza di quel ragazzo solo perché avevo bisogno di una risposta che solo lui potev darmi.
"Ho bisogno di aiuto"
"Questo mi sembrava chiaro. Sei uno svitato"
"Sai dirmi il motivo per cui tua madre non andò avanti con le ricerche?"
Ci pensò un attimo, perplesso dal mio tentativo di risollevare la conversazione disastrosa di prima.
"Beh, no, altrimenti te lo avrei già detto. Perché? A che ti serve saperlo?"
"Non sai neanche se trovarono mai qualcosa?"
"Ti ho detto di no, Sei sordo per caso? Ascolta, bello. Ho capito cosa cerchi di fare. Vuoi salvare la tua ragazza. E' un gesto carino, davvero. Ma io non so dirti nulla. Se davvero vuoi saperne qualcosa in più, vai alla polizia e chiedi. Loro sapranno cosa dirti"
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