6. Attraversare quel ponte
"Berkeley sosteneva che la materia non esiste, e che ciò che gli uomini percepiscono come mondo materiale non è nient'altro che un'idea nella mente di Dio, e che quindi la mente umana è una pura manifestazione dell'anima", spiega il professor Beckham, mentre osserva uno ad uno tutto gli studenti davanti a lui con un'espressione intimidatoria, cercando di capire se lo stiano effettivamente ascoltando.
"Scusi", domando, cercando di farmi vedere professore anche in fondo all'aula.
Tutti gli studenti all'interno della classe si girano verso di me, come improvvisamente svegliati dalle mie parole.
Giustamente, quando c'è da ascoltare una noiosissima spiegazione di filosofia, possono dormire, ma quando qualcuno dice qualcosa che non riguardi le materie scolastiche, si drizzano le orecchie a tutti.
Il professore infatti sembra infastidito da questa reazione generale, ma non ribatte.
Invece, gira lo sguardo verso di me e chiede:
"Si, Cassidy?"
Cerco di formulare al meglio la domanda da fare nella mia testa, e chiedo:
"Se, come ha detto lei, Berkeley sosteneva che il mondo materiale è soltanto una pura manifestazione dell'anima, i sentimenti che noi proviamo, che sicuramente trovano un posto nell'anima, nel mondo materiale, a cosa corrispondono secondo Berkeley?"
A quella mia strana domanda, il professore assume una espressione curiosa, quasi meravigliata, per come avessi potuto pensare una cosa tanto complicata e intrigata.
"Beh, non è una domanda facile a cui rispondere Cassidy, quindi complimenti"
Poi, rivolgendosi a tutti gli altri, domanda:
"Qualcuno di voi pensa di avere una risposta alla domanda della vostra compagna?"
Quando vede che le sue sensazioni erano fondate, ovvero che nessuno avrebbe detto una parola, assume un'espressione pensierosa.
"Questa domanda se la sono posta molti filosofi arrivati dopo Beckeley, ovviamente, ma solo alcuni hanno trovato risposta.
Molti hanno immaginato le emozioni più profonde dell'animo umano, come la paura, l'amore è la felicità, come qualcosa di instabile.
In fondo, è questo che le emozioni sono, instabili.
La paura non si può controllare.
L'amore non si può prevedere, e non si può scegliere.
La felicità è qualcosa che va e viene, ed è spesso condizionata dal mondo esterno.
Poi, come ci dice Schopenhauer, non ci sono mai veri momenti di felicità, solamente momenti di mancanza di dolore", comincia, alzandosi in piedi e iniziando a camminare per la stanza, scrutando tutti gli alunni davanti a lui.
"Quindi, i filosofi postumi a Beckeley, hanno usato delle metafore per rappresentare nel mondo materiale le emozioni all'interno dell'animo umano.
Sono tutte instabili, dalla prima all'ultima.
Non potremmo mai sapere come si comporteranno, che cosa ci porteranno a fare, ma non dobbiamo temerle.
Sono come un vecchio ponte: anche se è traballante, e apparentemente non sicuro e instabile, dovremmo provare ad attraversarlo comunque.
Non dobbiamo avere paura di compiere quei passi, perché magari quello che troveremo dall'altra parte sarà migliore di quello che abbiamo qui.
Prendiamo l'amore. Non dobbiamo temerlo, ma accoglierlo. All'inizio fa paura, e lo capisco. Siamo spaventati perché pensiamo che dall'altra parte del ponte ci sia qualcosa di oscuro ad attenderci, qualcosa che vuole solo farci del male.
Ma finché non attraversiamo quel ponte, non lo sapremo mai", afferma, e dopo quelle parole nella classe regna il silenzio più totale.
Sono tutti rimasti sorpresi da quel discorso, compresa me, e nessuno osa più parlare.
Molto probabilmente siamo tutti persi nei nostri pensieri, scatenati dalle parole che ci sono appena state dette.
"Comunque, come abbiamo già visto, le risposte non saranno mai del tutto certe, perché non possiamo studiare la mente di filosofi che hanno vissuto secoli prima di noi e che, in questo momento, non sono qui.
L'unica cosa che possiamo fare è studiare quello che ci hanno lasciato, e cercare di capirlo al meglio", conclude, riprendendo posto nella sua cattedra.
Quando suona la campanella, tutti gli studenti si alzano e si riversano in fretta fuori dalle aule.
"Voglio un approfondimento degli studi di Beckeley per venerdì!", urla il professore, per contrastare la confusione creatasi in seguito al suono della campanella.
Esco dall'aula in silenzio, immersa nei miei pensieri.
Le parole del professor Beckham mi hanno parecchio confusa.
Ho sempre pensato che il mondo che mi circonda cercasse i sentimenti, cercasse l'amore, la paura, la felicità.
Ci sono persone che, pur di provare qualcosa, si fanno del male.
Non ho mai pensato a quanto, dentro di noi, potessimo temere così tanto le emozioni.
Arrivo davanti al mio armadietto e poso tutte le mie cose, per poi dirigermi verso la palestra, per la lezione di educazione fisica.
Mi cambio velocemente ed entro nella grande sala, affiancata in entrambi i lati da spalti e cartelloni colorati di vecchie partite.
Quando arrivano tutti gli altri studenti, ci raggruppiamo in un cerchio, e il professore si avvicina.
Intravedo Tyler che si avvicina al gruppo, e mi chiedo che cosa stia pensando in questo momento.
Mi piacerebbe poter sapere che cosa gli passa per la testa.
Chissà se lui lo attraverserebbe quel ponte.
"Allora, ragazzi. Per iniziare l'anno al meglio, vorrei che faceste conoscenza tra di voi.
Lavorerete a coppie su una serie di esercizi che vi dirò, partendo dagli addominali.
Formate le coppie, io vi guarderò dagli spalti", urla il professore, per farsi sentire da tutti i presenti nell'enorme palestra.
Mi guardo intorno, cercando di vedere se qualcuno, come me, è rimasto da solo.
Non conosco nessuno di questo corso, come tutti gli altri del resto, e sono quasi sicura che rimarrò da sola.
Quando ormai tutti si sono allontanati con il proprio partner, vedo qualcuno che mi viene incontro.
Alzo lo sguardo e vedo Tyler, diretto verso di me, con un sorriso sul volto.
Si piazza davanti a me e incrocia le braccia, aspettando che io dica qualcosa.
"Beh, non mi ringrazi? Ti ho salvata dalla solitudine", commenta con un sorrisetto.
"Te l'ho chiesto?", domando io, cercando di tenergli testa.
"Ce n'era bisogno? Eri da sola, pensavo che ti avrebbe fatto piacere", ribatte, scrutandomi da capo a piedi.
Poi, senza darmi il tempo di rispondergli, si incammina verso i tappeti stesi sullo sporco pavimento della palestra, e non posso far altro che seguirlo.
Quando arriviamo, si siede e mi guarda stranito.
"Che c'è?", chiedo brusca.
"Me li reggi questi piedi si o no?", chiede acido, aspettando una mia reazione.
"Oh, si, scusa", dico, mettendo le mani sui suoi piedi, mentre fa gli addominali.
Quando finisce, tocca a me.
Mi stendo sul tappetino dove era lui proprio qualche minuto fa e, titubante, aspetto.
Non so precisamente cosa, forse che ci ripensi.
"Non c'è bisogno che mi aiuti, faccio da sola", inizio a dire, sperando di convincerlo, ma mi guarda solo in modo strano, come per cercare di capire se ci sia un doppio significato dietro quello che ho detto.
"Fammi il piacere, non ti reggi neanche in piedi", commenta sprezzante, posando le sue mani su di me.
"Non mi toccare, per favore", sussurro, cercando di dare il meno peso possibile a quello che ho appena detto, per non far suonare queste parole messe insieme più strane di quello che in realtà sono.
Ma lui, per la prima volta da quando lo conosco, cambia improvvisamente espressione.
Adesso, direi che sembrerebbe anche preoccupato.
"Che c'è che non va se ti tocco?", chiede in modo cauto, analizzandomi e cercando di capire se quella che dirò sarà la verità o meno.
Se c'è una cosa che ho imparato di Tyler, è che se vuoi colpirlo, devi dimostragli che puoi essere alla sua altezza.
"Nulla, solo, non pensavo che ti abbassasi ai miei livelli. Insomma, sei Tyler Evans, e io chi sono? Nessuno per te", ammetto, anche se dire queste parole mi risulta molto difficile.
Più che altro, mi rendo conto che quello che ho appena detto è un'affermazione sessista e sconclusionata, perché non ha nessun fondo di verità.
Che cosa ho io in meno a Tyler?
Ma lui, a quanto pare, sembra comprendere a pieno le mie parole, e toglie le sue mani dai miei piedi, come se si fosse scottato.
"A quanto pare qualche ragionamento giusto riesci a farlo, nocciolina", commenta sarcastico.
Decido di non ribattere, perché so che non servirebbe a nulla, e continuo a fare i miei esercizi, con il suo sguardo puntato su ogni singolo mio movimento.
Per fortuna la giornata scolastica finisce, e posso tornarmene a casa in santa pace, senza che nessuno mi disturbi.
Prendo il telefono e chiamo Jordy, ma non risponde.
Riprovo, ma gli squilli continuano a risuonare nel mio orecchio a vuoto, e la speranza di sentire la voce di mio fratello dall'altra parte svanisce.
"Per qualunque cosa chiamami che ti proteggo io!", aveva detto.
Lo sto facendo infatti, se solo mi rispondessi.
Alzo lo sguardo verso il cielo, e vedo che sta per piovere.
Maledizione, non ho neanche un ombrello.
All'improvviso sento qualcuno camminare dietro di me, e mi giro di scatto.
"Che stai facendo, nocciolina?", domanda Tyler dietro di me.
"Sto aspettando mio fratello, dovrebbe venirmi a prendere, ma non si è fatto ancora sentire", rispondo, controllando il telefono, per vedere se Jordy mi ha chiamata.
"Ti accompagno io", propone.
"Non preoccuparti, aspetterò che arrivi", rispondo immediatamente, prima che perda la pazienza.
"Sta cominciando a piovere, andiamo", dice con tono deciso e, senza neanche lasciarmi il tempo di rispondere, si avvia verso il parcheggio.
Faccio una corsetta veloce per raggiungerlo, anche se è difficile stare al suo passo.
Quando arriviamo davanti alla sua macchina, entriamo in silenzio.
Tyler da gas e pochi secondi dopo partiamo, proprio quando piccole goccioline di pioggia cominciano a battere sul vetro incessantemente, come se volessero entrare dentro con noi.
La pioggia mi è sempre piaciuta, anche se può sembrare strano.
Una volta, su un libro, avevo letto una splendida metafora riferita ad essa:
"Il cielo sta piangendo"
Da quel momento, mi è sempre rimasta impressa, anche se non so bene perché.
Forse perché mi fa sentire meno sola.
Da l'impressione che anche il cielo provi dei sentimenti e che, nonostante sia così grande, immenso e potente, possa soffrire.
Da quel giorno, mi piace pensare che la pioggia racchiuda tutte le lacrime delle persone che, in quello stesso momento, stanno piangendo.
Tutte riunite sotto un unico cielo, che ci fa sentire un po' meno soli in questo grande mondo.
Tyler, di fianco a me, è stranamente silenzioso.
Sembra che anche lui sia immerso nei suoi pensieri.
Dopo qualche minuto però, sembra risvegliarsi.
"Perché oggi non volevi che ti toccassi?", domanda, lo sguardo fisso sulla strada grigia e bagnata davanti a noi.
"Te l'ho già detto, per mantenere il tuo orgoglio", rispondo, cercando di usare un tono il più indifferente possibile.
Ma lui non sembra rimanere convinto dalle mie parole, e fa una smorfia, cominciando ad alternare il suo sguardo tra me, accanto a lui, e la strada davanti a se.
"Non provare a farmi credere che lo fai per me. Mi sembra abbastanza evidente che mi odi", ribatte acido.
Sapevo che lo aveva notato, ma del resto sembra che la cosa sia reciproca.
Eppure, non mi aspettavo che lo avrebbe mai ammesso davanti a me.
"Davvero? Cosa te lo fa pensare?", chiedo girandomi verso di lui, cercando di decifrare le sue espressioni.
Quando vedo che non risponde però, torno a guardare la strada davanti a me.
La pioggia ha cominciato a battere sul vetro più insistentemente, e le macchine rallentano per paura di scivolare, il sole ormai nascosto dietro le grandi nuvole che tappezzano il cielo.
"Comunque, sembra che la cosa sia reciproca", aggiungo qualche minuto dopo, quando vedo che non accenna più a parlare.
Rimane un po' sorpreso da quella mia affermazione, e comincia a girare lo sguardo verso di me, cercando sempre di non perdere d'occhio la strada davanti a lui.
"Odiare è una parola forte, sai?
Non dovresti abusarne così", commenta con tono serio.
"Mi stai dicendo che non mi odi?",chiedo, cercando di decifrare i suoi pensieri.
"Perché dovrei farlo?", chiede tranquillamente.
"Sai che è maleducazione rispondere ad una domanda con un'altra domanda?", gli faccio notare sorridendo, e lui scoppia a ridere.
"L'hai appena fatto anche tu, comunque", ammette, ancora con un gran sorriso sul volto.
Stranamente, poter scherzare e ridere con lui in questo modo mi infonde pace e sicurezza.
Il resto del viaggio prosegue abbastanza tranquillamente, interrotto talvolta dalle mie indicazioni verso casa.
"Grazie per il passaggio", lo ringrazio una volta davanti la porta di casa mia, e faccio per uscire dalla macchina, ma mi blocca.
"Aspetta, ti accompagno", afferma slacciandosi la cintura.
"Non ce n'è bisogno, ma grazie comunque", lo fermo, prima che possa ribattere.
"Sta piovendo a dirotto, ti bagnerai tutta. Prendi questa", mi propone, levandosi la giacca e porgendomela.
Rimango un po' perplessa da questo gesto, ma non ribatto, e la afferro al volo.
Esco dalla macchina e corro verso la porta di casa, girando le chiavi nella toppa il più velocemente possibile, per non bagnarmi ancora di più.
Quando entro, salgo in fretta le scale e, una volta in camera, poso la giacca di Tyler e mi butto sul letto, con un gran sorriso sul volto.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top