Capitolo 4


Emma

Mi tolsi le scarpe e attraversai a piedi nudi la stanza. Era una bella sensazione quella prodotta dalla trama morbida della moquette che lambiva la pelle. A casa, non mi era permesso camminare scalza per non lasciare antiestetici aloni sul pregiatissimo perlato di Sicilia. C'erano cose, tante cose, che non avevo il permesso di fare, sperimentare o provare. E sentirsi costantemente limitata non era una bella sensazione.

Ripresi a disfare i bagagli e, nel giro di una mezz'ora, le maglie erano ripiegate nelle cassettiere, mentre jeans e pantaloni erano appesi nella cabina armadio.

Sotto la luce bianca e tenue degli applique a led, mi lavai i denti, lasciando cadere piccole gocce di dentifricio nel lavandino. Sciacquai il viso con il detergente, chiusi il rubinetto e mi tamponai la faccia con una salvietta. Quando alzai gli occhi e mi vidi riflessa nello specchio, non scorsi me stessa ma un'altra Emma. Era come se una parte di me non fosse mai partita e stesse attendendo il mio ritorno. Uno strambo senso di abbandono incominciò a farsi strada dentro di me. La scuola sarebbe cominciata solo la settimana successiva e, con lo zio Ethan fuori per lavoro, sarei rimasta spesso da sola. Certo, avrei avuto la casa tutta per me, il che avrebbe significato tanto tempo da dedicare ai miei hobby: leggere e, soprattutto, scrivere. Iniziai a ripetermi che ero appena arrivata, che il giorno dopo mi sarei sentita meglio e che tutto, intorno a me, avrebbe assunto un aspetto più familiare.

Chiusi gli occhi, sospirai e poi... accadde. Era successo tutto così in fretta, dopo le dimissioni dall'ospedale, che non avevo avuto il tempo di pensarci, ma mi era bastato fermarmi un momento e Alessio era di nuovi lì. Davanti ai miei occhi. Un incubo che si ripresentava a intervalli regolari e a cui non ero capace di sottrarmi.

«Oddio» sussurrai, strizzando le palpebre, ma lui era sempre lì. Lo vidi in modo così nitido da sembrarmi reale: mi lasciai trapassare ancora una volta dal suo sguardo inflessibile come il vetro, mentre mi diceva che tra noi era tutto finito.

Mi portai le mani sugli occhi e indietreggiai fino a sentire il gelo delle mattonelle insidiarsi sotto la maglietta. Scivolai giù, lungo la parete, e mi avvolsi le ginocchia al petto, sbattendoci contro la fronte. L'unico modo che conoscevo per tenere insieme quel che restava di me, quando il mondo intorno iniziava a sgretolarsi e io non potevo farci niente. Non sapevo come gestire la cosa, come controllarla. Le lacrime, che avevo trattenuto da quel maledettissimo giorno, cominciarono a farsi spazio tra le ciglia e vennero giù, sempre più numerose. Non riuscii a fermarle e a loro si aggiunsero i singhiozzi che tentai di soffocare ma invano. Strinsi ancora di più il viso contro le gambe, ma il dolore, che sentivo contorcermi lo stomaco, era stanco di essere represso. Volevo urlare ma non potevo, non con Ethan e Kate al piano di sotto. Vennero fuori una serie di rantoli sommessi che, in parte, alleviarono la mia sofferenza.

La porta del bagno si spalancò all'improvviso e due forti braccia mi raccolsero dal pavimento. Ethan mi portò in camera e sprofondò sul letto, con me seduta sulle gambe. Nascosi il viso contro il suo petto, imbarazzata per essermi lasciata andare senza alcun ritegno in un luogo che non aveva l'odore di casa mia, stretta tra le braccia di uno zio così poco familiare. Ma lui era lì, che mi cullava come una bambina terrorizzata da un brutto incubo, senza dire niente, come se capisse che in quel momento non c'era spazio per le parole. Non avevo idea di cosa mia madre gli avesse raccontato di me ma, in quel momento, ebbi la sensazione che lui sapesse molte cose.

Quando aprii gli occhi, mi resi conto di essermi addormentata. Afferrai il cellulare per vedere che ora fosse, ma non riuscii a mettere a fuoco i numeri, la vista mi si era annebbiata per via del sonno. Mi strofinai le palpebre, poi sbloccai il display: erano le cinque del pomeriggio. Ethan doveva avermi messa a letto per lasciarmi riposare. Lanciai un'occhiata verso le finestre, il paesaggio verdeggiante inondato dai caldi raggi del sole avrebbe dovuto, se non mettermi di buon umore, almeno distrarmi dall'amarezza della mia vita. Quel mondo al di là del vetro, però, non era il mio: città diversa; strade diverse. Persino il cielo era diverso e non sapevo se mi ci sarei mai abituata. Quello che stavo vivendo, poi, non era un giorno come gli altri. Era il giorno del rimorso e niente avrebbe potuto attenuare il dolore che quella data evocava in me: se non mi avesse lasciata, io e Alessio avremmo festeggiato il nostro primo anno insieme. E, invece, io ero lì a quasi duemila chilometri di distanza, senza di lui.

Chissà cosa stai facendo in questo momento. Pensi a me, qualche volta?

Cacciai via quelle parole come mosche, la mia doveva essere una masochista inclinazione alla sofferenza. Erano proprio quei pensieri a mandarmi fuori di testa e non potevo lasciare che accadesse di nuovo, mai e poi mai avrei permesso a Ethan di vedermi nelle stesse condizioni in cui mi aveva ritrovata mia madre. Lei forse se lo meritava, ma Ethan... be', diciamo che mi stavo affezionando a lui.

Il rumore di passi pigri, quasi riluttanti come di chi non è convinto di ciò che sta per fare, che si avvicinavano alla mia camera mi distrasse. Fissai la porta, aspettandomi che Ethan bussasse da un momento all'altro ma l'unico suono che sentii fu quello di un messaggio proveniente dal cellullare. Ethan mi chiedeva se fossi sveglia. Gli risposi di sì e, subito dopo, lui entrò con una fumante tazza tra le mani.

«So che adori gli infusi alla frutta» esordì, sedendosi al mio fianco. «Ho pensato di preparartene uno, ti va?»

Annuii e lui mi porse la tazza. Ne bevvi un sorso, ma il liquido era così bollente che mi bruciò le labbra e gli occhi mi si riempirono immediatamente di lacrime. Deglutii, sperando che nessuna mi scivolasse sulle guance. Le premure di Ethan mi destabilizzavano, ma mi piacevano. Ricevere affetto da una persona che a malapena conoscevo era imbarazzante, ma sapevo di averne bisogno per una svariata serie di motivi. Continuavo a fissare la tazza, il pensiero di essergli stata seduta in braccio, poche ore prima, mi faceva avvampare le guance impedendomi di guardarlo negli occhi.

«Credo sia il caso di fare un salto da Kate e dirle di rinviare la cena, è stata una giornata molto impegnativa per te» disse tutto d'un fiato, come se fosse appena emerso da una lunga apnea.

«Oh, è stata così carina» replicai. «Non vorrei che ci restasse male.»

«Lo so, ma si tratta semplicemente di rimandare» mi tranquillizzò lui, accarezzandomi il braccio. «Non devi sentirti in colpa, lei capirà.»

Sentirmi in colpa? Mi stai psicoanalizzando? Quando sono cominciate le nostre sedute, esattamente?

Lo guardai, senza dire niente. In quei momenti, non ero proprio capace di tirare fuori alcuna parola. La gola iniziava a stringersi in una morsa tanto forte da farmi male, riuscivo a malapena a respirare. Posai la tazza sul piattino e il cucchiaino sbatté contro la porcellana, il rumore fu amplificato dal silenzio che regnava in quella casa.

Ethan mi tolse la tazza ormai vuota dalle mani e l'appoggiò sul comodino. «Mi ha detto che rifiuti le sue chiamate.»

Annuii. Stava parlando di mia madre, evitavo solo le sue di chiamate. A dire il vero, non ne avevo ricevute da nessun altro. Papà non si era ancora fatto sentire, forse pensava che fossi arrabbiata con lui.

«È preoccupata per te» proseguì con un tono suadente, come se volesse convincermi con la sola forza della voce. «Sarebbe sufficiente anche un messaggio, se non hai voglia di parlarle.»

«Ci penserò» fu tutto quello che riuscii a dirgli. Ero ancora furiosa con lei, l'ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento era mia madre.

«È un inizio» concluse, prima di mettersi in piedi. «Vado da Kate, ci vediamo dopo.»

«Non dirle della cena, vorrei conoscere Violet» dissi alle sue spalle. Ethan si voltò e mi sorrise. «Vorrei preparare loro un dolce, per sdebitarmi. La trovi una buona idea?»

«Ottima, ma devo fare un salto al market. Vuoi unirti a me?»

Mi lanciai una rapida occhiata. Se volevo essere presentabile quella sera e avere il tempo di preparare il dessert non potevo perdere altro tempo. «Ti dispiace andarci da solo?»

«No, mandami un messaggio con scritto quello che ti occorre» mi suggerì, prima di scoccarmi un bacio sulla fronte e abbandonare la stanza.


NOTE DELL'AUTRICE:

La canzone è "Adagio" di Lara Fabian.

Il video è stato pubblicato su youtube da Dorina Battiston. 


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