Capitolo 3

Blake

Il rumore della ghiaia che scricchiolava sotto le ruote, accompagnato da quello di una portiera che sbatteva, mi svegliò di soprassalto. Sbatacchiai le palpebre più volte e mi passai una mano sulla faccia per riprendermi dal sonno.

All'inizio pensai che si trattasse di Kate e che fosse appena rientrata dal lavoro, ma quando presi il cellulare mi resi conto che era mezzogiorno. Ed era sabato. Kate non lavorava mai il fine settimana, preferiva dedicarlo ai suoi figli ed io sarei rimasto lì ancora per poco. Tempo una settimana e sarei tornato nel dormitorio del College, dove ci rimanevo fino al venerdì, per seguire i corsi e non fare il pendolare con la mia Harley ogni santo giorno. Non era certo un problema per me, ma lo era per Kate che temeva per la mia incolumità, specie d'inverno quando le strade diventavano lastre di ghiaccio su cui era facile perdere il controllo e schiantarsi contro un albero.

Mi passai una mano tra i capelli, allungai le gambe fuori dal letto e mi trascinai verso la finestra per smascherare l'artefice di tutto quel casino. Imprecai sottovoce, sarei rimasto volentieri a dormire per almeno un'altra ora. Scostai la tenda e guardai giù. Vedere Ethan, il nostro vicino, rientrare in casa con dei bagagli non era una novità, di tanto in tanto partecipava a dei congressi di lavoro. Ma quei borsoni erano decisamente troppi per una trasferta di un paio di giorni. Poi, adocchiai qualcosa che mi stupì: una figura uscì dalla sua auto. Non riuscii a vedere subito il suo volto, coperto dal cappuccio di una felpa, ma, dal modo in cui camminava, non ne ebbi alcun dubbio. Si guardò intorno e, quando si voltò verso il nostro giardino a contemplare le rose di Kate, ne ebbi la conferma.

Una ragazza.

La vidi mettere un passo incerto davanti all'altro, come se non fosse del tutto sicura di voler entrare, poi raggiunse l'ingresso e lo varcò. Rimasi a fissare la villetta di Ethan, fino a quando la rividi ciondolare in quella che immaginai essere la sua nuova camera, proprio di fronte alla mia. La scorsi avvicinarsi alla finestra, il cappuccio non le copriva più il viso e lunghi capelli castani le ricadevano sulle spalle. Appoggiò le mani sui fianchi e scrutò avvilita il cielo, ma dubitai che la malinconia che le leggevo in faccia fosse dovuta al tempo. Qualcosa la tormentava, qualcosa che velava i suoi occhi di nostalgia, come se le mancasse qualcosa.

O qualcuno.

Guardarli faceva male e mi piangeva il cuore. Perché, anche se non la conoscevo, non potevo ignorare che fosse bella, anzi, bellissima. Di una bellezza naturale che lei si ostinava a camuffare con un abbigliamento che la rendeva anonima e goffa.

Trattenni il respiro, mentre la mia mano si serrava intorno alla tenda. Ma che diavolo mi saltava in mente? Era solo una ragazzina, una di quelle serie a cui non importava di certo fare colpo sui maschietti. Il modo in cui si conciava ne era una prova. Sembrava che si fosse vestita al buio, infilandosi le prime cose che le fossero capitate a tiro. Quegli occhiali, poi, le schermavano il viso come una maschera dietro cui nascondersi, quasi temesse di lasciar trasparire qualcosa di sé. Un'aura di mistero l'avvolgeva e, questo, iniziava ad intrigarmi.

Merda.

Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso, quella sua aria ingenua da brava ragazza mi attirava come un magnete ed era un male. Non ero abituato a lasciarmi trasportare dalle emozioni. Non con le ragazze. Con loro ero sempre lucido e razionale, evitando ogni coinvolgimento per non rendermi vulnerabile. A vent'anni è un'assurdità legarsi a qualcuno. Soffrire per qualcuno. Mi divertivo solo con ragazze che non avevano grosse pretese, ma che si accontentavano di quel poco che avevo da offrire. Un ragazzo superficiale, ero solo questo ma, fino a quel momento, nessuna se ne era mai lamentata. E, comunque, non avrei permesso a nessuna di conoscermi tanto da potermi giudicare.

La ragazza temporeggiò lì pochi istanti ancora, poi, fece una smorfia e sparì nel buio della stanza. Mi obbligai a staccarmi dalla finestra, sbadigliando e sfregando gli occhi con le mani chiuse a pugno. Erano passati solo pochi minuti e già una parte di me stentava a credere che una ragazza fosse venuta ad abitare nella casa del nostro giovane vicino. Chi mai poteva essere? Una figlia avuta in età adolescenziale e che aveva tenuto nascosta fino a quel momento?

In fondo, anche Kate mi aveva avuto a quindici anni e, questo, era il motivo per cui preferivo chiamarla con il suo nome. Ma se quella ragazza fosse stata veramente sua figlia, Ethan lo avrebbe indubbiamente confessato a Kate, da quando si erano conosciuti cinque anni prima, in seguito al nostro trasferimento qui, quei due erano diventati inseparabili. A volte, avevo il sospetto che tra loro ci fosse più che una semplice amicizia, non che questo mi desse fastidio. Kate era adulta e vaccinata e, per quel che ne sapevo, Ethan era una brava persona.

Andai in bagno e, dopo aver fatto una doccia, scesi in cucina. Violet e Jay erano seduti a mangiare.

«'Giorno». Violet masticò il suo saluto insieme al pezzo di lasagna che aveva in bocca.

«Kate?»

«E' uscita, un'ora fa, tipo» mi confermò, dopo aver passato un tovagliolo sulle labbra. «Ne abbiamo lasciata un pezzo per te, tranquillo.»

Annuii e mi avviai verso la macchinetta del caffè. Era mezzogiorno, ma non avrei mai mangiato una lasagna appena sveglio.

«Ethan è appena rientrato con qualcuno» mi informò Vì, dopo aver appoggiato il bicchiere con la sua coca.

«Umm-umm». Intrecciai le braccia sul petto, in attesa che fosse pronta la mia miscela energetica mattutina.

«È una ragazza» proseguì, imperterrita.

Annuii, cercando di risultare indifferente. Non potevo certo dirle che avevo passato l'ultimo quarto d'ora a spiarla dalla finestra.

«Credi sia sua figlia?»

Mia sorella, la regina del terzo grado

Feci una smorfia, poi bevvi un sorso di caffè e iniziai a svegliarmi. «Che vuoi che ne sappia?»

«Non ti sembra strano che non ce l'abbia mai detto?»

Ripensai allo sguardo triste di quella ragazza. Qualunque cosa la tormentasse, doveva essere ben più grave del doversi trasferire a casa del padre. Mi concessi un altro sorso di quella bevanda rigenerante, prima di rispondere. «Sono affari suoi, Vì.»

Continuò a blaterare ancora per mezz'ora. Ormai la testa di Vì era una trottola impazzita, non l'avrebbe fermata più nessuno. «Comunque, spero sia simpatica. Più tardi, passerò a farle un saluto.»

«No» intervenne il suo ragazzo, che le era seduto accanto.
Avevo dimenticato che ci fosse anche lui, era rimasto in silenzio tutto il tempo ad ascoltarci o a pensare ai fatti suoi. Optai per la seconda. Cosa ci trovasse in lui mia sorella era uno dei grandi misteri della storia. Era il classico topo da biblioteca: alto un metro e ottantavogliadicrescere; muscoli neanche a parlarne; occhiali da miope - lenti a contatto, no? Ossuto da far paura, tanto da sembrare uno scheletro che cammina.
«Hai un appuntamento con me, più tardi.»

«Lo so, pensavi me ne fossi dimenticata?». Violet gli buttò le braccia al collo ed ebbi paura che potesse spezzarlo in due. Iniziò a baciarlo dappertutto e dovetti reprimere un conato di vomito.

Dopo aver borbottato una sfilza di parolacce, mi diressi verso il salotto con la tazza di caffè in mano. Il tempo di sprofondare sul divano e sentii trillare il cellulare. Lo tirai fuori dalla tasca dei jeans e risposi, anche se era un numero che non avevo in rubrica. Imprecai, quando riconobbi la voce dall'altra parte. Non ricordavo il suo nome, non ricordavo il nome di nessuna in realtà. E perché avrei dovuto? Non davo mai una seconda chance. Ma la voce, quella voce, era quanto di più fastidioso si potesse sentire.

«Blake, ciao» esordì. Il suo timbro era peggio del frinire stridulo di una cicala. «Sono Lizzy, ti ricordi di me?»

Ah, Lizzy. Ecco come si chiama. 

«Ovvio che mi ricordo, piccola.»

Bugia numero uno.

«Aspettavo una tua chiamata.»

«Ma tu guarda la coincidenza, pensavo proprio a te». Bugia numero due. «Stavo per comporre il tuo numero». Appoggiai i piedi sul tavolino e mi stiracchiai. «Mi hai solo battuto sul tempo, piccola». Bugia numero tre.

«Mi chiedevo se eri libero stasera.»

«Stasera, stasera...» finsi di pensare a eventuali impegni, giusto per tirarmela un po'. «Mi spiace, piccola, ma è il compleanno di mia nonna e sai come sono fatte le nonne...»

«Tranquillo» mi interruppe lei. «Sarà per la prossima.»

«Oh, sei un tesoro» rincarai la dose da vero bastardo. «Un'altra, al posto tuo, non avrebbe capito. Mi faccio vivo presto, piccola.»
Bugia numero?
Avevo perso il conto. Chiusi la chiamata e zittii quell'ochetta una volta per tutte.

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