Capitolo 2

Emma

Giunti all'ennesima rotonda della Rd A6011, Ethan svoltò a sinistra, superando la seconda schiera di edifici bianchi a due piani e dai tetti di tegole marrone. Il battito del mio cuore aumentò a dismisura, quasi non gli bastasse più la piccola gabbia in cui era rinchiuso, mentre l'auto procedeva lungo il vialetto. Scesi e mi guardai intorno, smarrita. Era circa mezzogiorno, ma la strada era completamente deserta. Una lunga distesa di alberi e cespugli costeggiava Radcliffe Road che portava in centro, Ethan abitava in periferia. Niente persone. Niente macchine. Niente negozi. Niente voci. Niente di niente. In confronto, Bari era una metropoli con una vita sociale di tutto rispetto.

Radcliffe House - così avrei chiamato la casa di Ethan d'ora in poi - sarebbe diventata il mio rifugio per tutta la durata del mio soggiorno in Inghilterra. La facciata presentava due enormi finestre, una al piano di sotto e una a quello di sopra. Il vialetto era lastricato da una parte di asfalto, che portava fino al garage, e l'altra da mattoncini che guidavano fino alla porta d'ingresso. Il giardino era immenso, con prato all'inglese ben curato e fiancheggiato da siepi basse che non impedivano di dare una sbirciatina nei paraggi. Nella villetta accanto, in un punto del giardino, le siepi sembravano arretrare per concedere un po' di terreno ad un magnifico roseto. Una moto di grossa cilindrata era parcheggiata nel vialetto.

«Ti piace qui?» mi chiese Ethan. Annuii. «Sono contento» ammise, soddisfatto. Sembrava sinceramente compiaciuto di avermi tra i piedi. Con la fidanzata sempre in giro per il mondo, pensai che dovesse sentirsi un po' solo. «Per di qua» mi fece strada, dopo aver frugato nella tasca anteriore dei jeans per ripescare le chiavi.


In quel momento, ebbi un attimo di esitazione prima di entrare. La strada era completamente desolata, come se non ci fosse nessun altro all'infuori di noi. Si era sollevato un vento delicato, che mi alitava sul viso e scompigliava i miei capelli. Il cielo non aveva mai assunto altri colori, a parte il grigio. Quando Ethan fece scattare la serratura, fui investita dal presentimento che non sarei più tornata nel mio Paese, che quell'arrivo sarebbe stato definitivo e quella casa la mia dimora per il resto dei miei giorni. Forse perché ero partita così all'improvviso, senza salutare nessuno come se fossi in fuga da qualcosa, in un mattino che sapeva d'autunno.

Varcato l'ingresso, mi ritrovai nel salotto. Sotto la grande finestra era piazzato un divano tre posti in tessuto scuro. Non riuscii a distinguere subito il colore, per via del riflesso della luce che rendeva la seduta più chiara rispetto allo schienale. Ai suoi piedi c'era un tavolino in mogano che distanziava dal divano le due poltrone in pelle nera. Sulla parete laterale troneggiava un grande caminetto, mentre su quella di fronte era stata disposta una nutrita libreria. Nella stanza accanto c'era la cucina, luminosa e confortevole, con una portafinestra che si apriva su una piccola veranda arredata con un divanetto e due poltrone da giardino; più avanti ancora, scorsi una camera da letto e un bagno.

«La tua stanza è su, nella mansarda» la indicò con il mento, avendo entrambe le mani occupate dai borsoni. «Ho pensato che avresti avuto bisogno dei tuoi spazi e... di un bagno personale.»

Esultai dentro di me, senza darlo troppo a vedere. «Grazie zi... volevo dire Ethan.»

Lui mi sorrise e si avviò su per le scale un po' buie e con tanti gradini. Immaginai che nel giro di un paio di mesi avrei avuto dei glutei da urlo e senza spendere neanche una sterlina per la palestra.

«Devi essere esausta, immagino tu voglia riposare un po'. Il bagno è lì» disse, indicando una porta sull'altro lato della stanza. Appoggiò il mio bagaglio sul pavimento e andò via.

Aveva intuito che volevo starmene un po' per conto mio, il tempo di realizzare che da ora in avanti quella sarebbe stata la mia nuova confort zone, per dirla a modo suo. Iniziai ad apprezzare quel lato del suo carattere e pensai che non fosse legato solo alla sua professione. Ethan era così di natura. Dei tre fratelli era quello più alla mano, senza troppe pretese, una vita tranquilla, lontana dalla corsa per il successo. A differenza di mia madre e di zio Thomas, rinomato cardiologo di Londra.

La mia camera non era affatto male: il pavimento era foderato da soffice moquette color sabbia; tre pareti erano rivestite da una carta con motivi floreali sulla tinta del beige; sulla quarta vi erano due grandi finestre oblique, con tendine bianche a pannelli. Tutta la stanza era pervasa da un aroma alla calendula, che proveniva da un diffusore appoggiato sul davanzale. Una lunga lampada si alzava dal pavimento e arredava un angolo vicino alla scrivania, su cui c'erano un modem e un portatile. Il letto aveva una graziosa trapunta a losanghe sulla nuance dell'ametista, con un paio di cuscini in pendant. Se Ethan voleva farmi sentire a casa, be', ci stava riuscendo alla grande. Non avrei potuto desiderare una camera più accogliente di quella, anche se mi venne il dubbio che ci fosse un tocco femminile dietro tutti quei dettagli e, con Margaux in trasferta, mi chiesi chi avrei dovuto ringraziare.

Mi avvicinai alla finestra e guardai avvilita il cielo. Grosse nubi dal discutibile color antracite lo avevano completamente oscurato. Eravamo in settembre, ma avevo dimenticato quanto fosse imprevedibile il tempo da quelle parti.

Benvenuta in Inghilterra, Emma!

Sbuffai. Oltre al mare, mi sarebbe mancato anche il sole. Amavo crogiolarmi sotto i raggi roventi, sentire il calore sulla pelle che si colorava di una fantastica sfumatura ambrata. Avrei dovuto dire addio pure alla tintarella. Le prime gocce di pioggia inglesi mi diedero il loro benvenuto, danzando sui vetri. Sospirai. Piuttosto che lasciarmi demoralizzare dal tempo avrei fatto meglio a disfare i bagagli o ci avrei impiegato ore per trovare qualcosa da infilarmi dopo la doccia. Ne avevo un gran bisogno, non solo per togliermi di dosso quell'umidità che mi si era incollata addosso come una tuta da sub, ma soprattutto per rilassarmi e non pensare a niente.

Sistemai alla bene e meglio i vestiti nell'armadio, giusto per tirarli fuori dai borsoni e non essere costretta a stirarli tutti un'altra volta. Afferrai il beauty case per spostarlo nel bagno ma, quando passai davanti alla porta, sentii Ethan parlare con qualcuno. Dalla voce armoniosa e carezzevole doveva trattarsi di una donna.

È tornata Margaux?

Esitai per un'istante, indecisa se continuare a disfare i bagagli o scendere e presentarmi alla futura moglie di mio zio. Dal momento che non l'avevo mai vista, la curiosità ebbe la meglio. Mi precipitai giù con una scusa e, quando entrai in cucina, vidi mio zio conversare con una giovane donna dal pallido viso ovale e un sinuoso collo da cigno. I suoi lineamenti mi ricordarono una dama del rinascimento. La fluente chioma bionda, però, non corrispondeva alla descrizione di Ethan: Margaux era mora. No, decisamente non era lei.

«Oh, Emma! Ti presento Kate, la nostra vicina.»

«Ciao, piacere di conoscerti». Kate mi venne incontro e pensai che volesse stringermi la mano, ma non lo fece. Le sue braccia mi avvolsero calorosamente, come se mi conoscesse da tempo e avesse sentito la mia mancanza. «Ethan mi ha parlato tanto di te, non vedevo l'ora di conoscerti.»

«Ah, non so cosa dire» blaterai, a disagio. Ero rimasta lì, immobile come una mummia egizia, con le braccia incollate ai fianchi. Gli abbracci erano tra i gesti che avevo rimosso dal mio dizionario emotivo, insieme alle carezze, ai baci e a qualunque altra dimostrazione d'affetto.

«Ho chiesto a Kate di darmi una mano nell'arredare la tua camera e, dal momento che ha una figlia della tua età, ho pensato di parlarle di te.»

Giusto per sapere che pesci pigliare con una diciassettenne in preda agli ormoni adolescenziali e che, tra l'altro, ha anche tentato il suicidio.

«Quindi sei tu quella che devo ringraziare, la mansarda è favolosa.»

«Oh, figurati. Con i consigli di Violet è stato un gioco da ragazzi, vero Ethan?». Lui si limitò ad annuire. «Conoscerai lei e Blake stasera a cena.»

«Oh, sì, stavo quasi per dimenticarmene. Kate ci ha invitati da loro». Ethan si schiarì la voce. «È un problema per te, Emma?»

«Nessun problema» mi affrettai a precisare, anche se, per quella sera, avevo in programma di deprimermi in totale solitudine. Magari con una grossa vaschetta di gelato affogato al caffè e il dvd di Hachiko. Salutai Kate e tornai in camera mia.

Camera mia.

Non so perché, ma non mi sembrò più tanto strano definirla in quel modo. Era come se l'arrivo di Kate avesse spazzato via quella nuvola di disagio che mi aveva seguita sin dall'aeroporto.

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