Capitolo 13
Emma
«Emma, svegliati.»
Il silenzio, che mi avvolgeva come una calda coperta, fu spazzato via da una voce insistente.
Una mano mi accarezzò piano i capelli. «Tesoro, sono io, Ethan.»
«Umm...» mugugnai, nel tentativo di aprire gli occhi.
«Perché stai dormendo sul divano?». Ethan attese con pazienza che mi svegliassi e che mettessi a fuoco la stanza semi buia.
«Ti aspettavo per cena». Soffocai uno sbadiglio, prima di continuare. «Pensavo rientrassi per le sette, forse ho capito male.»
«No, tesoro, è colpa mia. Avrei dovuto avvisarti, ho avuto un imprevisto.»
Mi misi seduta e stiracchiai le braccia. «Che genere d'imprevisto?»
«Un paziente piuttosto problematico ha minacciato di...»
«Suicidarsi?» conclusi al posto suo.
Ethan fece un sospiro e attraversò il salotto, diretto verso la cucina. «Sì, ho dovuto ricoverarlo in psichiatria». Lo seguii a ruota e per un soffio non gli andai a sbattere, Ethan si era fermato all'improvviso a guardare estasiato la tavola. «E questo bendidio cos'è?». L'incredulità nel suo tono di voce era lampante.
Lanciai un'occhiata da sopra la sua spalla. «Parmigiana di melanzane.»
«Ma chi sei, un angelo?». Ethan si voltò a guardarmi. «Non avresti dovuto.»
«Hai detto che ti avrebbe fatto piacere cenare insieme, così...»
«Sì, l'ho detto». Ethan mi strinse fra le braccia, prima di scoccarmi un bacio sulla nuca. «Grazie, tesoro.»
«A quest'ora, però, potrebbe essere indigesta.»
«Non per me» mi sorrise. Ethan estrasse la teglia dal forno, ne tagliò una fetta gigante e la mise nel microonde. «Riscaldata, sarà ancora più buona.»
Nell'attesa, mi preparai una tisana al finocchio.
«Tu non mangi?» mi chiese, vedendomi mettere il bollitore sulla piastra.
«Non a quest'ora e poi...» lasciai la frase a metà, incerta se proseguire. Non avevo idea di come Ethan avrebbe potuto prendere la notizia di aver trascorso il pomeriggio in compagnia di un ragazzo, però non mi andava di raccontargli bugie. «Ho mangiato qualcosa dopo la scuola, con un amico.»
«Hai un nuovo amico, bene» disse entusiasta, prima di addentare un pezzo di parmigiana. «Sono proprio contento, sai?»
Non sarai così contento quando saprai con chi ero.
«Chi è il tuo amico?»
«Lo conosci, è Blake.»
Ethan mise giù il bicchiere di vino, poi si passò il tovagliolo sulla bocca. «Blake?»
Annuii.
«Il figlio della vicina, quel Blake?» chiese, sconcertato.
Annuii di nuovo, ma stavolta lo feci mantenendo lo sguardo basso sulla tazza che stringevo tra le mani. Mi ci stavo aggrappando stretta come fosse la mia ancora, in quel momento. Era in arrivo una tempesta, me lo sentivo.
«E come mai eravate insieme?» chiese poi, con un tono più tranquillo.
«Voleva festeggiare il mio primo giorno di scuola» ammisi, guardandolo di sottecchi. Non parve arrabbiato, perciò proseguii. «Mi sembrava scortese rifiutare il suo invito.»
«È stato gentile.»
«Sì, gentile» ribattei, trovando il coraggio di sollevare la testa e guardarlo dritto negli occhi. «Pensi che non avrei dovuto accettare?»
Ethan non rispose e il suo sguardo sembrava perso nel nulla. Finì di masticare il boccone, si versò dell'altro vino e fece roteare il bicchiere come se attendesse una risposta da quel liquido rosso. Sul suo volto era dipinta un'espressione di inesorabile freddezza, di quelle che non possono non provocare pensieri allarmanti.
«Dopo quello che è successo, mi ero convinta di dover stare lontano dai ragazzi.»
«Il problema non sono i ragazzi, Emma.»
«Ah, no?»
«No». Ethan si pulì le mani con il tovagliolo, le incrociò appoggiandole sul tavolo e mi guardò. «Il problema sei tu.»
Il problema sei tu.
Quelle parole mi esplosero nella testa come petardi. Sapevo che era solo colpa mia se Alessio mi aveva lasciato, ma sentirmelo dire da qualcun altro faceva male. Feci ricorso a tutte le mie forze per reagire, per cercare di comprendere quello che Ethan voleva spiegarmi.
«Scusami se sono stato duro, Emma». Ethan sembrava veramente mortificato, ma non fece nulla per indorare la pillola. Non mi prese per mano, non mi baciò la fronte, non mi accarezzò la guancia. Niente. Poi capii. In quel momento, non avevo di fronte lo zio ma lo psicologo. «Devi imparare a goderti la vita anche senza un ragazzo al tuo fianco» mi rivelò come il terzo segreto di Fatima. Poi, si alzò per infilare piatto e bicchiere nella lavastoviglie. «Quando c'è l'amore, la vita ci appare indubbiamente più bella» proseguì, afferrando la mia tazza vuota e mettendola accanto alle altre stoviglie. «Ma, prima, devi stare bene con te. Non puoi amare veramente qualcuno, se non ami prima di tutto te stessa». Tirò fuori la mia tazza dalla lavastoviglie e la rimise sul tavolo. A quel punto, avviò il lavaggio senza la mia tazza. «C'è un vuoto affettivo dentro di te, Emma, un vuoto che sentivi di dover colmare ad ogni costo» continuò riprendendo posto sullo sgabello. «Per questo ti sei legata al tuo ragazzo in maniera quasi morbosa, lui per te rappresentava la soluzione al tuo problema.»
«Morbosa» ripetei in un bisbiglio. «La fai sembrare una cosa brutta.»
«Lo è, ma possiamo dare la colpa a qualcun altro, se questo può farti stare meglio.»
«A chi?»
«A tua madre». Quella rivelazione mi colpì come se il lampadario si fosse staccato all'improvviso dal soffitto per centrarmi in pieno. «Da piccoli siamo totalmente dipendenti dai genitori per tutto ciò che riguarda la nostra sopravvivenza fisica, emotiva e psicologica, ma questo determina una forte tendenza al condizionamento. E da questo condizionamento non ci possiamo sottrarre per cause di forza maggiore: non abbiamo ancora le risorse necessarie per provvedere a noi stessi.»
«Perché dici che è colpa di mia madre, se riguarda chiunque e non solo me?»
«Sei stata una bambina felice, Emma?»
«Come? Cosa c'entra questo adesso?»
«Rispondi alla domanda.»
Provai a sfogliare l'album dei ricordi, quelli di quando ero una bambina paffutella che si affannava a nascondere i suoi difetti extralarge, ma non c'era nessuno scatto di mia madre che mi baciava, abbracciava o accarezzava. Forse ero troppo piccola per potermelo ricordare o, forse, quei momenti non c'erano mai stati. Mi sforzai ancora e mi venne in mente quella mattina di Febbraio, quando ero in seconda elementare e stavo per ruzzolare giù dalle scale tanta era la voglia di raggiungerla e darle la bella notizia. «Non potevo aspettare ancora, dovevo dirglielo, dovevo farle vedere il "Preparatissima" che mi aveva scritto la maestra sul quaderno. Lo tirai fuori dallo zainetto, lo aprii in due con le manine tremolanti e lo porsi a mia madre. Chissà quanti complimenti mi avrebbe fatto, quanto sarebbe stata orgogliosa di me che voti come quello non li portavo a casa con la stessa frequenza con cui la nutella riempiva le mie merende. Non mi era mai piaciuto studiare, alle divisioni complicate, agli uomini preistorici e ai dettati noiosi, preferivo il disegno. Trascorrevo ore tra pastelli, matite, fogli, gomme e temperini. Era quello il mio mondo, perché potevo crearmelo su misura, cancellando ciò che non mi piaceva» o che mi faceva soffrire. «" Mettilo via, adesso. Me lo farai vedere a casa", si sbrigò a dirmi mamma. "Dai, andiamo. Devo tornare a scuola e non ho tempo da perdere con le tue sciocchezze"». Una smorfia appena accennata sulle labbra e, come una bambola meccanica, misi via il mio piccolo grande successo.
«Gliel'hai mai detto?»
«Cosa?»
«Di quanto quell'episodio ti abbia fatto soffrire.»
«A cosa sarebbe servito?»
«A non portarti dentro una ferita del passato ancora aperta, Emma» mi rivelò, appoggiando la sua grande mano sulla mia. «In quel momento, non hai avuto scelta: lei ti ha sopraffatta piuttosto che darti l'attenzione che meritavi, ma tu non potevi fare altro che stare lì e obbedire. Quello che devi capire è che hai subito un'ingiustizia da parte di tua madre: lei non ha saputo capirti». Si alzò, si avvicinò ad un cassetto e ne estrasse un martello, poi coprì la mia tazza con un panno e la colpì senza alcuna esitazione. Quando rimosse il panno, della mia mug bianca con la scritta: "Mom, absolutely never wrong about anything ever", era rimasto solo un mucchietto di cocci. «Lo stesso tipo di ferita, perpetrata negli anni, si è impressa dentro di te determinando una frattura». Ethan nascose sotto il panno una grossa scheggia, allontanando le altre. «Una parte si è isolata, rendendosi inaccessibile perché ti fa soffrire troppo. La tua mente l'ha chiusa a chiave da qualche parte e, questo, ha prodotto in te una chiusura nei confronti delle emozioni e dei sentimenti». Ethan smise di parlare, ma il suo sguardo era fisso su quella scheggia nascosta. Non la vedeva, ma era lì.
Io non stavo con Alessio perché desideravo stare con lui, ma solo perché ne avevo bisogno. Il ragazzo, di cui un tempo credevo di essere innamorata, era stato soltanto il bersaglio di qualcosa che mi mancava. Era forse questo il motivo per cui, da quel maledettissimo giorno, io mi sentissi come sospesa, incapace di reagire alla vita? Una ferita che non smetteva di sanguinare perché nessuno si era mai degnato di medicarla. La testa era affollata da domande a cui non sapevo rispondere, anche se quella che continuava a perseguitarmi era una soltanto.
"Assolutamente mai sbagliato nulla mai", forse con i tuoi studenti, mamma. Con me, inizio a credere che tu abbia sbagliato tante cose.
NOTE DELL'AUTRICE:
La canzone è "Rain in your black eyes" di Ezio Bosso.
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