Capitolo 1
Emma
Tornare in Inghilterra era un'emozione per me, l'ultima volta ci ero stata per il funerale di nonna Earnestine cinque anni prima. Rimasi sulla sommità della scaletta per qualche istante, il tempo necessario al vento per scompigliarmi i lunghi riccioli color cioccolato, che fuoriuscivano dal cappuccio della felpa, e portarmi i saluti dell'aeroporto internazionale di Birmingham. Ci sarebbe voluta un'ora abbondante per raggiungere Nottingham in auto, avrei preso la metro se non avessi avuto così tanti bagagli e lo zio Ethan non fosse stato già lì ad attendermi.
Mentre ero sul bus navetta accesi il cellulare, ne ero entrata nuovamente in possesso solo quella mattina prima della partenza; pochi secondi dopo, arrivò un suo messaggio con tanto di faccine felici e bandierine italiane, giusto per farmi sentire a casa. Ma c'era una cosa che lo zio Ethan aveva dimenticato. Il mare. Senza, non potevo sentirmi davvero a casa. E mi sarebbe mancato più di ogni altra cosa, persino di mamma e papà.
L'effetto collaterale della separazione.
Collegai gli auricolari, avviai la solita playlist e rimisi il cellulare nella tasca della felpa. La pelle incominciò a prudermi sotto i polsini ma, per quanto la voglia di grattarmi mi stesse tentando, cercai di distrarmi pensando ad Arianna. Quella lista di canzoni l'avevamo creata insieme, selezionando i brani che piacevano a entrambe. Era l'unico ricordo che avevo di lei. Mia madre non aveva permesso alla mia unica amica di farmi visita negli ultimi mesi, né di mettersi in contatto con me anche solo con una telefonata.
Le porte del bus si aprirono poco dopo e mi affrettai a uscire, sperando di non dover attendere un'eternità per ritirare i bagagli. Avevo portato con me un bel po' di roba o, comunque, lo stretto necessario per sopravvivere in attesa che mia madre mi spedisse il resto. Si trattava perlopiù di vestiti, scarpe e libri. Tanti libri. Senza, non sarei andata da nessuna parte. I cosmetici e i vestitini graziosi erano cimeli che avevo lasciato a casa di proposito. Appartenevano alla mia vecchia vita e interessare qualcuno, specie gli adolescenti esaltati, non rientrava nei miei interessi.
Non più.
Lo zio Ethan mi corse incontro, non appena mi intravide nella fiumana di corpi che seguiva la segnaletica per raggiungere il nastro trasportatore. Mi riconobbe subito, nonostante il cappuccio mi nascondesse gran parte del viso. Mi sfilai gli auricolari, spensi la musica e nascosi tutto nello zainetto che portavo in spalla.
«Emma!» esclamò Ethan, per poi abbracciarmi un po' impacciato. «Come stai?»
«Benone, zio» farfugliai, a disagio. Da quel momento in poi, avrei convissuto con un quasi-estraneo per due lunghissimi anni. Rabbrividii al solo pensiero. Istintivamente, mi raddrizzai gli occhiali da nerd con la mano libera.
«Chiamami Ethan, zio mi fa sentire vecchio» precisò, facendomi l'occhiolino. «Come stanno Beverley e Stefano?»
Meglio di me, di sicuro.
«Bene, ti mandano i loro saluti.»
«Uhm, penso che avremo bisogno di un piccolo aiuto per quelli» affermò, indicando i miei bagagli. «Torno subito». Ethan si allontanò per andare alla ricerca di un carrello e un addetto alla sicurezza si offrì di aiutarlo senza neanche volere in cambio il ringraziamento di una mancia. Be', guardando Ethan, un trentacinquenne di un metro e ottantacinque che incarnava tutti i requisiti del maschio inglese – uno alla Hugh Grant, tanto per intenderci –, chiunque si sarebbe offerto di prestargli soccorso. Alzai gli occhi al cielo, inglesi e italiani non erano poi tanto diversi.
Ethan trascinava il carrello con i miei bagagli verso l'uscita e, tipo ogni due secondi, si voltava per accertarsi che lo seguissi.
Non scappo, Ethan, tranquillo.
Il viaggio in macchina, con mia grande sorpresa, trascorse velocemente e senza problemi, tranne che per il fatto di essere seduta dalla parte sbagliata.
Che bisogno c'è di montare il volante a destra? Inglesi, i soliti egocentrici.
Ethan mi parlò della sua vita, della sua fidanzata storica Margaux, sempre in viaggio per lavoro e della sua professione. Mi soffermai su quel punto del suo monologo, mentre lui proseguiva a manetta.
Logorroico, per essere uno psicologo.
Lo lasciai parlare. Di tanto in tanto annuivo meccanicamente, fingendo di starlo ad ascoltare. Rivolsi lo sguardo al panorama che vedevo scorrere al di fuori del finestrino della Mulsanne e, senza pensarci, sfiorai le lievi cicatrici rosa che mi lambivano i polsi. C'era una domanda che morivo dalla voglia di fare a Ethan, ma temevo la risposta. Mia madre voleva che fossi in analisi per evitare che ci riprovassi? Era quello il vero motivo del mio trasferimento da lui?
Che stupida!
Ma certo che era quello il motivo. Per Beverley Stevens, la morte di sua figlia avrebbe rappresentato una macchia indelebile sul suo curriculum di donna perfetta. Pertanto, la soluzione a tutti i suoi problemi non poteva che essere quella di spedirla a Nottingham da suo fratello strizzacervelli. Non so se il fatto che io e Ethan fossimo parenti mi avrebbe aiutata a sentirmi a mio agio, raccontare fatti personali e molto intimi ad un perfetto sconosciuto non era certo una passeggiata. Ma questo era irrilevante, ciò che mi spaventava di più era l'analisi in sé, non ero del tutto sicura di essere pronta ad affrontare un'altra volta tutto quel dolore. Non che fosse scomparso, ma avevo imparato a conviverci, avevo trovato il modo di non farlo uscire da quella piccola cella, chiamata cuore, nella quale lo avevo confinato. Non avrei amato più nessuno come amavo Alessio, quindi a cos'altro mi sarebbe servito quel muscolo se non a pompare sangue per tenermi in vita? Non gli avrei permesso di scombussolarmi la vita un'altra volta.
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