Capitolo 59. -A&L


-A.

Varco la soglia, togliendomi il giubbotto, la sciarpa e i guanti e mi dirigo in cucina.
Ci trovo Jun intento ad impastare con acqua e farina. È stranamente sexy con la maglia e il grembiule sporchi di farina. Lo guardo in viso e scopro che è sporco anche lì.
Jun cucina molto più spesso in questo periodo, non so se sta cercando di accumulare punti a suo favore. Vorrei fargli sapere che non ne ha bisogno, ma dall'altra mi fa impazzire l'idea che lui cucini per me. Insomma, è così bello mangiare senza aver cucinato o strisciato la carta di credito.

Sorrido e vado da lui, per abbracciarlo da dietro. "Ehi, che fai?".

"Gli gnocchi di riso" mi risponde, girandosi quel che basta per scoccarmi un bacio in fronte.

"Oh, mio Dio, sposami" mugugno, contro la sua schiena.

Il suo corpo trema sotto le mie braccia alla sua risata. "Ci sto lavorando" mi risponde.

"Molto bene" commento, lasciandogli un piccolo bacio sulla scapola. Mi poggio sul tavolo mentre lo guardo dare la classica forma allungata degli gnocchi cinesi.
Mi viene un'idea, ma ancora sono parecchio ignorante sulla sua cultura. Mi dispiace, perché le culture asiatiche mi piacciono molto. Mi rallegro pensando che ho tutto il tempo per imparare tutto ciò che voglio sul suo mondo. Un mondo incredibilmente vasto, visto che sua madre è cinese e suo padre è giapponese.
Vorrei fargli uno scherzo e chiamarlo «Junichi-chan», usando il suffisso giapponese, ma non so se sia corretto. Decido di buttarmi e farlo lo stesso.

"Quindi" dico, avvicinandomi e accarezzandogli i capelli scuri. "Come mai stai cucinando, Junichi-dono?".

Lui alza lo sguardo su di me e sgrana gli occhi. Il mio viso avvampa appena mi rendo conto che ho sbagliato suffisso.
Naturalmente. Quante probabilità c'erano che lo chiamassi nel modo sbagliato?

"Ehm..." borbotta. "Non hai idea di cosa significa dono, vero?".

Sento le mie guance ancora più in fiamme. "In effetti, no...".

Un sorriso malizioso gli compare sul viso. "Significa padrone, signore. Cosa stai cercando di dirmi, Agatha?".

Scoppio a ridere, imbarazzata. "Nulla di ciò che pensi!" esclamo. "Quindi cosa usare per chiamarti?".

"Come, non vuoi continuare a chiamarmi dono?". Io roteo gli occhi e lui ridacchia. "Junichi-kun" mi dice, riprendendo a maneggiare la pasta.

"Non ci sono andata così lontana. Potevo chiamarti chan".

Lui scoppia a ridere di nuovo. "Sarebbe stato molto dolce" mi risponde, usando un tono sensuale, come fa sempre quando vuole togliermi il respiro. Sempre che lo sappia che mi toglie il respiro, ma lo fa così spesso che comincio a dubitarne. "E sarebbe un po' più giusto. È come se mi chiamassi «piccino» o «cucciolo». È super vezzeggiativo".

"Decisamente non fa per me" commento, accigliandomi. "Va bene, Junichi-kun" sospiro, sedendomi su una sedia accanto a lui. "Perché stai cucinando?".

"Non posso cucinare per te, Agatha-san?" mi risponde, inarcando un sopracciglio.

D'accordo, è maledettamente troppo sexy.

"Certo che sì" dico, sentendo la gola asciutta. "Però fammi fare qualcosa, lo sai che non mi va di stare ferma a guardarti. Mi sento inutile". O sento che potrei saltarti addosso mentre prepari del cibo per me.

"Davvero? Non vuoi goderti lo spettacolo?" mi chiede, mentre io scoppio a ridere.

"Siamo modesti, a quanto vedo".

"Se vuoi mi tolgo i vestiti e rimango solo in grembiule" mi propone.

Sospiro, cercando l'autocontrollo che evidentemente è rimasto ancora sullo zerbino e aspetta chissà quale mio segnale per entrare. "Magari dopo" gli dico, alzandomi per andare al lavandino a lavarmi le mani.

Lui rimane in silenzio e mi volto appena, curiosa di sapere il perché.
Forse non avrei dovuto farlo.
Forse sì.
Mi sta fissando. Semplicemente fissando, eppure ha avuto la capacità di mettere in subbuglio il mio cuore con un solo sguardo.
In effetti, non è solo uno sguardo. 
Mi sta mangiando con gli occhi.
Mi desidera e mi ama, glielo leggo così bene negli occhi che quasi potrei commuovermi.
Cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?

Gli sorrido in risposta, per poi raggiungerlo e lasciargli un dolce bacio sulle labbra. "Sei il mio cuoco preferito, Junichi-dono".

Lui sorride, per poi sospirare. "Agatha. È kun".

Cazzo. Sbuffo, roteando gli occhi. "Ti ho detto una cosa carina, potevi far finta di niente".

"In realtà, se io fossi il tuo padrone non cucinerei per te. Piuttosto, dovresti essere tu a farlo per me" mi fa notare, alzando un sopracciglio. "Se non fosse che sei una pessima cuoca".
Lo guardo, corrucciata. Lui ride alla mia espressione e aggiunge: "Ma mi fa davvero piacere che io sia il tuo cuoco preferito. Considerando la cucina di tua madre, poi".

Ridacchio, scuotendo la testa. "Allora, cosa posso fare per te?".

Non so se la mia domanda lo ha imbarazzato, perché si guarda i piedi, prima di voltarsi verso il frigo. "Dovrebbero esserci delle carote e delle zucchine. Se cominci a tagliarle sarebbe perfetto".

"Certo" rispondo, aprendo subito il frigo.

Dopo una buona mezz'ora passata a finire il tutto, finalmente ci sediamo a tavola per mangiare.

La ricetta degli gnocchi cinesi non è per niente simile a quella degli gnocchi italiani. Questi sono più gommosi ma anche più leggeri.

Sorrido, felice del profumo che sento evaporare dal piatto sotto il mio naso, mentre spargo una buona dose di salsa di soia.

"No, quella no!" esclama Jun, togliendomi la bottiglietta dalle mani.

"Cosa?" domando, confusa. "Perché no? Sono sicura che ci sta bene qui sopra... e poi io la adoro!" aggiungo, come se risolvesse tutto.

Lui mi sorride paziente. "Sì, ci sta bene. Ma preferirei che tu assaggiassi gli gnocchi prima di coprire il loro sapore con la salsa di soia".

Aggrotto le sopracciglia, trovando davvero strana quella richiesta. Mi stringo nelle spalle e intrappolo il primo gnocco tra le bacchette. Ci sono voluti mesi, anni, di esperienza per riuscire a mangiare correttamente con le bacchette, ma ormai sono diventata così esperta che le uso tranquillamente anche per mangiare il riso.
Dopo aver assaggiato gli gnocchi secondo la richiesta di Jun, mi lascio sfuggire un mugolio di apprezzamento. "Sono decisamente il mio piatto preferito" confesso, prendendone altri due.
Jun mi guarda mangiare, come se aspettasse il mio più severo giudizio. "Mi piacciono. Molto" ripeto, davanti alla sua espressione.

"Bene" risponde semplicemente, ma non cambia espressione.

"C'è qualcosa che non va?" gli chiedo, alzando un sopracciglio.

"Tu continua a mangiare".

Mi acciglio e faccio come mi dice. "Sì, però vorrò la salsa di soia sopra, sappilo".

Mi metto in bocca il terzo boccone e un dolore lancinante mi attraversa un canino, arrivandomi fino al cervello. Impreco, cercando di non sputare prima di aver preso il tovagliolo.

"È successo esattamente quello che temevo" ammette Jun, avvicinandosi per accertarsi che io stia bene.

"In che senso?" dico, dopo aver sputato. Ma non mi serve la sua risposta, perché nel tovagliolo che tengo tra le mani, in mezzo a rimasugli di gnocchi, carote e zucchine, giace un anello.
In quello che credo sia oro bianco.
È così luminoso, nonostante sia ricoperto di cibo, che mi fanno male gli occhi.

Oh.
Cazzo.
Oh, no.

"Oh, no" dico ad alta voce, prendendo l'anello con le dita e pulendolo con una nuova salvietta.

"Mi dispiace" mi dice Jun, baciandomi una tempia. "Volevo che fosse una sorpresa carina, ma come temevo l'hai preso col dente. Mi dispiace davvero, ti sei fatta tanto male?".

Mi prende il viso tra le mani e mi scruta attentamente. "No, no, tranquillo. Il dente non si è spaccato, anche se la sensazione è stata quella" lo informo, passandoci la lingua sopra per assicurarmene.

"Scusa" mormora, con una smorfia.

Gli dispiace davvero. Non l'ho mai visto così triste. Così gli sorrido teneramente. "Non fa niente, Jun" gli assicuro, poggiando la guancia sul suo braccio.

Restiamo in silenzio per non so quanti minuti, o secondi, entrambi ansiosi e preoccupati di quello che sta per succedere.
Poi, lo fa.
Lo sento scivolare ai miei piedi e prendermi una mia mano tra le sue. Recupera l'anello dal tavolo, per poi alzare lo sguardo su di me.

Si stringe tra le spalle, dopo avermi sorriso. "È esattamente quello che pensi. Voglio che tu sia mia moglie. E se accetti, ti giuro che avrò più riguardi nei confronti dei tuoi denti e di tutto il resto del tuo corpo. Potrai chiamarmi Junichi-dono, se proprio ti piace tanto ma ti prego di non farlo davanti ai miei perché potrebbero prenderti per una pervertita". Io scoppio a ridere, istericamente, tra le lacrime. Dio, non ci credo. "Cucinerò per te ogni volta che vorrai e mi impegnerò come meglio potrò per renderti felice ogni giorno che mi farai l'onore di rimanere al mio fianco. Lo so che tu vedi il matrimonio come una condanna, come un qualcosa da cui non si scappa ma ti chiedo perché mai dovresti scappare. Ci amiamo, conviviamo insieme da più di tre anni e...". Prende fiato, scuotendo la testa. "E non ce la faccio a pensare a me senza di te, Agatha. Se tu ci vorrai pensare, sappi che ti darò tutto il tempo che vuoi. Se invece sai già che la tua risposta è no...". Non finisce la frase, ma abbassa lo sguardo sull'anello, spezzandomi il cuore davanti a quella tristezza.

Tiro su col naso e mi asciugo le lacrime, anche se non serve a niente perché ne escono delle altre. Mi sento il suo sguardo addosso, ma chiudo gli occhi e sospiro. Quando li riapro, sposto un po' più indietro la sedia per poter scendere e inginocchiarmi a mia volta davanti a lui. Lo tiro a me, stringendolo in un abbraccio. Lui, dopo un secondo, ricambia, circondandomi la vita con le braccia.
Inspiro il profumo che fa sul collo, prima di prendergli il volto tra le mani e baciarlo.
Non riesco a fare altro, perché le sue labbra mi sembrano molto più sicure di quello in cui sto andando a cacciarmi.
Lui mi allontana gentilmente. "Distrarmi non servirà a niente" mi dice, sorridendo appena.

"Non ti volevo distrarre" rispondo subito. Mi prendo un attimo per rimettere in ordine le idee. "Pensavo che il matrimonio fosse una condanna solo prima di aver conosciuto te" confesso. "Tuttora penso che sia una condanna, in realtà, ma se vuol dire stare con te fino alla mia morte allora sono davvero contenta di essere colpevole".

Le sue labbra si schiudono in un sorriso bellissimo che fa sorridere anche il mio cuore. "Allora è un sì?" mi chiede, prendendomi la mano.

Sospiro, nervosa come non mai. "Non ti sei dimenticato niente, vero?". Lui aggrotta la fronte, confuso. "Non ti sei dimenticato che devo finire l'accademia, che ho un fratello pazzo, una migliore amica che verrà sempre prima di te, una madre appiccicosa e un carattere di merda?".

Lui sorride, dolcemente. "No. Non mi sono dimenticato nulla".

Poggio la fronte sulla sua.
In questi tre anni ho immaginato, pensato, sognato questo momento e mi sono sempre chiesta quale sarebbe stata la mia reazione. Pensavo che sarei stata super nervosa -come ora- e che le mie lacrime sarebbero sgorgate dagli occhi prima ancora che potessi accorgermene -come è appena successo- ma non ho mai pensato alla mia risposta definitiva. Perché, in fin dei conti Jun mi è sempre bastato, anche senza essere mio marito, mi bastava dormire con lui tutte le notti per essere pienamente felice. Eppure, adesso, se devo pensare a me nel futuro c'è sicuramente Jun. Se devo pensare a me con dei bambini, sicuramente sono miei e di Jun. Se devo pensare a me da vecchia, sicuramente alla sedia a dondolo accanto alla mia c'è Jun che invecchia meglio di me. Forse non andrà così, ma lo amo così tanto da essere disposta al rischio. Dopo tutto quello che lui fa per me, essere sua moglie mi sembra il minimo che io possa fare anche solo per ringraziarlo. E poi. Io e Jun. Marito e moglie. La sola idea mi rende così felice che non posso fare a meno di rispondere: "Sì".

Lui mi guarda per un attimo, temendo di aver capito male. "Sì, mi sono dimenticato qualcosa o sì vuoi essere mia moglie?".

"Sì, voglio essere tua moglie" rispondo, ridacchiando e allungando le dita della mano sinistra, così che lui possa infilarmi l'anello. Lo guardo sorridere felice come mai prima d'ora e trovo che sia più bello che mai.

Abbassiamo entrambi lo sguardo per vedere il gioiello scivolare piano sul mio anulare e brillare in tutta la sua bellezza.

Noto che la mano di Jun trema, così la afferro, per poi lasciare un piccolo bacio sul palmo.

Lui sospira, buttando fuori tutta l'ansia che si era tenuto dentro. "Accidenti. È stata una delle cose più difficili del mondo".

Alzo lo sguardo per guardarlo negli occhi e sorridergli. "Non dovrai rifarlo più dopo oggi" gli faccio notare. "Finché uno dei due non dirà all'altro che vuole avere bambini".

"Ehi, ehi, rallenta!" esclama lui, scoppiando a ridere. "Ancora non riesco a chiedere alla mia ragazza di sposarmi senza che si rompa un dente, figuriamoci diventare padre".

Lo seguo nel ridere. "I miei denti stanno bene, Jun".

"Bene, allora posso baciare la sposa" mormora, avvicinando il mio busto al suo mentre intrappola le mie labbra tra le sue, regalandomi uno dei migliori baci della mia vita.

Mi allontano di poco per prendere fiato, mentre la bocca di Jun scende sul collo e sulle mie clavicole. "Adesso devi scegliere" mi dice, tra un bacio e l'altro. "O me, o gli gnocchi".

Rido. "Decisamente gli gnocchi. E poi anche te" aggiungo, sorridendo maliziosamente.

"Direi che posso aspettare che tu finisca gli gnocchi" ammette, alzandosi e aiutando me subito dopo.

"Assolutamente sì. Ancora devo mettere la salsa di soia e gustarmeli per bene" gli ricordo, rimettendomi seduta.

"Avevo paura che l'anello si rovinasse con la salsa di soia" si giustifica, sedendosi anche lui.
Beh, perché invece con la farina...

"Comunque" esalo, mentre finalmente la salsa di soia si sposa con gli gnocchi. "Mi impegnerò a chiamarti Junichi-kun. Se ti piace che io ti chiami così".

Gli passo la salsa e alzo lo sguardo per scoprire che mi sta sorridendo soddisfatto. "Lo adoro".

Sento le guance avvampare e abbasso gli occhi sulla mia mano, alla quale è incatenata una promessa che sono davvero ansiosa di mantenere.

-

Mel è tornata da noi, finalmente. Averla lontana per così tanto tempo non era mai successo. Senza di lei, io e Leo non abbiamo nessuno che possa impedirci di strangolarci a vicenda.

La siamo andati a prendere in aeroporto. Era sorridente, felice, raggiante. Non l'avevamo mai vista in quello stato. Anzi, sì. Due anni fa. Quando era follemente innamorata di James. Ovviamente per tutta la durata del suo soggiorno a Parigi, ci siamo chiesti se l'avesse incontrato per caso o apposta, se si fossero parlati o se invece lei non ci avesse nemmeno minimamente pensato. Abbiamo subito scartato quest'ultima ipotesi. Sapevamo che ancora bruciava in lei la sua assenza. Per due anni, non ha mai provato seriamente ad interessarsi a qualcun altro.
Perciò, quando l'abbiamo vista più sicura di sé di quando era partita non potevamo non essere felici per lei.
Appena l'ho vista le sono corsa incontro, scavalcando valigie e facendo a gomitate con chi mi intralciava il passaggio. Una volta a pochi metri di distanza dalla mia migliore amica le sono saltata in braccio, mente Leo è rimasto a godersi quella scena ridicola, di Mel che faceva di tutto per non cadere all'indietro, a causa del nostro impatto.

Mi piace vederla sorridere.
Mi piace vederla e basta.

"Sei così bella!" esclamo, senza sapermi trattenere. Inoltre, è proprio vero. Non che non lo sia sempre, ma è talmente radiosa che chiunque farebbe fatica a non notarla.

"Santo cielo! A cosa devo questo complimento?" mi chiede, ridacchiando.

"Sei scomparsa per tre mesi!" le ricordo, usando un tono isterico.

Alza gli occhi al cielo, senza spegnere il sorriso. "Ci chiamavamo tutte le sere, Tata".

"Tre mesi!" urlo, facendo girare alcune persone nel raggio di dieci metri.

Dopo averle guardate con imbarazzo e un sorriso di scuse, Mel torna su di me. "Adesso sono qui".

"Grazie a Dio! Non so davvero da dove cominciare!" sbuffo, pensando ai preparativi per il matrimonio. No, è meglio che non ci penso ai preparativi per il matrimonio.
Il mio.
Dio, suona così male.

"È vero, il matrimonio" esclama Mel, sgranando gli occhi.

"Ancora mi sembra completamente surreale! Probabilmente nemmeno Gesù sarebbe stato in grado di fare un miracolo del genere".

Lei scoppia a ridere e mi prende le mani. Individua l'anello intorno all'anulare della mano sinistra e la porta più vicina ai suoi occhi, per esaminarlo meglio. "Per tutti i ritocchi di Donatella!" esclama, facendomi scoppiare a ridere per un'espressione così esagerata. "Non riesco a guardarlo per troppo tempo, mi fanno male gli occhi per quanto brilla", dice strofinandoseli appena.

"E ancora non l'hai visto sotto il sole" risponde Leo, da dietro la mia spalla.

Mel sgrana gli occhi a quel commento e sposta lo sguardo su di lui. Urla il suo nome e gli salta in braccio, senza preoccuparsi dello show che ormai stiamo facendo da quando è atterrata. Nasconde la faccia nell'incavo del suo collo, dicendogli che le è mancato da morire. Lui la stringe di più, cominciano a farla dondolare a destra e a sinistra.
Non so perché non mi viene da vomitare. Non solo: mi commuove anche vederli abbracciati così.
Mi commuove.
Questo matrimonio mi fa male.

Quando Mel si ritrae, si asciuga appena le lacrime e lo guarda ancora per un momento. "Non hai emesso nemmeno un gridolino. Nemmeno uno silenzioso. Cosa cavolo ti è successo? Chi sei tu, che ne hai fatto del mio migliore amico?".

Lui ridacchia, sinceramente divertito. "Il tuo migliore amico ha imparato ad essere composto ed educato, 'che sta con un artista abbastanza ricco" aggiunge, sistemandosi i capelli con una mano. "Non so se mi spiego" dice, facendo finta di vantarsi.

Ok, questo mi fa alzare gli occhi al cielo.

Lei scoppia a ridere. "Sono così felice per te, Leo!" esclama, raggiante.

"Grazie, tesoro". Le sorride, per poi prendere la sua valigia, da vero gentiluomo. "Tu invece? Che ci racconti di questo soggiorno a Parigi?".

"Hai visto la Torre Eiffel?" le chiedo, mettendomi alla destra di Mel, mentre cominciamo a incamminarci verso l'uscita.

"L'Arc de Triomphe?" domanda Leo, mettendosi alla sua sinistra.

"La Senna..." continuo ancora, capendo le intenzioni di Leo.

"Montmartre...".

"Hai conosciuto persone nuove?" chiedo ancora, rivolgendo uno sguardo allusivo a Leo.

"O ne hai incontrate di vecchie?" fa lui, alzando malizioso un sopracciglio.

"Ok, ok, vi racconterò tutto!" sbotta lei, ridendo. "Ma prima voglio andare a casa, riabbracciare i miei, il mio letto e farmi una doccia" annuncia, prendendomi sotto braccio.

"Uffa!" mi lamento. "Ma muoio dalla curiosità!".

"Un po' di suspense fa sempre bene" mi ricorda.

Sbuffo ancora, ma non la forzo. Se conosco Melanie quel poco, so che dice le cose solo dopo che se la sente. Inoltre, raccontarci tutto adesso, prima ancora di arrivare alla macchina è un po' troppo. Sicuramente le serve del tempo per digerire tutto, soprattutto il fatto che la sua migliore amica di sposi. Anche la sua migliore amica deve ancora digerire il fatto che sta per sposarsi.

Guardo di nuovo l'anello ed è davvero troppo bello per la mia mano, non affatto curata, con le unghie corte e senza smalto.
Eppure sono così felice che sia sulla mia di mano e non su quella di qualcun'altra.
Sono così felice che Jun abbia chiesto a me di sposarlo e a nessun altra.
E sono così contenta di aver risposto senza pensare alle conseguenze, come faccio di solito. Perché non ho la minima idea di quello che succederà, ma vivere fino alla fine dei miei giorni con l'uomo che amo non mi sembra così spaventoso.
Sono anche abbastanza matura da capire che non sarà tutto rose e fiori, soprattutto perché io devo ancora finire gli studi, ma non mi importa. Sarà difficile? Bene, allora vorrà dire che sarà vero, che ci stiamo per sposare davvero.

"Terra per Agatha!" mi urla mio fratello e all'improvviso ritorno in me. Guardo dritta davanti a me ma non vedo Leo, bensì una lunga distesa di macchine parcheggiate. Aggrotto la fronte quando mi accorgo di non riuscire a vedere la mia e mi volto. Scoppio a ridere davanti all'espressione di Leo e Mel. Ho camminato per due metri in più rispetto a loro, che invece si sono fermati alla macchina e mi guardano tra un misto di preoccupazione e presa in giro.

Torno da loro, correndo appena. "Scusate" esclamo, senza smettere di ridere. "Sono con la testa tra le nuvole!".

"L'avevamo capito" commenta Mel, ridacchiando.

Mi limito a sorridere e ad entrare in macchina, sedendomi dietro. Mi fa piacere cedere il mio posto a Mel, anche se è un gesto piccolo.
Sono così felice che sarà presente al mio matrimonio.

Lei, non appena capisce che deve sedersi davanti e che a guidare non sono io ma Leo, mi rivolge uno sguardo confuso. "Fatemi capire bene. Cosa è cambiato in tre mesi?".

"Niente di che. Agatha è felice e spensierata con Jun, io con Derek, mia madre cucina la pasta al forno... Tutto normale" le risponde Leo, mentre mette in moto la macchina ed esce dal parcheggio.

"Esatto!" esclama lei, sconcertata. "Insomma, ho vissuto per quasi vent'anni conoscendo una Agatha perennemente con l'umore nero e acida come se mangiasse lo yogurt tutto il giorno, e invece tu che sei sempre stato iperattivo e non manifestavi mai le emozioni se non nel modo più esagerato possibile e tua madre" aggiunge, calcando le ultime parole, "non cucina la pasta al forno, ma il pollo! Tua madre fa il pollo fritto!" grida, quasi isterica. "È da quando ero piccola che vengo a casa vostra e lei fa il pollo fritto! Da quand'è che fa la pasta al forno, eh? Da quanto, EH?".

Leo si volta quel che basta per rivolgermi un'espressione confusa. Si schiarisce la gola e chiede in modo gentile a Mel: "Sei sicura di stare bene?".

"No!" esclama, portandosi i capelli dietro l'orecchio. "Sembra che io sia stata via per anni!".

"Tesoro, ascolta" comincio, facendomi avanti col busto per metterle una mano sulla spalla.

"Da quando mi chiami tesoro?" esclama, guardandomi esterrefatta.

Sospiro, tralasciando la sua domanda. "Stavo dicendo che le persone cambiano. Maturano. Ed è quello che è successo a noi. Io non sono più arrabbiata e acida perché ho capito che esserlo mi fa stare solo male e che invece vivere tutto con serenità mi fa stare molto meglio. Leo non è più esagerato perché ha capito che per essere un adulto non può essere esagerato sempre. Deve sapere come gestire la sua emotività" le spiego, con gentilezza. Forse fin troppa, sembrava che stessi parlando con una bambina.

Lei però rimane in silenzio e non aggiunge altro per tutto il tragitto aeroporto-casa. Semplicemente, guarda fuori dal finestrino con aria pensante. Non so a cosa stia pensando, spero solo che non sia nulla che la renda triste.

Quando arriviamo davanti casa di Mel, la aiutiamo a prendere le valigie e assistiamo con gioia alla reazione dei suoi genitori nel rivederla. È senza prezzo, Amelia scoppia a piangere e la stritola non appena mette piede dentro casa. Luke anche la abbraccia silenziosamente per un lungo periodo e mi devo impegnare per non commuovermi.

Io e Leo ci guardiamo in uno sguardo d'intesa, lasciandola a casa per darle il tempo per stare con la sua famiglia e disfare le valigie.

Risaliamo in macchina e questa volta posso sedermi davanti con Leonard.
Un giorno, avrei sbuffato.
Adesso, ringrazio ogni giorno di avere un gemello come lui.


-L.

La mattina dopo, di sabato, sento il campanello suonare. Aspetto che sia mia madre ad aprire ma poi mi ricordo che è uscita per andare al mercato. Perciò, lascio perdere il libro che stavo leggendo, non senza prima aver posizionato per bene il segnalibro, e mi dirigo verso l'ingresso.
A sorridermi raggianti ci sono Mel e Agatha. Gli sorrido anche io, salutandole calorosamente. Le faccio entrare e le chiedo se vogliono qualcosa.

"Hai qualcosa di alcolico?" mi chiede Melanie, e io mi acciglio.

"Come, prego? Sono le dieci del mattino, cara" le faccio notare.

"Lo so, ma ne ho bisogno" si giustifica.

Guardo Agatha, che è rimasta sconcertata come me per poi sospirare. "Ho della birra. Mi rifiuto di darti qualcosa con un tasso alcolico più alto".

"La birra andrà bene". Poi chiede ad Agatha di seguirla in salotto e io faccio lo stesso dopo aver preso la birra dal frigo. La stappo e gliela porgo.

"Grazie, Leo" mi dice, con un sorriso. La porta alle labbra e ne beve un gran sorso.

"È successo qualcosa?" le chiede Agatha, guardandola con apprensione.

Lei annuisce, per poi bere di nuovo. "Ho rivisto James".

Io e mia sorella ci guardiamo per un attimo. D'altronde, l'avevamo previsto. "Se proprio vuoi, posso anche darti qualcosa di più forte a questo punto" le dico, sedendomi sulla poltrona di fianco al divano.

Lei scuote la testa, ridendo piano. "Meglio di no, ma grazie".

"E?" fa Agatha, ansiosa di sapere il resto.

"Ci siamo incontrati alla fermata di un tram e abbiamo iniziato a parlare. All'inizio non sapevo cosa...".

"No, un attimo" la interrompe mia sorella, confusa. "Vi siete incontrati alla fermata di un tram?".

"Sì" conferma lei.

"Un qualsiasi tram di Parigi?".

"Sì".

"Come cavolo è possibile?" sbraita, sgranando gli occhi. "Insomma, quante probabilità c'erano che vi incontraste e che per di più avreste preso lo stesso tram?!".

"Non abbiamo preso lo stesso tram" ci spiega. "Semplicemente quello che dovevo prendere io era molto vicino al suo luogo di lavoro, così mi ha vista passare davanti e... Mi ha inseguita" aggiunge, ridendo appena.

"Cazzo, sembra un film" commento, sconvolto. Non riesco a credere che si siano incontrati per caso.

"Non dirlo a me" replica Melanie, e poi continua il suo racconto. "Ci siamo dati appuntamenti, siamo usciti, io ero a disagio perché, insomma, l'ho pur sempre tradito, ma poi lui mi ha invitato a casa e...".

"Oh mio Dio" esclama Agatha, portandosi una mano al cuore.

"Avete fatto sesso?" chiedo, restando a bocca aperta.

Lei annuisce, stringendosi nelle spalle. "Due volte".

"CHE COSA?" strilla Agatha, senza sapersi trattenere. "Ti prego, dimmi che scherzi".

"No, ma cosa avrei dovuto fare? Scusa se non ho saputo controllare i miei ormoni dopo che ho rivisto l'uomo che amo" risponde, piccata.

"Sì, scusami" si sbriga a dire Agatha. "Non volevo giudicarti, è solo che è davvero assurdo".

"Già" annuisce. "Insomma, abbiamo ritardato il discorso il più tardi possibile e poi quando è arrivato il momento abbiamo litigato. Male" aggiunge, per poi bere un sorso di birra. "CI siamo dati dei giorni di tempo per pensare e...". Si blocca, cercando di riprendere fiato. Una lacrima scende dal suo viso. "Non so stare senza di lui" confessa, singhiozzando. "Quindi ci siamo rimessi insieme. Ho vissuto da lui per tutto il tempo dello stage perché la sua coinquilina se n'è dovuta andare per lavoro ed è stato assolutamente fantastico! Adesso stiamo cercando delle case migliori...".

"Melanie!" esclamo, alzandomi in piedi per andarla ad abbracciare. "Sono così contento per te!" grido a pieni polmoni, per dare spazio alla mia gioia. La lascio andare e applaudo entusiasta mentre lei si asciuga le lacrime e ride, emozionata.

"Grazie, Leo. Sono felice anche io".

"Vorresti dire che adesso andrai a vivere a Parigi?".

Sia io che Mel ci voltiamo verso Agatha, che prima di adesso non aveva detto nulla. È ancora seduta sul divano e ha un'espressione corrucciata sul viso.

"Penso di sì" risponde lei, con la voce tremante d'emozione. "Insomma, ho cercato dei posti dove potrei inserirmi e ce ne sono un sacco. Ho molti modi per crescere lì, più di qui".

"E abbandoneresti tutto quello che hai qui? La tua famiglia? Noi?" continua Agatha, con un tono che riconosco fin troppo bene: sta per arrabbiarsi.

Mel rimane per un attimo senza parole, poi sposta lo sguardo su di me, chiedendomi aiuto, ma io non so che fare. Non ho la più pallida idea del perché mia sorella si stia comportando così.

"Non vi abbandonerei, certo che no" dice alla fine Melanie, sedendosi di nuovo accanto a lei. "Tornerò, ovviamente. Tornerò per vederti salire sull'altare, sarò qui ogni volta che avrai bisogno di me, te lo giuro".

"Ma come fai a fidarti di lui? Insomma, sono passati due anni, potrebbe avere un'amante o non essere sincero, o potrebbe aver architettato tutto per vendicarsi...".

"Agatha" la ferma Melanie, con un tono dolce. "È sincero. E lo so perché abbiamo provato le stesse cose. Se invece sta fingendo, cosa che dubito, siete entrambi autorizzati ad ucciderlo, d'accordo?" aggiunge, spostando gli occhi da me a Agatha.

Mia sorella rimane pensierosa ancora per un po' ma poi allarga le sue labbra in un sorriso e si butta tra le braccia di Melanie. "Già mi manchi al solo pensiero!" esclama, singhiozzando.

Santo cielo, questo posto è diventato un piagnisteo.

"Avremo la scusa per venire a Parigi ogni volta che vogliamo!" esclamo, per rialzare l'umore.

"Oh, mio Dio, è vero!" dice Agatha, mettendosi a saltellare sul divano. "Dovrai farmi da guida turistica!".

"Sarà fatto" accetta Melanie, sorridendo. "Potete venire con me, appena passato Natale" propone. "Potremmo passare capodanno insieme".

Sia io che Agatha sgraniamo gli occhi. "Ti prego dimmi che posso portare Jun. Avere voi tre nello stesso luogo mi riempirebbe di gioia!".

"E a me dì che posso portare Derek!" esclamo, cercando di comunicargli con lo sguardo quanto un'idea del genere possa piacermi.

Lei scoppia a ridere. "Certo che sì".

"UNA SANTISSIMA USCITA A SEI!" urlo, mettendomi in piedi sul divano. "È da tre anni che sto aspettando questo momento!".

"Per James andrà bene?" le domanda Agatha.
Tata, non importa, dovrà andargli bene e basta.

"Sì, non ti preoccupare. Non che abbia altre scelte, poi" aggiunge, quasi mi avesse letto nella mente.

"Ti adoro!" esclamo, scendendo per sedermi sopra di lei.

Le seguenti ore trascorrono nella confusione più totale, tra noi che brindiamo con la birra, e che cantiamo canzoni a squarciagola.
Mi sembra di essere tornato ai tempi del liceo, quando le nostre preoccupazioni più grandi erano quelle di riuscire a parlare con il tipo che ci piaceva.
È buffo pensare che in tutti e tre i casi sia io, che Mel, che Agatha stiamo insieme a quelle persone che ai tempi del liceo ci hanno dato davvero del filo da torcere.

Da quando abbiamo iniziato il liceo fino ad adesso, le cose che sono cambiate sono innumerevoli.
Adesso, le nostre preoccupazioni e i nostri pensieri sono altri. Sono preoccupazioni da adulti.
Mi fa paura pensare che più andremo avanti più i pensieri e i problemi aumenteranno e diventeranno più complessi, ma so anche che è da tanto che aspettavo di ritrovarmi in questo periodo della mia vita. Perché aspettavo impaziente di essere indipendente e di essere da solo contro il mondo, per quanto pauroso sia.
Ci saranno sempre più bollette e affitti da pagare, soldi da guadagnare e montagne da scalare.
Però, in questo momento non ho paura. So dove voglio andare, cosa voglio dalla mia vita. So chi sono e come voglio essere.
Sono felice.
Siamo felici.
Forse ingenuamente, ma per il momento mi va bene così.



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