Capitolo 56. -J


Quando l'ho vista passare davanti al piccolo ristorante dove lavoro, il mio cuore ha perso un battito. Ho pensato immediatamente che fosse lei, ma poi ho notato che non portava i tacchi, perciò ho scosso la testa sentendomi un imbecille. Dopo oltre due anni ho immaginato l'ennesima volta di vederla apparire davanti a me. Dovevo smetterla.

Ho ripreso a pulire il tavolo, dopo che una coppia americana in vacanza se n'era andata, mettendo i piatti nel vassoio che avevo sotto il braccio. Ho rialzato poi lo sguardo, curioso di constatare quanto quella ragazza le somigliasse. Aveva i capelli leggermente più corti dei suoi ed era leggermente più in carne. Ho posato gli occhi sulla sua amica e somigliava terribilmente alla sua amica d'accademia, mi pare che il nome iniziasse con la V... Ho smesso improvvisamente di sparecchiare il tavolo, mentre il mio cervello cercava con difficoltà di mettere insieme i pezzi. Perché se i miei occhi non mi ingannavano, ciò che vedevo poteva significare solo una cosa. Eppure era completamente incomprensibile e improbabile.
Ricordo di essere uscito fuori, guardandole mentre camminavano in fretta. La ragazza alta e rossa si è messa a correre cercando di raggiungere un tram che si stava avvicinando alla fermata. Quella più bassa ha urlato: "Aspetta! Non osare prendere quel tram senza di me!". Bene, lì non ho più avuto dubbi.

Preoccupato che riuscisse a prenderlo, mi sono messo a correre per raggiungerla e fortunatamente quando sono arrivato l'ho trovata che guardava il tram allontanarsi, scocciata e irritata. Si è poi seduta sulla panchina, tirando un grosso sospiro.

"Mel". Non mi ricordo nemmeno come l'ho detto e perché. Il suo nome è uscito dalle mie labbra prima che il mio cervello potesse inviare l'impulso per serrarle. Quando si è girata, ho pensato che la mia sveglia sarebbe suonata in quel momento e che tutto sarebbe finito. Ma così non è stato, lei continuava a fissarmi, sbigottita almeno quanto me.

Adesso sto qui, che la guardo incredulo, cercando di dare senso a cosa è appena successo, senza riuscirci. Mi sono avvicinato senza essermene reso conto. Forse voglio provare a toccarla, per provare che è davvero qui davanti a me, ma poi mi fermo rendendomi conto che sarebbe troppo strano.
"Ciao" mormora, confusa.

Sorrido appena, ancora troppo sorpreso per riuscire a fare altro. Quello che vorrei fare in realtà lo so e sarebbe stringerla tra le mie braccia ma non posso.
Non so niente di lei, adesso. Non so più chi è. Ma fortunatamente l'espressione dei suoi occhi non è poi così diversa a come la ricordavo. Solo un po' più matura. Più grande.

"Ti sei fatto crescere quella barba, eh?". Mi acciglio sorpreso, se possibile, ancora di più.

Mi tocco una guancia, distratto, mentre i peli ispidi si incastrano tra le mie dita.

"Beh, sì. Non ho più molto tempo per radermi".

"Ci vuole molto più tempo per curarla quando è lunga, però" mi fa notare, con un sorriso furbo.

"È vero" ammetto, con una piccola risata.

"Sembri davvero vecchio così" aggiunge, piegando la testa di lato.

La guardo nuovamente confuso. È davvero questa una delle prime cose che mi ha detto? "Va bene, allora la taglierò".

"Non ho detto questo" puntualizza, mentre si forma una piccola ruga tra le sue sopracciglia. "Solo che sembri vecchio, non che ti sta male. Vecchio e brutto sono due cose diverse".

"Interessante punto di vista" ridacchio.

"Grazie", e ride anche lei.

"Beh... Allora... Insomma...". Dimenticare come si parla? Un classico. "Sì, ecco... Come mai sei qui?".

"Oh" esclama lei, sorpresa dalla domanda. "Ecco... in realtà sono qui per uno stage scolastico. Sai, una specie di Erasmus che organizza la mia Accademia".

"Ah" commento, annuendo.

"Sì, insomma, mi sono iscritta per vincere la borsa e l'ho vinta quindi...".

"Complimenti" le sorrido, sinceramente.

"Grazie" mi risponde. È a disagio. "Sai... Non è che non ci avessi pensato a dirtelo... è che, sai, non ci siamo più sentiti e..." si interrompe per cercare le parole giuste, ma poi sospira. "Non lo so. Scusami. Sono stata pessima a non avvertirti".

"Non c'era motivo per farlo" la rassicuro. "Non dovevi sentirti obbligata. Insomma, Parigi ha... beh, un bel po' di abitanti".

"Due milioni e duecento settanta mila" mi informa di getto. Alla mia espressione si stringe nelle spalle. "Circa. Sai, sono andata a controllare su Google".

"Buono a sapersi" le sorrido, scuotendo la testa. È andata a cercare il numero degli abitanti di Parigi. "A quanto pare nemmeno con i due milioni di abitanti di Parigi era necessario avvertirmi del tuo arrivo".

"Tu dici? Perché?" mi chiede, aggrottando le sopracciglia.

Le sorrido, stringendomi nelle spalle. "Perché ci siamo incontrati lo stesso".

Sgrana gli occhi, probabilmente non si aspettava una risposta del genere. A dirla tutta nemmeno io so perché l'ho detto. Mamma da piccolo mi diceva che dovevo cucirmi la bocca. Forse è il caso di farlo.

In lontananza sento il rumore del tram. Lei sposta lo sguardo dietro la mia schiena e stringe le labbra.

"Beh, devo andare. Sono in ritardo. Ma... Noi..." balbetta, arrossendo.

"Sì?".

"Ci vediamo, no?".

"Certo" rispondo subito.

Lei sorride, per poi abbassare lo sguardo. "Allora a presto". Annuisco semplicemente.
Ho un déjà-vu. Io e Mel che ci incontriamo alla fermata di un mezzo di trasporto. Lei che sale e io che la guardo scomparire in lontananza. Sarà successo almeno un milione di volte.

-

Rimanere concentrato a lavoro è stato più difficile di quanto avessi immaginato. Ho avuto in mente lei tutto il giorno e più di una volta ho dovuto chiedere ai clienti di ripetermi il loro ordine. Quando finalmente posso andarmene cerco di cambiarmi in fretta e furia e di uscire di soppiatto. Saluto il capo e i miei colleghi e schizzo via prima che possano aggiungere qualcosa.

Quando scendo le scale della metro sento il telefono vibrare nella tasca dei pantaloni. Lo tiro fuori e leggo il mittente del messaggio. Mel.

"Sei occupato stasera? Mi piacerebbe fare una chiacchierata, è da davvero tanto tempo che non parliamo".
Sono d'accordo. Fin troppo.

Le rispondo che non ho nessun impegno e che possiamo andare a berci qualcosa in qualche pub. Alcuni minuti dopo mi risponde che va benissimo. Le mando l'indirizzo del locale.

Ok, sta succedendo davvero tutto in fretta. È piombata qui dal nulla, senza nessun preavviso e ci siamo riavvicinati come se i due anni appena passati non fossero mai esistiti.

Sono così confuso e scombussolato che non mi accorgo nemmeno di essere rientrato a casa.

"Oh mio Dio" commenta la voce di Priya. Mi volto e la trovo sul divano mentre guarda la tv. Sta sgranocchiando delle patatine, accanto ha un barattolo di Nutella e sul tavolo c'è un barattolo di cetriolini sott'aceto. Bene. È quel periodo del mese.

"Oh mio Dio dovrei dirlo io, Priya" commento, guardando disgustato quello strano abbinamento -se così si può dire- di alimenti.

"Sembra che tu abbia visto un fantasma" continua, ignorando la mia frase.

"Beh, sì, più o meno".

"Cosa?" esclama. "Vuoi dire che esistono i fantasmi?!".

Roteo gli occhi, mentre mi tolgo il giacchetto e lo appendo all'attaccapanni. "Davvero molto divertente".

"Allora che è successo?".

Sospiro, mi volto verso di lei, posando le mani sulle anche e con un solo respiro le dico: "Ho incontrato la mia ex".

Alcune patatine le cadono dalle mani. Sbatte le palpebre un paio di volte. "Intendi... quella che due anni fa...".

"Sì".

"Quella per cui sei rimasto chiuso in camera tua con la serranda abbassata per due mesi vivendo come un vampiro?".

"Sì". Ed è successo davvero.

"È qui?!" mi chiede ancora, colorando la voce.

"Già".

"Ooooh, capperi!" esclama, sedendosi sulle ginocchia. "E come vi siete incontrati?".

"È passata davanti al bar e io l'ho rincorsa".

"Oh mamma, sembra la scena di un film di Nicolas Sparks!".

"Nicolas Sparks è uno scrittore" le faccio presente, ma lei come al solito mi ignora.

"E quindi?! Che vi siete detti?!".

"Beh, l'ho salutata, lei mi ha salutato... Abbiamo parlato per poco, lei doveva prendere il tram".

"Oddio, voi uomini!" si lamentò, esasperata. "Voglio i dettagli, James!".

"I dettagli?" ripeto.

"Sì, sì, i dettagli! Cos'è la prima cosa che ti ha detto, tu cosa lei hai risposto, come vi siete salutati prima che lei se ne andasse, INSOMMA possibile che devo fare tutto io?!".

"Va bene, ma ora calmati". Decido saggiamente di accontentarla, visto che in questa settimana potrebbe anche arrivare a uccidermi se non le rispondo nel modo corretto. Mi siedo sul divano accanto a lei e le racconto tutto per filo e per segno, e lei mi fissa concentrata a non perdere nemmeno una parola di quello che dico mentre continua a mangiare le patatine. È inquietante. "Contenta, ora?".

"Mmh..." mormora, mentre sgranocchia dei cetriolini. Mi trattengo dal guardarla schifato.

"Cosa?".

"Certo che tu sei un romanticone, eh?" sghignazza. "Perché ci siamo incontrati lo stesso!" esclama, imitando la mia voce. "Ma dai! Mi sorprendo che lei non sia scoppiata a ridere!".

"Non l'ha fatto" borbotto, imbarazzato. "È rimasta senza parole".

"Beh, ci credo!" dice per poi scoppiare a ridere calorosamente. La guardo, infastidito, senza riuscire a trovare nulla di divertente. "Scusa, scusa è che..." mi dice, dopo aver ripreso fiato, "mi immagino la scena e...", riprende a ridere più forte di prima.

"Va bene, ho capito" sospiro, alzandomi. "Vado a farmi la doccia".

"No, no! Aspetta!" grida lei, afferrandomi per la maglietta. "E poi? Quando vi vedete adesso?!".

"Stasera".

"Cosa?! Stasera? E dove andate?".

"Al Queen Rocket, quello qui vicino".

"E poi?!".

"Poi cosa?!" esclamo, cominciando a stufarmi del suo comportamento.

"Avete intenzione di fare sesso qui?" urla, infuriata.

"COSA, ma sei impazzita?!".

"Devo saperlo!".

"Non credo proprio!".

"Dio, quanto sei stupido! Se dovete venire qui, dimmelo così io vado a dormire da Irma!". Irma è la sua migliore amica da quando si è trasferita qui. È pazza almeno quanto lei.

"Oh" dico, sorpreso della sua generosità. "Lo faresti?".

"Sì, ma non pensare che sia per te. È che non voglio sentire te che copuli dalla mia stanza". Alzo gli occhi al cielo per la sua mancanza di tatto. "Insomma, esiste solo una regola in questa casa. Ovvero non fare sesso quando a casa c'è anche l'altro. È semplice... E ovviamente, non fare sesso tra noi. Senza offesa, ma non verrei mai a letto con te" aggiunge, con noncuranza.

Questa volta sono io a decidere, saggiamente, di ignorare l'ultima parte del suo discorso. "Senti, non lo so! Non penso, ci siamo rivisti oggi per la prima volta dopo due anni, non credo che succederà... che c'è?!" le chiedo, spazientito dal suo sguardo.

"Ormai sei come un libro aperto. Si vede che tieni ancora a lei quindi, credimi, per quanto due anni di lontananza possano aver gravato su voi due, sono abbastanza sicura che vi ci vorrà molto di meno per riavvicinarvi" mi comunica, con fare saggio.

"Non ne sarei così sicuro. Per quanto ne so potrebbe avere un fidanzato".

"Non uscirebbe con te stasera" mi fa presente lei.

"Non sono sicuro nemmeno di questo" rispondo, ripensando all'accaduto di due anni fa. Ha pur sempre baciato un tizio mentre stava con me.

"Senti, se pure ha un fidanzato, comunque vuole rivederti. E fidati noi donne ci illudiamo; basta che appariate dal nulla e se vi abbiamo amato tanto in passato, basta uno sguardo e ricadiamo di nuovo nella trappola. Sicuramente si sta illudendo che potrete essere solo amici e avrà pensato che questa serata sarà tra amici e basta, ma fidati della buona vecchia Priya. Priya, infatti, adesso chiamerà Irma perché è sicura che ci darete dentro stanotte e non vuole assistere" mi annuncia, alzandosi in piedi e portando il telefono all'orecchio.

"Va bene, dì a Priya di fare quello che vuole" sospiro, scuotendo la testa, mentre le do le spalle per andare a prendere il necessario per la doccia in camera. Tengo il mio shampoo e il mio bagnoschiuma nella mia stanza perché altrimenti Priya li usa. Sì, sono un tantino geloso delle mie cose.

Dal salotto la sento dire: "Senti, amica, c'è il mio coinquilino qui che deve fare roba stasera quindi dormo da te... Perché? Come perché? Mica voglio restare qui a sentire lui che ci da dentro! Insomma, io ho pure il ciclo, non posso fare un bel niente!".

Decido di sbrigarmi a entrare in doccia per smettere di sentire le sue sciocche previsioni.

-

Sono al Queen Rocket e ho quasi finito il primo bicchiere di birra. Sono in anticipo, ero troppo nervoso.
Nervoso.
Mi sembra di essere tornato al primo anno di liceo, piccolo e deficiente.

Guardo il colore giallo ocra della birra, ma in realtà ripenso a quello che mi ha detto Priya. Tante, troppe domande mi perforano il cervello: cosa vuole? È fidanzata? Prova ancora qualcosa per me? Perché vuole parlarmi?

Mi reggo la testa con una mano. Le tempie mi iniziano a pulsare.

"Eccomi!".

Sussulto e mi giro di scatto, ritrovandomela seduta allo sgabello vicino al mio. "Scusa!" ridacchia. "Ti ho spaventato? Eri assorto nelle bollicine della birra?".

"Sì" rispondo, sorridendo. "Le bollicine della birra in realtà nascondono il segreto dell'universo". Ma che dico?

"E in quanto segreto immagino che tu non me lo possa dire" continua lei, reggendomi il gioco.

"No, infatti" dico, per poi scoppiare a ridere. Lei mi segue.

Faccio per dire qualcosa, ma il barman ci compare davanti e le porge il menù. "Una Chimay rossa" rispondo, meccanicamente. Sia il barista che lei mi guardano sorpresi. "Sempre se sia la tua preferita" aggiungo.

"Ehm... Sì, lo è".

"Piccola o media?" chiede il barista.

"Piccola" rispondiamo in coro.

Entrambi mi fissano di nuovo, accigliati. "Vuole anche qualcosa da mangiare insieme?" mi chiede lui indicando Mel con la penna.

"Sì, del mais tostato".

"Arriva subito".

Restiamo un po' di secondi in silenzio. Sento il suo sguardo cagnesco su di me. Mi volto a guardarla e ha quella sua solita espressione seria che mi regalava sempre quando facevo qualcosa di sbagliato. Ovviamente sta a me indovinare cosa, ma in questo caso non è difficile.

"Scusa" dico in una smorfia, alzando le spalle.

Lei continua a fissarmi, rimproverandomi con lo sguardo. "Hai ordinato al mio posto".

"Non volevo ordinare al tuo posto..." mi sbrigo a spiegarle. "Ho solo... risposto meccanicamente. Non ci ho nemmeno pensato, giuro".

Il suo sguardo si addolcisce. "Bella memoria".

Ridacchio, trattenendomi dal dire che certe cose non me le sono dimenticate. Ho già fatto abbastanza casini.

"Beh, allora? A quanto la laurea?". Il mio intento era quello di rompere il ghiaccio e di cambiare argomento, ma non potevo sceglierne uno peggiore.

Invece Mel sorride, orgogliosa. "Già fatta. Questo è un post laurea. È complicato" aggiunge, al mio sguardo confuso.

"Beh, le mie congratulazioni, allora. Sei finalmente libera".

"Sì, e terrorizzata. Ora non so davvero cosa fare della mia vita".

"Già, ti capisco. Ho vissuto lo stesso trauma tre anni fa".

"Sì, mi ricordo" dice, incupendosi. Le faccio per chiedere se c'è qualcosa che non va ma è lei a parlare. "Tu invece? Novità?".

Annuisco. "Ho un contratto stabile con un'agenzia fotografica. Sai, matrimoni, battesimi, queste cose qui. Non è proprio quello che voglio fare io, ma ce ne vuole di strada per aprirsi uno studio".

"Sì, immagino" replica, comprensiva.

"E continuo a lavorare al ristorante. Parigi è cara".

"Accidenti se lo è!" esclama, sgranando gli occhi. "I prezzi delle macchinette nello studio di oggi erano altissimi!".

"Sì, e non hai visto i chioschi sotto la torre Eiffel."

"Beh, ma sotto la torre Eiffel è molto più logico!".

Scoppiamo entrambi a ridere, fino a che le nostre risate non scemano insieme in un silenzio teso e imbarazzante. Abbasso gli occhi sul mio bicchiere di birra, mentre sento il suo sguardo perforarmi le tempie. Il mio battito cardiaco accelera, senza che io possa capire perché. Quasi meccanicamente il mio collo mi fa voltare di nuovo la testa e scopro che mi stava effettivamente fissando.
Ora che anche io la fisso, lei non si ritira. Continua a fissarmi. In modo strano, aggiungerei. Forse sta cercando di capire quanto io sia cambiato e se provo ancora qualcosa per lei. O magari ho qualcosa di strano sulla faccia come, che ne so, dei resti di dentifricio agli angoli della bocca. Sospira e scosta gli occhi da me per mettere a fuoco qualcun altro che scopro dopo due secondi essere il barista di prima.

"Ecco la Chimey rossa e il mais tostato" annuncia, poggiandoli davanti a Melanie. Lei ringrazia con un sorriso. Il barista ricambia e ci lascia di nuovo soli, imbranati e stupidi. Lei circonda il suo bicchiere di birra con le dita e lo trascina più vicino a sé, per poi prendere la piccola ciotola con il mais tostato e metterla in mezzo a noi. Mi invita a prenderne alcuni e la ringrazio interiormente per avermi dato qualcosa da fare che non sia fissarla in ogni sua piccola mossa come se fossi un cecchino.

Ma il mais non è una buona soluzione. Ho lo stomaco ingarbugliato e mi ritrovo a masticarlo con pigrizia e a mandarlo giù con difficoltà. La nausea è troppa e decido di rinfrescarmi la gola, bevendo un altro sorso di birra.

Ritorno su Mel e lei, al contrario di me, ha quasi finito tutto il mais che c'era nella ciotola. Mi acciglio e lei se ne accorge. Sorride, imbarazzata.

"Hai fame?" le chiedo, cercando di non prenderla troppo in giro. "Se me l'avessi detto prima, saremmo andati a cena".

"Oh, no, no, no, no!" esclama, ridacchiando. "Sta' tranquillo, non sono affamata", aggiunge, prendendo un'altra manciata di mais. "Sono solo...", si interrompe cercando la parola mentre mastica velocemente.

"Nervosa?" le chiedo.

"No!" risponde immediatamente, con fin troppa fretta. "Assolutamente, figurati, perché dovrei esserlo?".

"Non saprei" rispondo, ridendo appena. Alzo le spalle e aggiungo: "Insomma, io lo sono".

Lei mi guarda sorpresa e inclina la testa di lato. "Già. Sì, sono molto nervosa".

Mi massaggio le palpebre con il pollice e l'indice, tirando un gran sospiro. "Siamo patetici".

"Patetici?" mi fa eco. "Hai una così bassa autostima su di noi?".

"Sì e sì" rispondo, tornando con lo sguardo su di lei. "Insomma, ci conosciamo fin troppo bene eppure sembra che...". Mi fermo, perché ciò che vorrei dire rischierebbe di rovinare tutto. Decido di improvvisare. "Che ci siamo dimenticati come si fa a parlare".

Ridacchia. "Sì, è vero". Si guarda intorno e decido di fare lo stesso. Ci sono solo coppie. "Forse questo posto non ci aiuta" mi fa notare, alzando un sopracciglio.

"Vogliamo andarcene?" le propongo e lei annuisce vigorosamente. Le sorrido in risposta, tirando fuori il portafoglio.

"Non ti azzardare" esclama. Mi volto e ha già posato i soldi sul tavolo. "Hai già ordinato per me, non pagherai anche per me".

Rido, sinceramente sorpreso. "Veramente non avevo intenzioni di offrirti nulla, tranquilla".

"Ah, davvero?" mi risponde, piccata.

"Sì" rispondo, con un sorriso sghembo sul viso. Tiro fuori la somma per pagare la mia parte e la poggio sopra la sua. La guardo alzando un sopracciglio. "Lo odi".

Lei si morde la guancia, infastidita dal fatto che io abbia pienamente ragione. "Potevi almeno fare la mossa, disgraziato".

Scoppio a ridere, scendendo dallo sgabello. "Scordatelo". Rimango a guardarla mentre cerca la soluzione più semplice per alzarsi anche lei. In effetti, i suoi piedi sono a un bel po' di centimetri dal pavimento. "Vuoi che ti aiu-".

"No" risponde seccamente. Porta entrambe le gambe di lato, poggia una mano sul bancone e l'altra sul bordo dello sgabello e facendo leva torna a terra con un piccolo saltino. Mi guarda, soddisfatta.

"Ti sei allenata in questi due anni" le dico, ridacchiando, mentre mi avvio all'uscita.

"L'essere bassi è un disagio non indifferente. Ci vogliono anni di studio e di calcoli matematici per riuscire a raggiungere un livello che ti permetta di vivere da solo, senza l'aiuto di un essere umano più alto" mi spiega, fingendosi saccente.

"Posso solo immaginare" rispondo, roteando gli occhi. Lei mi da un pugno sul braccio e io mi metto a ridere. Arriviamo alla porta e afferro la maniglia, spingendola verso di me. Mi volto verso di lei e le indico con la testa di uscire. Lei alza un sopracciglio, aggrottando la fronte. "Che c'è?" le chiedo, fingendo innocenza. "Questa mossa non dovevo farla?".

Lei scoppia a ridere e scuote la testa mentre esce; io la seguo e l'aria fresca che mi pizzica sul viso è davvero piacevole. Ne avevo bisogno, Mel aveva ragione.

"Io mi sono allenata a sopravvivere con la mia bassezza. Tu, invece, ad essere più stronzo" mi fa notare, mentre ci incamminiamo.

Rido fragorosamente. "Mi perdoni, signorina, non volevo essere stronzo con lei".

"Oh, no, lo volevi eccome!" esclama lei, ridendo di cuore. "Questa è la tua vendetta".

"La mia vendetta?" ripeto, accigliandomi.

"Sì, la tua vendetta!". La sua risata diventa sempre più piccola, finché non rimane solo un sorriso accennato.

"Per cosa?" le chiedo, abbandonando anch'io l'ampio sorriso sul volto.

"Per..." comincia, per poi deglutire. "Per quello che ho fatto". Incrocia le braccia al petto e guarda per terra. Sembra come che una grande tristezza l'abbia improvvisamente travolta.

Rimango per qualche secondo in silenzio. "Mel" dico, quando credo di aver capito cos'è che non va. Lei non si volta a guardarmi, ma io vado avanti. "Perdonati".

Lei trasalisce e sospira.

"Io l'ho fatto" aggiungo. "Due anni fa, tra l'altro".

Mi guarda con la coda dell'occhio per poi tornare a fissare l'asfalto. Rimane alcuni secondi in silenzio e poi si ferma all'improvviso. Me ne accorgo e mi fermo per voltarmi a guardarla, temendo che si stia sentendo male. Invece non sembra stare male... almeno non fisicamente. Ha ancora le braccia incrociate e non sembra avere l'intenzione di alzare lo sguardo. Mi avvicino e piego la testa di lato cercando di vedere la sua faccia, ma i capelli la nascondono. Vorrei prenderle il viso tra le mani e scoprirlo, ma sarebbe un passo più lungo della gamba.

"Mel" la chiamo, dolcemente. "Tutto bene?". Lei annuisce, ma non alza la testa. "Continuiamo a camminare?". Lei annuisce di nuovo ma non si muove. Faccio un passo, pensando di incoraggiarla, ma prima che possa farne un secondo sento la sua mano afferrare la mia. Mi blocco, voltandomi di scatto, mentre il mio cuore si contorce al quel contatto.

Finalmente alza la testa. Ha gli occhi pieni di lacrime. Sorrido di dolcezza a quella vista. Ma non so che fare. Il modo in cui mi guarda... se non fosse passato così tanto tempo, forse potrei dare ragione a Priya quando dice che i suoi sentimenti per me non sono cambiati. Ma non voglio illudere il mio cuore, sarebbe troppo doloroso. Perciò stringo la presa sulla sua mano e la spingo gentilmente per farla camminare.

Lei si fa trasportare per qualche metro e poi scioglie la presa. Si sposta i capelli dietro l'orecchio e infila le mani nelle tasche del suo spolverino. "Stavamo andando bene ma poi ho creato quest'aura di depressione. Sono pessima" dice, sorridendo appena.

"Sì, sei pessima" affermo. "La peggiore. Mi chiedo perché mi ritrovi qui con te questa sera".

"Spiritoso" mi dice, tirando fuori la lingua. Ridacchio e lei mi segue.

Continuiamo a scherzare con una facilità che mi ero dimenticato di avere. Dopo una quindicina di minuti ci ritroviamo davanti al portone del palazzo dove abito e tiro distrattamente fuori le chiavi.

"Cosa fai?" mi chiede, aggrottando le sopracciglia.

Guardo lei e poi guardo le chiavi. "Oh, ehm, io vivo qui" le dico, indicando il portone. "Per l'abitudine ho preso le chiavi. Ma possiamo continuare a stare in giro ancora per un po'".

"Per me fa lo stesso, se sei stanco non penserò di te che sei vecchio" mi dice, ridacchiando.

Alzo gli occhi al cielo. "Non sono stanco. Tu lo sei?" le chiedo.

Lei scuote la testa. "Però ho freddo".

"Bene" dico, infilando la chiave nella serratura.

"Oh, non intendevo dire...".

"Dai su, so che muori dalla voglia di vedere in che razza di buco abito" le dico, mentre apro un'anta. Alzo le sopracciglia davanti alla sua indecisione. Poi sospira, esasperata, ed entra. Saliamo in ascensore, che essendo molto stretto, ci costringe a stare appiccicati. Spingo il bottone del mio piano e aspetto pazientemente che il macchinario ci porti a destinazione.

La guardo dallo specchio e noto che è molto imbarazzata dalla situazione. È completamente rossa in viso. Mi trattengo dal ridere; mi picchierebbe se lo facessi.

Quando usciamo ed entriamo a casa, prego che Priya abbia fatto quello che mi ha promesso, lasciando la casa vuota e pacifica.

"Priya?" esclamo, ma non ricevo -fortunatamente- risposta.

"Chi è Priya?". Forse l'ho sognato, ma ho sentito un velo di gelosia nella sua voce.

Sospiro. "La mia coinquilina. O un maremoto in versione umana. É davvero difficile vivere con lei ma ormai mi ci sono abituato. Oh... scusa per quelle patatine sul divano... le ha lasciate lei".

"E com'è fatta?" continua, appendendo la giacca all'appendiabiti.

"Priya? È indiana, capelli lunghi, altezza normale... Perché?" le chiedo, confuso.

"No, no, niente... E quindi ti ci trovi bene o no?" mi interroga di nuovo, mentre si guarda intorno.

Mi siedo sul divano e rimango a bocca aperta, mentre capisco cosa c'è sotto quelle domande. Al mio silenzio lei si volta a guardarmi. "Ti interessa?".

Lei diventa paonazza. "Beh, sì. Voglio dire, mi dispiacerebbe se ti trovassi male con la persona con cui condividi ogni giorno che passi qui" dice, incrociando le braccia.

"Mmh-hmm". Lei mi chiede con lo sguardo cosa ci sia che non va e io scoppio a ridere. "Mel" la chiamo, scuotendo la testa. "Tra me e Priya non c'è mai stato niente".

"Oh, mio Dio, non intendevo quello!" esclama, imbarazzata. "Non sarebbe affar mio".

"Mi sembrava che fossi gelosa" le confesso, puntando lo sguardo su di lei.

"Dio, James, non sono una bambina" mi dice, alzando gli occhi al cielo.

"Bene, allora mi sono sbagliato" dico, poggiando le spalle sullo schienale.

Lei sospira e si sposta i capelli su una spalla. "Smettila, James".

"Di fare cosa?".

"Di comportarti così!".

"Così come?".

"Come se stessi flirtando con me".

Rimango in silenzio, prima di ridere piano. "Magari è proprio quello che sto facendo".

"Non direi".

"No?".

"No. Non avrebbe senso".

"Perché?".

"Perché non ci siamo più sentiti, James!" sbotta, diventando rossa di rabbia. "Non una chiamata o un messaggio, neanche gli auguri di compleanno o di Natale e non ti sto dicendo che è colpa tua, perché nemmeno io mi sono mai fatta sentire, ma questo tuo modo di fare, ora, è totalmente privo di senso. Insomma, è chiaro che sia finita tra noi due anni fa. Non so nemmeno perché sono voluta uscire con te stasera! Che cosa volevo ottenere? Siamo talmente diversi ora che è tutto inutile".

"Tutto inutile" ripeto, lentamente.

"Sì" afferma, mentre tortura un lembo della maglia. "Ho fatto qualcosa di orribile e ne pago le conseguenze".

"Di che conseguenze parli?" le domando, confuso.

"Di te!" esclama, guardandomi. "Di... di averti perso!". La sua voce è incrinata. "Insomma, sono stata io la stupida che ha fatto il danno, giusto? È tutta colpa mia".

Mi alzo e faccio per andare da lei. "No" mi dice. "Non ti avvicinare". Non le do retta, ma mi tengo a distanza.

"Non è colpa tua. Siamo stati divisi da una cosa più grande di noi, cioè la vita. Se la cosa orribile a cui ti riferisci è il bacio che hai dato a quel tizio, non c'è motivo per cui tu debba considerarla tale. Eravamo più giovani e troppo ingenui. Abbiamo pensato che avrebbe potuto funzionare, anche con chilometri e chilometri a separarci. Smettila di tormentarti per questa faccenda, d'accordo?".

Annuisce. "Mi dispiace, comunque. Pensavo davvero che quel tizio fossi tu. Avevo bevuto un bel po'".

"Me lo ricordo" rispondo, sorridendo.

Mi guarda di nuovo in quel modo. Decido di prendermi un momento per fissarla anch'io, cosa che finora non mi sono dato il permesso di fare. I suoi lineamenti sono quelli di sempre, il suo trucco la fa sembrare più grande, ma non per questo meno bella. Abbasso lo sguardo sulla sua bocca, sul collo e infine sulle clavicole e sul suo petto, per poi guardare a terra.

"James...".

"Se non ti ho più scritto è stato perché ho sofferto troppo. Sentivo come se un pezzo del mio cuore mi fosse stato strappato con violenza. A volte, se ci pensavo, non riuscivo a respirare. Mi mancava il fiato perché mi mancava qualcosa di essenziale, senza la quale non ero pronto ad andare avanti. È stato un periodo orribile, davvero. Mi sentivo perso, non capivo più perché stessi facendo quello che facevo, cosa volessi veramente fare nella vita. Ho trovato la forza di andare avanti quando mi hanno proposto quel nuovo lavoro in quello studio che ti dicevo. Mi sono ricordato per cosa ti avevo lasciato e mi sono detto che ne avrei fatto valere la pena. Mi sono dedicato solo al lavoro e passo dopo passo... beh, eccomi".

Dovevo dirglielo. Era un qualcosa che mi tenevo dentro da troppo e che non avevo mai detto a nessuno. Perché andava detto solo a lei.

"Sei fortunato" mormora, mentre una piccola lacrima le scivola sulla guancia. "Io non sono mai riuscita ad andare avanti. Ti ho pensato ogni giorno. Mi immaginavo come sarebbe stato vivere un determinato evento della mia vita se ci fossi stato anche tu. Immaginavo cosa mi avresti detto, cosa avresti fatto. Cosa mi avresti regalato a Natale. I primi tempi risentivo le tue puntate alla radio solo per risentire la tua voce; avevo paura di dimenticarmela, ma poi ho smesso. Era troppo doloroso. Non ti ho mai superato. Ogni momento ti sentivo accanto a me. Non te ne sei mai andato".

Questa volta non posso impedirmi di prenderle il volto tra le mani. Lo avvicino dolcemente al mio, fino a poggiare la fronte sulla sua. Chiudo gli occhi e inspiro profondamente. Il profumo del suo shampoo mi riempie le radici, mentre tutto il mio corpo è in subbuglio. Sento il sangue bollire ovunque.

È lei, alla fine, a poggiare le labbra sulle mie. Le schiudo immediatamente, bisognoso di quel contatto. Ho bisogno di lei più di quanto mi aspettassi; sono i miei ormoni a confermarlo in questo momento. La stringo a me, mentre lei infila le dita tra i miei capelli. Mi era mancato anche questo. Non so fino a che punto si vuole spingere, ma ormai non sono più padrone di me stesso. Sono inebriato da lei. Mi abbasso quel che mi basta per prenderle le gambe e farla salire in braccio. Lei allaccia le gambe intorno alla mia vita come faceva una volta.

Infilo le mani sotto la sua maglia, accarezzandole la schiena. Nel mentre mi dirigo nella mia stanza, cercando di non cadere a causa dei suoi baci. Fortunatamente ho camminato più volte per casa di notte con tutte le luci spente e sono allenato. Trovo la porta, trovo la maniglia. Senza staccarci ci ritroviamo sul letto, lei sopra di me. Si leva la maglia, restando in reggiseno.

Forse impazzirò.

Era da troppo tempo che la desideravo, che la volevo di nuovo con me e dentro di me. I ricordi che avevo di noi due non le rendevano per niente giustizia. La pelle liscia, le labbra morbide, le sue piccole rotondità che lei odia ma che io ho sempre amato. Mi ricordo ogni parte del suo corpo e lei del mio. È come se la mia memoria corporea non avesse mai dimenticato nulla. Né un odore, né un sapore. Nemmeno un suono o un dettaglio. Riscopro le voglie sulla sua pelle, nascoste agli occhi di estranei ma così evidenti per me.

All'improvviso mi accorgo che nemmeno lei se n'è mai andata.

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SPAZIO AUTRICE: eccoci!
Vi dico la verità: aspettavo questo capitolo da quando ho cominciato a scrivere questa storia; è uno dei miei preferiti. 

Spero vivamente che vi sia piaciuto!
Grazie per la pazienza. 

Con affetto,
M.

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