Capitolo 31. -M

Dopo aver passato i due giorni consecutivi a quel maledetto bacio controllando il telefono ogni mezzo secondo -letteralmente- e pedinando le fermate degli autobus come se non ci fosse un domani, posso dichiararmi mentalmente inferma. Persino Agatha, che non è una di quelle che richiama dopo un appuntamento, ha trovato strano il fatto che non si fosse fatto sentire per una settimana. 

"Forse gli si è rotto il telefono" dico, cercando di consolarmi da sola, mentre scarabocchio distrattamente sul quaderno di matematica. 

"Beh, se dobbiamo giustificarlo, allora è in ospedale visto che non vi siete incontrati nemmeno alla fermata" commenta Leo acido da dietro la mia spalla. 

La sorella, mia compagna di banco storica, si gira, sbuffando. "Sta' zitto, idiota. Odio il fatto che sono io a doverti dire la verità, data la mia famosa delicatezza" dice poi tornando su di me. "Ma se non ti ha cercato, probabilmente ci ha ripensato" mi confessa. 

Annuisco, dandole ragione. "E pensare che mi piaceva". 

"Certo che ti piaceva. Piaceva anche a me". 

"Lo so, Leo" dico, voltandomi anche io. Noto con sollievo che il compagno di banco di Leo dorme come al solito. Il quel momento russa molto forte e Leo trasalisce, portandosi una mano al cuore. Poi mi guarda con una smorfia di disgusto, facendomi ridere. 

"Dobbiamo fare cambio, non ce la faccio così fino alla fine" sospira, allontanandosi con la sedia dal dormiglione. 

"Vuoi davvero finire l'anno seduto vicino ad Agatha?" gli dico, scettica. 

Lui sembra pensarci un po', spostando lo sguardo dal suo attuale compagno di banco a Agatha. "Ok, no. Almeno lui sta zitto". 

Agatha non si sposterebbe mai dal suo attuale posto. Le litigate sprecate su questo argomento superano alla grande quelle che facciamo ogni volta a ricreazione, per decidere chi si deve alzare per andare a prendere la merenda alla macchinetta. 

Torno a scarabocchiare, persa nei pensieri. Perché non si fa sentire?

Prendo il telefono da sotto il banco, ma Agatha mi blocca. "Cosa fai?" mi chiede, ammonendomi con lo sguardo. 

"Non pensavo fossi così legata alle regole, Agatha. Sto solo vedendo l'ora" dico, con un'alzata di spalle. 

"Quindi non stavi per mandare un messaggio a James" mi dice, alzando un sopracciglio. 

"Io..." comincio, ma poi chiudo la bocca. "Senti e se fosse successo davvero qualcosa?!". 

"Può anche essere morto, ma tu non devi scrivergli".

La guardo, a bocca aperta. Poi sbuffo, rimettendo il telefono sotto il banco. "E va bene. Ma se a fine settimana non mi scrive lo chiamo". 

"Affare fatto" dice, sbrigandosi a copiare l'esercizio che la prof sta facendo alla lavagna. Non so come faccia a chiacchierare e seguire la lezione allo stesso tempo. 

Decido di farlo anche io, visto che a matematica non sono una spada. 

Quando esco da scuola, per andare alla fermata, lui non c'è. Scuoto la testa, delusa e offesa. Di nuovo ho l'istinto di prendere il telefono e scrivergli, ma per sentirmi dire cosa? Che si era sbagliato, che non gli piacevo davvero e che avremmo dovuto smettere di vederci?

Sospiro, salendo sull'autobus e tornando a casa, con l'umore sotto terra. Fortunatamente riesco a studiare, per distrarmi. 

I giorni passano, tutti uguali, ma di lui nessuna traccia. Passo il tempo a disegnare manichini come se avessi una sfilata la settimana prossima. Decido perfino di cucirne uno, prendendo la macchina da dentro l'armadio.
Il giorno dopo chiamo Leo. 

"Ho bisogno di shopping terapeutico" gli dico, al telefono. 

"Passo tra un quarto d'ora" mi risponde, elettrizzato. Poi sento la voce di Agatha urlare: "Passiamo!". 

Al centro commerciale, incontriamo chi meno mi aspettassi. Mi saluta con sorriso. "Ciao... Mel, giusto?". 

Sorrido, annuendo. "Cameron?". 

"Però, che memoria" mi dice, strizzando l'occhio. 

"Ehm... scusa se te lo chiedo... sai per caso se James sta bene?". 

Lui alza gli occhi al cielo. "Sì, sta bene, quel cretino. Non sono autorizzato a dirti nulla, ma se fossi in te lo prenderei a calci". 

Rido, sollevata, in parte. "Avevo già intenzione di farlo". 

"Se ti serve una mano, chiamami". Mi saluta con un gesto della mano e ci supera, non dandomi il tempo di formulare l'altra domanda: perché non si fa sentire?

"Ditemi che siete confusi quanto me" sospiro, voltandomi verso i gemelli. 

Loro annuiscono. "Stasera sbronza terapeutica?" propone Leo. "Ho come la sensazione che lo shopping non basti". 

"Dannazione, sì" rispondo. 

"Approvo" dice Agatha, sorprendendoci. 

Così la sera, andiamo in un pub tranquillo, vicino casa. Agatha non vuole bere troppo, massimo un bicchiere, così da restare lucida a sufficienza per riportarci a casa. Sento il bisogno dell'alcol, in questo momento più che mai: tutte le altre maniere per dimenticarlo non hanno funzionato. Nessuno può biasimarmi: a mali estremi, estremi rimedi.
Sono già al terzo bicchiere quando comincio a ridere senza nessuna ragione. Leo è al quarto, e parla biascicando le parole e urla. O almeno, nella mia testa urla tantissimo.
Agatha anche ride, ma non per l'alcol, molto probabilmente perché si diverte a vederci così. Ad un certo punto Leo sale sul tavolo e annuncia un flash mob, che tutti gli altri nel locale accettano volentieri. Scolo il sesto bicchiere, forse. Mi alzo, non sentendo la terra sotto i piedi. Sento Agatha sorreggermi, ma non la trovo. 

"Forse è meglio se vai a casa" mi dice, da dietro la spalla. Ma la sua voce è strana, sembra la voce di James. 

"No, voglio ballare" replico, cercando di fare un passo, ma inciampo subito dopo nei miei piedi. Agatha mi riprende di nuovo. È strano, è così alta. 

"Mel, vai a casa, ti prego" continua, stringendomi a lei. "Non sei in condizione per restare qui". 

Poi in lontananza vedo Agatha qualche metro più lontano prendere Leo sotto braccio e farlo uscire dal locale. La mia mente non riesce a capire: se Agatha è con Leo, allora... 

Mi volto e la persona che vedo non è Agatha. "James...". 

Il suo volto è contratto in un'espressione preoccupata. "Ti accompagno in macchina, ok?". 

"Tanto lo so che lo fai perché ti faccio pena" gli dico, volendolo colpire fortemente, ma non riesco ad alzare neanche un dito. Mi sorregge, con un braccio intorno alla vita, ma mi sento le gambe troppo molli per farle muovere. 

"Va' via, ce la faccio da sola" gli dico, non credendo nemmeno io alle mie stesse parole. 

"Sì, certo" mi risponde lui, scettico. "Poi vai anche a salvare il mondo". 

"Certo. C'è un criminale che vuole attivare una bomba atomica in città. Si chiama James". 

"Divertente". Poi mi prende da sotto le ginocchia, sollevandomi e prendendomi in braccio. Non provo nemmeno a protestare, ormai sento gli occhi troppo pesanti e la bocca allappata per poterlo fare. Mi addormento, sentendomi al sicuro, tra le sue braccia. 

Mi risveglio a casa con un'enorme mal di testa e mi lamento, aprendo gli occhi che vengono colpiti troppo forte dalla luce del sole. Poi i ricordi della sera prima riemergono, facendomi sussultare. 

Lui era lì.
Lui mi ha aiutato a non cadere.
Lui mi ha preso in braccio.
Mi ha anche riportato a casa?

Prendo il telefono e chiamo Agatha, con il cuore che batte all'impazzata. "Chi mi ha riaccompagnata a casa?" le chiedo, senza neanche farla parlare. 

"Io" dice, con un sospiro. "Ma è stato James a portarti in braccio fino alla macchina". 

"Oh, porca miseria" dico, coprendomi la faccia con la mano libera. 

"Mi ha detto anche: «Fa' in modo che si rimetta». Che presuntuoso, certo che lo farò. Io ti conosco da quindici anni, lui da qualche mese".  

"Oh, porca miseria" ripeto, con un lamento. 

"Beh, almeno si è fatto vedere" mi dice. "Non mangiare i pancake, idiota! Hai lo stomaco che ti sta mandando a quel paese, bevi del tè e basta". 

Rido, immaginandomi la faccia di Leo a quella frase. "Me lo passi?" le chiedo. Non devo aspettare molto prima di sentire il lamento di Leo, che traduco come un "pronto?". 

"Scusa se ho fatto sbronzare anche te" gli dico, sentendomi in colpa. 

"Per me va sempre bene la sbronza terapeutica, tranquilla. Come stai?". 

"Uno schifo". 

"Benvenuta nel club". 

Ci salutiamo e rimango a fissare il soffitto, pensando -ovviamente- a lui. Ripenso a quel bacio che, per la cronaca, non era un bacio ma un sfioramento di labbra. Capisco che dopo un evento del genere si è imbarazzati, ma mai me lo sarei aspettato da uno come lui e non per così tanto tempo. Cosa c'è da stare in silenzio per una settimana? Se ti faccio tanto schifo, non mi inviti ad uscire con te... no? E soprattutto, non ti assicuri che io stia bene se sono sbronza... no?

Dopo essere uscita da scuola -dove non ho seguito nulla, mi sono limitata a essere uno zombie- e aver salutato i gemelli, mi sono diretta alla fermata dell'autobus, con nessuna voglia di vederlo. Con quale faccia giustificherei il comportamento di ieri? Ma appena arrivata lì, noto con disappunto che c'è solo lui. Non mi avvicino più di tanto, mi copro il viso con i capelli, sperando che non mi noti. Che poi, perché faccio così? Dovrei andare lì e riempirlo di botte e dirgli che è un perfetto idiota. Ma mi frena qualcosa dentro di me, qualcosa che non capisco immediatamente, sembra timidezza, paura. Soprattutto, confusione. 

"Mel?". 

È la sua voce che chiama il mio nome. Non mi volto, aspetto che lui si avvicini. Me lo ritrovo davanti a me, con una strana espressione tra il preoccupato e l'impaurito. "Tutto ok?".
Questa domanda mi fa venire una rabbia improvvisa, che cancella la mia timidezza di qualche minuto fa. 

"Secondo te?!" gli rispondo, acida. 

Lui mi guarda, con la bocca aperta, senza sapere come dargli fiato. "Io...".

"Tu sei sparito". 

Lui scuote la testa, portandosi una mano nei capelli, distraendomi per qualche secondo. Non piangere e non distrarti, Mel. Sii fiera, mi dice la mia voce interiore. "Sì, dimmi tutto quello che ti pare" dice alla fine, facendo cadere pesantemente le braccia lungo il busto. "Hai ragione. Sono uno stronzo, un pezzo di merda, ti ho baciata e poi mi sono comportato da schifo. Hai ragione, davvero". 

Rimango a bocca aperta. "Beh, grazie" gli dico, annuendo con la testa e incrociando le braccia. "Ma perché lo hai fatto?".

Sospira, guardando altrove e sforzandosi di non posare lo sguardo su di me. "In realtà è un po' colpa tua, anche". 

"COSA?!" dico, alzando la voce. 

"Fammi finire! Dopo che ti ho baciata, mi hai guardato come se fossi un pazzo! Quindi ho pensato che tu... che tu..."; lo guardo per farlo continuare. "Che non ti piacessi" sospira, infine. 

Rimango, per la seconda volta a bocca aperta. "Ok, ma non mi hai chiesto spiegazioni per una settimana, James". 

"Beh, neanche tu ti sei fatta sentire" replica, aggrottando le sopracciglia. 

"Certo che no! Pensavo ti fossi arrabbiato! Pensavo di aver fatto qualcosa di male e ho pensato che ci avessi ripensato! E poi tu mi hai invitato ad uscire, tu mi hai baciata, sei sempre stato tu ad avvicinarti!" gli dico, senza mai prendere mai fiato.

"È per questo che non sapevo come comportarmi! Non ho mai saputo come comportarmi con te! Non si capisce mai quello che ti passa per la testa" mi confessa, frustrato come non lo avevo mai visto. 

"James" dico, ridendo. "Tutto questo è ridicolo, davvero". Mi sistemo i capelli dietro le orecchie, scuotendo la testa. 

"Non ci trovo niente da ridere". 

"Sì invece" insisto, guardandolo negli occhi. "James, io sono cotta di te. Dal primo istante in cui ti ho visto!". 

Lui mi guarda attentamente, come per verificare che stia dicendo la verità. "Davvero?". 

"Certo! Ma come diavolo ti è venuto in mente il contrario? Se dopo che mi hai baciata ti sono sembrata strana, è perché non ci potevo credere! È stato troppo bello per essere vero!" esclamo, continuando a ridere e sentendomi le guance in fiamme. Dire certe cose non è il massimo dell'agiatezza.

"Cristo, ho passato una settimana terribile. Pensavo di aver fatto una cosa irrimediabile". 

Rido più forte, coprendomi il viso con una mano. "Tu hai passato una settimana terribile? Ieri sera ti basta come spiegazione della mia settimana". 

Mi guarda divertito. "Devo dire che è stato divertente. Fortunatamente non mi hai vomitato addosso". 

Annuisco. "Peccato, sarebbe stata una bella punizione". Poi scuoto la testa, guardandomi i piedi. "Siamo due idioti". 

"Sarà stato questo a farci avvicinare" dice, ridendo e io lo seguo, alzando lo sguardo su di lui.  Poi il suo sorriso si chiude in uno più dolce, mentre mi guarda negli occhi. Si avvicina pericolosamente, prendendomi il mento tra il pollice e l'indice, smorzando la mia risata. 

"Lasciami rimediare, allora" mi dice con un sussurro, con le labbra vicinissime alle mie. Rispondo annullando quella piccola distanza e assaggiando di nuovo le sue labbra. Improvvisamente tutti i rumori della città svaniscono, ci siamo solo noi due. Le mie dita fanno presto ad attorcigliarsi ai suoi capelli e le sue braccia a cingermi la vita. Sembra essere questo il nostro primo vero bacio. Perché, diamine, in confronto, quello di una settimana fa non è niente. Se i suoi occhi mi sembravano il massimo, le sue labbra hanno velocemente preso il primo posto. Si allontana quanto basta per fissarmi negli occhi e io meccanicamente riavvicino le nostre labbra, facendole sfiorare.  Vedo le sue piegarsi in un sorriso.

"Adesso sì che ho capito che ti piaccio".  Rido, troppo emozionata per rispondere. Il mio cuore e il mio stomaco sono in subbuglio, e ogni fibra del mio corpo trema, come se avessi preso una scossa elettrica. 

Il mio autobus arriva, spezzando la magnifica atmosfera che si era creata. Mi sorride, indicandolo con un veloce gesto della testa. "Vedi di non perderlo". Gli sorrido, salutandolo con un abbraccio e un veloce bacio sulle labbra, per poi superarlo.

"Beh, allora sappi che sei ufficialmente la mia ragazza!" dice, mentre salgo sull'autobus. Faccio appena in tempo a voltarmi per vederlo ridere. Io lo seguo, fino a che riesco a vederlo dal finestrino. 

Mi siedo e chiudo gli occhi, ancora con il suo sapore sulle labbra. 

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