Capitolo 2. -J

Questa mattina è decisamente uno schifo.

Non è un gran che come inizio, considerato che non è ancora ora di pranzo. Ma riconoscere una giornata quando fa schifo, in realtà, è molto semplice.
Esistono dei piccoli segnali che arrivano, da subito. Appena ci si sveglia, a partire dal modo in cui accade. Se ci si sveglia lentamente e gradualmente, abituandosi poco a poco alla luce del sole che filtra dalla tapparella della finestra, prendendosi qualche secondo per farsi coraggio e scendere dal letto, allora è un bel risveglio. Se ci si lava, scegliendo con cura i prodotti da usare e prendendosi del tempo per sé stessi, allora va bene. Se si esce di casa, tranquilli e spensierati, determinati ad affrontare la giornata con un sorriso, allora si può quasi essere certi che sarà un bel giorno. 

Bene. Tutto quello che ho appena elencato è esattamente quello che non succede mai nelle mie giornate, nemmeno nelle migliori.

Questa mattina mi sono svegliato di soprassalto al suono della sveglia -per la precisione della quarta sveglia, poiché non avevo sentito le prime tre- ed ho imprecato, realizzando di dovermi sbrigare. Ho trangugiato il mio caffè bollente, bruciandomi la lingua e la gola. Mi sono tuffato sotto la doccia e sono uscito nemmeno due minuti dopo. Sono uscito di casa sbuffando e maledicendo la vita. Ed anche questo è quello che succede, più o meno, tutti i giorni. Quindi, questa mattina è decisamente uno schifo. 

Oggi però mi rendo conto che la giornata sembra leggermente più brutta del normale, mentre scendo le scale dell'edificio nel quale studio fotografia.

Sono felice di poter dire che mi pago gli studi da solo al contrario, devo ammettere, della maggior parte degli altri studenti. Ho lavorato sodo per poter studiare qui, a costo di dover rinunciare alle uscite con gli amici. L'importanza di frequentare questa accademia è diventata tale che mia madre, inizialmente, quasi non mi riconosceva più. Ma alla fine ci sono riuscito, soddisfacendo le aspettative mie e della mia famiglia.
La fotografia mi è sempre piaciuta. Soprattutto quando i soggetti sono i paesaggi. Penso che il paesaggio cambi ogni giorno e immortalarlo in una foto lo rende unico e irriproducibile. Tutto, secondo me, immortalato in una foto lo è. La foto è un attimo eterno. Il soggetto della foto diventa immortale. Si potrebbe pensare la stessa cosa dei dipinti, ma -tralasciando la loro bellezza- questi non sono la vera rappresentazione della realtà. La foto, invece, sì. È un discorso profondo, per uno come me, ma è una cosa in cui ho sempre creduto, perciò voglio renderla il mio lavoro, un giorno.

Certo, non è facile. Quest'accademia non smette di stressarmi; tra poco avrò un colloquio di lavoro con un fotografo, amico della mia professoressa. Quest'estate, dovendo fare un progetto che lei mi aveva assegnato, si è complimentata con me e mi ha detto che le piace molto il mio lavoro. Grazie a ciò, ha deciso di propormi questo tizio, un certo paesaggista urbano. Sono alquanto nervoso perché potrei non piacergli, potrebbe non assumermi e so che non lo accetterei. 

Arrivato in facoltà, comincio a dirigermi verso le scale che portano al piano in cui ci sono tutti gli studi dei professori. Percorro tutto il corridoio prima di arrivare alla mia destinazione e mi affaccio allo studio, notando con gioia che non devo fare nessuna fila, poiché oltre alla professoressa non c'è nessuno. Lei alza lo sguardo e mi sorride. "Buongiorno". 

"Salve" rispondo, sistemandomi la tracolla sulla spalla. "Sono qui per parlare del progetto. Le ho mandato una mail tre giorni fa". 

"Ah, sì" fa lei, ricordandosi. "Prego, si accomodi". Faccio come dice e sento il cuore battere talmente veloce che temo possa sentirlo anche lei. "Vuole una conferma, prima di presentarsi al colloquio, giusto?". 

"Esatto" rispondo, tirando fuori il computer dalla mia borsa e aprendolo per mostrarle le foto del progetto. Lei scorre le foto, si sofferma su alcune. Temo che possa dirmi di rifarlo da capo, nonostante me l'abbia già promosso mesi fa.

"Il progetto è uno studio sui vari fasci di luce naturale, ricordo bene?" mi chiede e io sorrido e annuisco, felice che ricordi perfettamente il mio lavoro.

Finito di osservare tutte le foto, annuisce. "È un progetto interessante, se sviluppato bene penso che possa uscirne qualcosa di buono."

"Ne sono sollevato" rispondo, sincero. 

"In bocca al lupo e mi faccia sapere come è andato" si raccomanda, con un sorriso cordiale. Io le rispondo che lo farò certamente, la ringrazio ed esco dal suo ufficio.

Non è un colloquio da niente, quello che mi ha rimediato. Spero vivamente di non deludere nè lei, nè me.  

Esco dall'edificio e chiudo senza troppi complimenti la porta, colpendo un altro ragazzo. Mi urla qualcosa ma io, già con le cuffie nelle orecchie, decido di non ascoltarlo. Mi incammino verso la fermata dell'autobus controvoglia. Andare a casa vuol dire ripensare alla pessima condizione familiare in cui mi trovo e da cui non riesco a schiodarmi. Almeno una cosa positiva c'è: la mia sorellina, Sarah. Le voglio un bene dell'anima e a volte penso sia l'unica cosa bella della mia vita.

Mi siedo sulla panchina, aspettando l'autobus. Qualche metro più in giù noto una bambina... no, una ragazza... no, una bambina... ma cosa...?
Le mie sopracciglia si avvicinano mentre sorrido nel vedere un essere umano così strambo. Le cuffie che ha sulla testa sembrano troppo grandi per lei e i suoi lunghi capelli neri la nascondono alla perfezione. Scuoto la testa, pensando che forse c'è chi sta peggio di me.

L'autobus arriva e salgo, godendomi la musica durante il tragitto.
Questa città non mi è mai andata a genio, piove praticamente sempre e quando non piove c'è umidità, quella che ti entra nelle vene e ti fa rabbrividire ogni secondo. Per non parlare dell'estate: piove anche in quel periodo, solo che fa caldo.
Preghi che piova per non morire provandoci.

Appena preso il diploma in fotografia sicuramente me ne andrò, non ho nessuna voglia di rimanere qui a guardare i miei piani andare in fumo. Non ho niente che mi trattenga qui.
Parigi, invece, ha un suo fascino. È sempre stata la città che voglio fotografare e voglio iniziare lì la mia carriera. 

Il mezzo si ferma e notando che la fermata è la mia, scendo velocemente. Cerco le chiavi di casa nel mio borsello, dove la mia cara macchinetta fotografica dorme, ignara del difficile test che dovrà farmi passare, ed entro non trovando nessuno. Mia madre è a lavoro -tanto per cambiare- e mia sorella a scuola.
Bei tempi, i pomeriggi alle elementari.

Butto le chiavi sul mobile all'ingresso e vado in cucina riempiendomi un bicchiere di succo d'arancia rossa. Poi vado in camera, dove i miei appunti per la radio sono rimasti immobili dove li avevo lasciati, segno che finalmente mia madre ha capito che non deve entrare in camera mia.
Mi siedo e prendo in mano i miei appunti riguardando la playlist che ho scelto per questa sera; mi appunto qualcosa da dire ogni volta che una canzone finisce.

La radio in cui lavoro mi serve essenzialmente per guadagnare soldi, pagare l'accademia e per mettermene un po' da parte per quando dovrò partire.

Il nome della radio è Whistle Radio, andate su Google e stasera sintonizzatevi perché, ragazzi, il vostro speaker Hermes è qui per voi! 
Ok, forse questo eviterò di dirlo.

La suoneria del telefono mi distrae dalla mia playlist e prima di rispondere alzo gli occhi al cielo.
"Papà?".

"Ecco il mio campione!".

Mi trattengo a riagganciare non appena quelle parole raggiungono il mio orecchio. È forse la cosa più viscida che io abbia mai sentito. "Ciao" rispondo, senza entusiasmo nella voce.

"Allora, James!" continua, usando il suo solito tono allegro che mi infastidisce sempre. "Ti ricordi che giorno della settimana è oggi, vero?".

Do un'occhiata veloce al calendario appeso sopra la scrivania. "Venerdì?".

"Esattamente! E cosa fai il venerdì?".

Mi prendo un momento per fare una battuta, visto che il tono che sta usando è quasi uguale a quello che usa con Sarah. "Preparo pancake per morire di diabete?".

Lui scoppia a ridere fragorosamente e io sono costretto ad allontanare il telefono. "Ma no! Vieni a cena a casa mia! A Tess manchi molto e anche a me".

"Lo so che a Tess manco molto..." borbotto. Tess è la compagna di mio padre e non è poi molto più grande di me. La adoro, vado a cena lì ogni venerdì solo per fare piacere a lei, non a mio padre, ovviamente. Infatti ignoro l'ultima parte della frase.

"Quindi? Ci sarai, no?".

Ormai non posso tirarmi indietro."Sì, sì...".

"Bene. A stasera, allora".

"Ok, ciao, pa'".

Chiudo la telefonata e metto il silenzioso, così che nessuno possa disturbarmi mentre continuo a lavorare. 

Tra le canzoni che sto scegliendo per stasera metto anche "Gives you hell" dei All- American Rejects, mentre penso ridacchiando a mio padre. 

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