7. Igor - Alex


Igor

Ho scelto davvero il luogo ideale, la baita è nascosta da una fitta vegetazione lasciata incolta, il che fa presumere uno scarso passaggio. Sono qui da oltre due settimane e non ho visto anima viva aggirarsi nella zona, ottimo direi. Potrei anche seppellire il corpo qui quasi quasi; ma questo si vedrà alla fine dei giochi perché non sempre le cose vanno come le hai programmate.

Di certo me la pagherà per quello che ha fatto, oh sì! Come se pagherà. Non doveva lasciare la casa, glielo avevo detto un milione di volte di non farlo, che sarebbe andata a finire male se così fosse stato, e l'avrei cercata fino in capo al mondo per ridurla in polvere.

Ma lei niente.

Non mi ha dato retta ed è scappata.

Ha aspettato il momento giusto quella smorfiosa, si è presa gioco di me.

Aveva fatto una promessa, aveva comprato la mia fiducia per poi mettere in atto il suo piano.

Ma cosa pensava di fare?

Pensava di essere più furba di me?

È solo una povera stupida sgualdrina proprio come sua madre.

Ed ora staremo a vedere se farà la sua stessa fine, perché è questo che si merita. Se fosse stata alle regole non le sarebbe successo niente.

L'ha voluto lei!

Quel giorno lo ricordo come fosse ieri.

Un nevischio gelido imperversava per le strade, obbligandomi ad aspettare Lisa fuori da scuola con il riscaldamento dell'auto acceso.

Tanto per cambiare mi aveva fatto infuriare, per un motivo o per un altro metteva sempre a dura prova la mia pazienza, o forse lo faceva di proposito. Sapeva che sgridarla mi eccitava e picchiarla ancora di più. Non potevano esserci altre spiegazioni se non il fatto che ci godeva pure lei, altrimenti perché ripetere sempre gli stessi errori?

Non volevo che facesse amicizia con nessuno, lei era mia e nessuno doveva averla, toccarla, sfiorarla o anche solo avere l'onore della sua compagnia.

La calca di studenti fuoriuscita dopo il suono della campanella si era quasi dissolta del tutto, gli autobus davanti alle gradinate erano anche fin troppo carichi e si stavano mettendo in moto. L'edificio grigio era fiancheggiato da un negozio di telefonia e da un altro di animali, entrambi vuoti; nessuno osava uscire con un tempaccio simile, almeno che non fosse stato necessario.

Io ero parcheggiato sul lato opposto della strada, con il motore in folle e la mia solita espressione implacabile, in attesa che lei si decidesse ad uscire. Come se non sapesse quanto odiassi le lunghe attese.

Quando finalmente comparve sull'uscio, la vidi in compagnia di un ragazzo biondo, probabilmente un suo compagno di classe, con il quale discuteva amabilmente. Le teneva gentilmente la porta aperta con la mano sinistra, mentre con quella destra, le sfiorava la base della schiena. Riuscivo a sentire le loro risate nonostante nell'aria risuonava il rimbombo dei bus partiti da poco.

Un'improvvisa raffica di vento li costrinsero ad avanzare a testa bassa.

Non capii più nulla: dovevo tenerla chiusa in casa come avevo fatto con sua madre; invece mi ero fatto abbindolare da quel bel faccino. Mi aveva assicurato che non avrebbe parlato con nessuno e io le avevo creduto.

Più li fissavo chiacchierare e scambiarsi sorrisi più la rabbia cresceva esponenziale.

Lisa era bella, dannatamente bella con quei lunghi capelli bruni e gli occhi azzurro cielo. Stava sbocciando e assomigliava a sua madre ogni giorno di più. Minuta e longilinea da sembrare indifesa, ero il suo protettore. Così almeno credevo.

Sapevo di non dovermi fidare di un'adolescente, sanno solo raccontarti frottole, ma del resto doveva diplomarsi e quello era l'ultimo anno per fortuna. Se fosse stato per me, mai l'avrei mandata a scuola, ma tutti in città, soprattutto alla centrale, sapevano di lei e non potevo rischiare tanto. Non avrebbero capito il mio punto di vista, mi avrebbero preso solo per uno psicopatico, un pedofilo e mi avrebbero rinchiuso buttando via la chiave.

Tutti, in fin dei conti, hanno le loro piccole manie: ad alcuni piace vestirsi da donna, altri si fanno calpestare ed insultare da ragazze con tacchi a spillo e completamente vestite di pelle. Conosco un tizio per il quale la parte più sexy di una donna sono i piedi, e si eccita nel reparto calzature dell'ipermercato guardando le donne che si provano le scarpe.

Il mio punto debole, invece, è la paura. Che sia donna, ragazza o bambina, l'unica cosa che mi eccita è vedere il loro corpo tremare dalla paura. Senza di essa, niente eccitazione.

Quando lei udì i colpi del mio clacson si voltò e, vedendomi spazientito, tornò di colpo seria. Fece un breve saluto e corse velocemente giù per i gradini in direzione dell'auto.

Non dissi una parola fino al rientro in casa.

"Chi diavolo è?", indagai sbattendo la porta alle mie spalle.

"Solo un mio compagno di classe, papà", sussurrò togliendosi il cappotto e mettendosi subito sulla difensiva. Aveva lo stesso tono sottomesso di sua madre.

"Avete parlato di me?"

"No" rispose spalancando gli occhi, implorandomi di crederle.

Sapeva che non mi sarebbe piaciuto e se l'avessi scoperto avrebbe passato dei guai seri. "Allora che cosa voleva da te? Che avevate tanto da ridere!?", le chiesi alla fine disgustato continuando a guadarla dall'alto.

"Niente. Parlavamo solo di scuola, te lo giuro", mi supplicò lei.

"Sì, come no. Quante volte ti ho detto che alla vostra età i ragazzi vogliono solo entrarvi nelle mutande? E questa è solo roba mia", le urlai infilando la mano in mezzo alle sue cosce mentre, con quella libera, le diedi uno schiaffo violento al punto tale da sentirmi bruciare la pelle.

Impiegò quasi un minuto per trovare le forze sufficienti a rialzarsi dopo quel colpo.

"Mi hai fatto perdere un sacco di tempo!", continuai. Le strinsi le braccia con forza, avevo la bocca contorta, gli occhi iniettati di sangue. "La mia unica giornata libera, e tu la sprechi in chiacchiere inutili! Con un ragazzo poi!"

Lei si dimenò, cercando di divincolarsi e alla fine lasciai la presa.

"Non ti è venuto in mente che forse oggi avrei preferito rilassarmi? Starmene qui al caldo, piuttosto che in auto con questo tempo da lupi?", sbraitai nuovamente, serrando ad intermittenza la mascella.

"Scusami", rispose lei tenendosi la guancia.

"Scusami", la imitai io. La guardai, poi scrollai il capo. "Com'è che tu riesci a pensare solo a te stessa?"

Allungai le braccia per afferrarla, lei si voltò per fuggire, ma anticipai la sua mossa e le impedii di andare da qualsiasi parte. La colpii veloce e crudele, il pugno contro la base della schiena conteneva tutta la mia rabbia ormai incontrollata.

"Sei sempre così maledettamente egoista!", l'accusai torreggiandole sopra.

"Perdonami, non lo farò più", sibilò tra le lacrime. "Lasciami andare, ti prego."

Vedere la paura nei suoi occhi, sentire la sua voce tremante mi mandava in estasi, accendeva il fuoco dentro di me e quando mi supplicava... beh, lì esplodevo come una miccia.

"Dio, quanto sei bella. Sei sempre stata bella, più di tua madre", bisbigliai fissandola con aria lasciva. Le sbottonai la camicetta e gliela aprii prima di passare alla lampo dei jeans, abbassandoli sui fianchi e poi fino alle caviglie.

Sapevo che lo voleva anche lei, cosi, misi le mani sul reggiseno e glielo slacciai. Alla vista del suo piccolo petto nudo mi leccai le labbra e, con visibilio sempre più crescente, le strizzai il suo piccolo seno. Lei si morse il labbro per non gridare ma un gemito di dolore le uscii ugualmente di bocca. Con una mano la tenevo ben salda al pavimento mentre con l'altra mi calavo i pantaloni, giusto quel tanto che bastava per togliermi lo sfizio. "Manca poco", annunciai ansimando.

Poi le sfilai le mutandine per fare ciò che andava fatto e farla finalmente tacere.

Solitamente se ne stava lì, in posizione fetale, senza fiatare mentre io mi riallacciavo i calzoni, ma non quella volta. Nel giro di pochi minuti si alzò, si rivestii e poi, senza dire una parola, con il volto terreo e rigato dalle lacrime, andò in cucina a preparare il pranzo.

Presi le chiavi e tornai in macchina diretto al poligono, dove mi recavo ogni mercoledì, ignaro delle intenzioni di Lisa, ignaro dei soldi che lei mi aveva sottratto. Ignaro del fatto che in meno di un'ora se ne sarebbe andata via, lontano da me.

Quella maledetta volta si era presa gioco di me.

***

Alex

"Uffa. Ci rinuncio", commenta Lisa arresa dopo il decimo lancio senza rimbalzo.

"Neanche per idea." Torno dietro di lei e con il petto le sfioro la schiena. Le metto le mani sulle spalle per tenerla ferma e la sento rabbrividire un secondo. Non per il freddo, né per il desiderio, almeno credo; nonostante ora la sua voce è più decisa, non è ancora completamente a suo agio ma, almeno, riesce a sostenere il mio sguardo un po' più a lungo prima di abbassare gli occhi.

"Guarda l'acqua", le dico senza scompormi. "Concentrati sull'orizzonte. Non pensare al punto in cui vuoi colpire la superficie." Con una mano scendo lentamente fino al suo polso e le sollevo il braccio. Smette di respirare per un secondo prima di tornare ad inspirare ed espirare con calma. "Poi", proseguo, "lancia il sasso dove l'acqua incontra le montagne."

Con il braccio piegato davanti a lei e, muovendomi al rallentatore, le faccio vedere come fare. "Devi essere decisa e sicura. Ricordati, tu e il sasso dovrete essere una cosa sola, deve essere una tua estensione."

"Una mia estensione", ripete concentrata.

Resto a pochi centimetri da lei, mentre esegue i miei consigli.

Tre rimbalzi. "Brava", sussurro. "Riprova. Prenditi qualche istante e senti la sua consistenza, il suo peso, la sua forma."

Quattro rimbalzi. Alzo la sua mano di qualche centimetro e metto la mia bocca vicino al suo orecchio: "respira."

Sei rimbalzi. Per la miseria!

"Hai visto?", riesce a malapena a parlare da quanto è sbalordita. Ha lo sguardo fisso sul punto in cui il sasso ha toccato la superficie per l'ultima volta, per poi affondare. "È stato fantastico!"

"Niente male", commento chinandomi a raccogliere un ciottolo anch'io. "Adesso tocca a me."

Sette rimbalzi.

"Mmh", la sua espressione si fa accigliata. "Posso fare di meglio."

"Provaci", le bisbiglio all'orecchio in tono di sfida. Sono sorpreso e allo stesso tempo divertito dal rossore che istantaneamente affiora sulle guance di lei. Sono sicuro di non aver mai visto nessuno arrossire in modo così veloce. Il calore del suo corpo mi provoca un brivido lungo la schiena e, mi chiedo, che cosa mai può esserci in lei che non vada da doverla lasciar stare.

Obbedendo ad un impulso improvviso, Lisa si allontana di qualche passo e comincia a guardarsi attorno alla ricerca di sassi piatti, sotto il mio sguardo divertito. Appena ne trova uno che fa al caso suo, lo prende e lo lancia nell'acqua.

"Otto rimbalzi", annuncia in tono sodisfatto pochi secondi dopo.

"Brava", mi complimento con lei. "Il prossimo è l'ultimo. Il vincitore prende tutto."

"E cosa dovrebbe prendere? Non abbiamo scommesso nulla."

"Il diritto di lodarsi."

"Affare fatto!", e lancia il suo ultimo ciottolo, che rimbalza dieci volte prima di sprofondare nell'acqua. "Prova a battermi se ci riesci", esclama trionfante.

Guardando i sui capelli mossi dal vento, mi rendo conto che mi sto godendo questa serata più di quanto pensassi. Ricordo a me stesso che siamo due estranei, sebbene in realtà non abbia questa impressione. Tiro senza troppo impegno, e il mio sasso affonda nell'acqua dopo nove rimbalzi. "Hai vinto tu!", ammetto con finta amarezza.

"Evviva!", commenta felice. Le sue labbra si curvano in un tenero sorriso mentre con le mani compie piccoli applausi. "Non avevo mai vinto prima d'ora, è una bella sensazione", mi confessa.

Poi, soggiunge: "grazie. Lo so che hai sbagliato di proposito solo per farmi vincere." L'imbarazzo inonda il suo viso delicato mentre tiene gli occhi bassi. "È stato un gesto carino da parte tua", e conclude con fievole voce.

"Non so a cosa tu ti riferisca", rispondo negando l'evidenza.

Una civetta lancia il suo richiamo da un ramo basso ai margini del bosco ed entrambi ci voltiamo da quella parte. Attendo qualche istante prima di rendermi conto che non aggiungerà altro, così proseguo: "vuoi andare da un'altra parte?"

Lisa si lecca nervosamente le labbra; il suo sguardo sguizza intorno alla spiaggia semideserta. "Dove?", chiede con voce tremula.

Sono confuso dalla sua improvvisa agitazione ed angoscia. La mia mente passa dalla bellissima idea di una passeggiata in riva al lago, a quella di volerla proteggere e rassicurare. "Niente di che. Volevo fare solo due passi, parlare un po', conoscerci meglio."

Gira di scatto la testa, l'aria di colpo sfuggente, come se avesse alzato nuovamente tutte le difese; poi, d'un tratto, spalanca gli occhi e un'espressione di orrore puro le si dipinge sul viso.

"Ho detto qualcosa di sbagliato?" le domando, ma lei scuote il capo senza rispondere. La fisso chiedendomi che cosa le stia capitando, e mi tornano subito in mente i sospetti sul suo passato.

"Cosa c'è che non va, Lisa?"

"Niente", insiste lei, ma capisco che non è la verità.

In un altro luogo e in altro periodo della mia vita le avrei fatto delle domande, invece mi convinco di lasciar perdere. Intuisco che ha bisogno di spazio, anche se non so bene perché.

"Senti", mormoro fingendomi sorpreso dell'ora fatta guardando l'orologio. "Ti ringrazio tanto della compagnia, ma ora devo tornare dai miei amici, o si chiederanno che fine abbia fatto."

"Certo", risponde lei con finta disinvoltura.

Sfilo una penna dalla tasca dei jeans, prendo con cautela la sua mano e le scrivo il mio numero sul suo palmo. "Ecco, adesso hai il mio numero. Se ti capita di venire dalle parti di Zurigo..."


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