Larario
Va' avanti nella tua rabbia, tu nido
Con gli occhi iniettati di sangue,
Frenetici nel nostro angusto agitarci,
Logorarci la vita, il ventre sotto pelle,
Con le nostre urla a sfregiarci
Le carni, i bei ricordi sbiaditi
In nome di un amore contorto
Sul cui suono vacilli adesso anche tu,
Ma non voltarti mai indietro, no,
Quando questo nostro nutrirci
A vicenda di rancore e inerzia
Quasi ti farà tenerezza
Nell'inganno di melliflue, negligenti parole
E sfregiato per sempre anche quel legale
Da tempo già sfilacciato, arrugginito,
Ignorato da te, bistrattato da me;
E mi afferri, non sono davvero io,
E vorresti estirpare in me
In male che in realtà è in te.
Casa di molti morti affetti, sfasciata da idoli
Infesti nelle abitudini, ostili e incompleti,
Alla deriva tra rottami sospesi,
Incorniciati in mura sbilenche
E storpi sentimenti, di che figli
Io non so, e forse tu e voi sì, sapete
Non è mai stato sicuro qui. Tu che
Hai letto negli occhi il filiale terrore,
E senza che più discorreremo
Non posso neanche guardarti
Priva di brividi in vani abbracci
Che si infrangono nell'inconsistenza
Delle mie labili scuse singulte,
Tra le increspature dell'iride hai scorto
La nostra dimora di delirio.
Effigi di Penati, pietrificate Gorgoni,
Ieratici, affranti volti di vetro deturpati,
Il larario oltraggiato; non mi troverai
In ginocchio piangendo una parola
Dolce che non sentirò più, non pregherò
Nella fredda nicchia anelando un calore
Le cui ustioni e cicatrici ho confuso
Per amorevole affezione e io,
Esecranda Vestale, al di qua del lapidario
Focolare il sacro fuoco s'estingue languido
E fuor di qui da tozzi ardenti sotto ai piedi
Scavalca il rogo, vilipende
Il dimorante furore, gli eccessi
Senza confini. Al rogo
Il nido, o almeno il suo ricordo.
Il vostro cheto angelo del focolare non è
In realtà altro che cenere di ribellione.
Ho distrutto tutto e sorridevo,
Felice nella malora e instabili affabilità,
Non mi puoi sopportare accanto a te,
L'allontanarmi da te ti è insopportabile
Allora
Toglierò il disturbo
E come io scappo, mi calpesti ancora
Tu, che non dovresti essere or
Che cenere, pur sei felice nella mia assenza,
Che nei tuoi ruvidi lineamenti m'avresti
Strangolata, rovinata,
Sgominata fino a briciole d'embrione
Per becera premura tua,
Tu sei lieto senza il peso
Del mio esistere
Mentre io non ho neanche
La forza di andare avanti.
E scappando di città in città
Nella notte, salutando tetti tutti sconosciuti
Sognando che almeno uno di essi fosse mio,
Aspettavo il miraggio del vento,
Il mesto struggersi all'imbrunire
Di domande che mai riceveranno
Una risposta, di suppliche affidate
A storte sorti da discosti supplici
E nel scivolarmi sul viso
Sentire sferzare utopico il mio nome
"sono io" e ancora "tornerai a casa?"
Ma sono solo l'illusione di parole
Senza concretezza di labbra
Che si muovono, di visi disperati
Che annaspano cercando la mia voce
E nello sconcerto mi volto
E non c'è mai nessuno
Di chi ho sempre temuto,
E con odio desiderato.
Ma ci rincontreremo in un'altra vita,
Nell'aria sarà il nostro ultimo
Intreccio, dopo avermi scavato l'anima
Con indignata indifferenza ci lasceremo
Con le viscere dell'anima lacerate
Ma nascoste dietro ematiche tende.
Allora ci volteremo le spalle
E, finalmente, andremo
Ognuno per la propria strada
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