Capitolo I


Capitolo I

ՑՑՑ


                                                  Quando Johanna ha conosciuto James, non avrebbe mai pensato che poi le cose sarebbero andate come sono andate. Quando Johanna ha conosciuto James, non avrebbe mai pensato di veder scivolare via troppe cose e trovarne delle altre, in quel cammino imprevedibile che è la vita. Perché certi incontri, pare assurdo a credersi, cambiano così tante cose che a volte nemmeno c'è modo di accorgersene.

Il sole splende quasi radioso, affacciandosi timido tra alcune nuvole bianche. Perché a Londra è cosa raro che non piova, figurarsi trovarsi di fronte ad un soffitto celeste privo di soffice ovatta bianca.

Johanna è nata lì, più precisamente a Abbey Wood, nel borgo di Greenwich, a sud-est della capitale inglese. Non è un posto particolarmente degno di nota; architetture vittoriane e edifici più moderni la rendono poco attraente, agli occhi dei turisti, sebbene molti di loro sono avvezzi ad affittare appartamenti da quelle parti, siccome molto vicino alla Docklands Light Railway, la nuova linea della metropolitana, che dista poche fermate dalla linea rossa, facendo capolinea a Bank. Una volta si è addormentata sul treno e si è risvegliata nel tunnel dell'ultima fermata. Le è sembrato di vivere in un incubo, e quando il treno poi è tornato indietro per ricominciare la sua corsa, è schizzata via imbarazzata, mentre alcuni vigilanti le hanno chiesto se stesse bene e se non si fosse presa uno spavento.

Certo che se l'è preso! Il primo pensiero era stato quello che, decisamente, l'idea di restare rinchiusa nel tunnel – magari tutta la notte, non era uno dei suoi obiettivi di vita. Da quel giorno non manca mai di infilare le cuffie nelle orecchie e ascoltare della buona musica a tutto volume, per tenersi sveglia.

Non ricorda molto della sua infanzia, è cresciuta in un orfanotrofio e quei ricordi sono frastagliati e imprecisi, a volte nascosti dietro ad altre memorie che non sa nemmeno se siano vere oppure no. A volte pensa di conoscersi a malapena ma, se c'è una cosa che sa per certo, è che, da sempre, è un vero disastro. Goffa, spesso impacciata, a volte con quel senso di inadeguatezza infilato nel petto.

Eppure James, dal primo momento in cui si sono visti, non l'ha mai fatta sentire a quel modo.

Si sono conosciuti in biblioteca, dove lavora lei. O meglio, dove fa i suoi due lavori. Ha studiato una vita su tomi giganteschi, ma questo non le ha mai dato modo di provare del risentimento verso i libri, anzi. Continua ad amarli profondamente e, il suo impiego da bibliotecaria, la fa sentire utile a qualcosa. In più, quel silenzio che alberga intorno a quelle quattro mura, le ha sempre dato conforto. Lei, che è il caos, il disordine, con addosso quella voglia di parlare con chiunque di qualsiasi cosa, per raccontare di sé e conoscere il prossimo, ha trovato il suo equilibrio in un luogo che è il suo opposto.

E James, dall'altra parte dello scaffale, sembra voler conoscere tutto di lei, e glielo ha fatto capire con uno sguardo solo.

Lui ha iniziato a frequentare la biblioteca assiduamente, consultando per lo più libri di medicina e di farmaceutica. Porta sempre con sé una borsa di cuoio marrone, consumata e a tratti ricucita - a quanto pare più volte. Johanna ha capito immediatamente che, quasi sicuramente, fa il medico – e Samuel, il suo collega e migliore amico, glielo ha confermato quasi come se fosse la cosa più ovvia del mondo. E forse lo è.

Lo si nota dalle mani lunghe e sempre pulite che, delicate, sfogliano le pagine e, altre volte, accarezzano la copertina di quegli oggetti. Forse anche lui ha quel bizzarro vizio di volerne percepire la consistenza sotto i polpastrelli o di sentire l'odore dell'inchiostro sulla carta stampata. Qualcosa che pensa fosse una stranezza appartenuta solo a lei.

Lo guarda, a volte, seduta sul suo sgabello, dietro al bancone dell'ala che occupa. Lui ogni tanto le restituisce un'occhiata e poi torna, celere, a fingere di leggere. Sì, finge di leggere, perché non muove gli occhi, quando questi scendono di nuovo in basso – troppo in basso, sulle parole. Sembrano altrove, e lei malgrado non può più vederli addosso, sapevano che erano ancora lì, nei suoi .

Poi, ad un tratto, lui si avvicina e le mette davanti agli occhi un libro. Johanna alza le ciglia e incontra il suo sguardo. Sorride, ma sembra molto nervoso. Le spalle rigide, il naso arricciato – qualcosa che gli ha visto fare quando esita troppo sulla sua figura e lei lo becca in flagrante.

Sorride anche lei. «Buongiorno», saluta, e lui sussulta.

«Buongiorno a te.» È la prima volta che sente la sua voce. È profonda, molto più di quanto avesse immaginato. Poi rauca. Forse quello, però, è dato dal nervosismo.

«Vuoi prenderlo in prestito?», chiede lei.

«No. No, io... temo che qualcuno si sia sbagliato a sistemarlo. Non penso che questo libro debba stare nel reparto di anatomia umana, ecco.»

Johanna allora abbassa lo sguardo e nota che, quello che le ha appena messo sul bancone, è di un libro per ragazzi; anzi, il libro per ragazzi.

«Il Piccolo Principe», legge, con un mezzo sorriso malinconico, tornando per un secondo ai tempi delle scuole primarie, quando la suora che si occupata di lei all'orfanotrofio glielo leggeva prima di andare a dormire e Johanna, segretamente, continuava la lettura sotto le lenzuola, con una torcia stretta tra i denti e la voglia di evadere nel suo piccolo mondo. «No, decisamente non è quella la sua sezione», asserisce, ridacchiando.

Lui sbuffa via una risata impacciata. «Se vuoi posso...»

«Oh, no. Assolutamente. Ci penso io dopo. A fine turno mi dedico a sistemare le sezioni.»

«Non ho problemi a farlo io, quando me ne andrò! La sezione per ragazzi è all'entrata, giusto?»

«Che è anche l'uscita», ironizza, indicando la porta gialla dell'entrata con un gesto teatrale, poi gli fa cenno di non preoccuparsi, «No, tranquillo, mi pagano anche per questo», continua e lui pare immensamente deluso da quel fatto e per nulla intenzionato ad abbandonare quella postazione. Johanna, da una parte, si sente sollevata da quel fatto. «Lo hai mai letto?», decide di chiedergli, curiosa.

«Sì, da bambino. Forse dovrei rileggerlo. Ricordo che mi piacque molto.»

«È uno dei miei libri preferiti», risponde lei, senza andare troppo nel dettaglio, anche se vorrebbe. Le piace così tanto parlare, e ora come ora farlo con lui è un po' come un momento che ha atteso per troppo e che si sta concretizzando, ma se c'è una cosa che non vuole fare, è spaventarlo con la sua irriverente parlantina a volte fuori luogo e forse petulante.

Lo osserva, mentre lui sembra quasi rispondere con un sorriso di circostanza senza sapere cos'altro dire: ha corti capelli castani pettinati a spazzola, un nasino all'insù – tratto decisamente inglese, e due adorabili orecchie a sventola che lo rendono ancora più indifeso. Se è vero che fa il medico, Johanna opta per immaginarlo come un pediatra. Ce lo vede bene, tra i bambini. Sembra un tipo alla mano, serio ma capace di scherzare nei momenti in cui può farlo. In quel momento, però, sembra tutt'altro che a suo agio, sebbene non è ancora scappato da lei.

«Dovrei decisamente rileggerlo. Dopo tutte queste letture serie, alimentare un po' di immaginazione non sarebbe male.»

«Sei un dottore?», chiede Johanna, subito e lui pare spiazzato da quella supposizione. «Scusami, ho il vizio di impicciarmi dei libri che i clienti prendono in prestito. Ho notato che sono spesso di quel genere.»

Lui sorride. «Sì, sono un epatologo.»

«Oh, devi avere un gran fegato!», scherza, cercando di risultare simpatica con quel gioco di parole e lui... lui ride. Per lei è un sollievo che l'abbia fatto..

«Ce lo sto rimettendo, il fegato. Certe volte è un lavoraccio, ma mi piace abbastanza. Tu lavori qui da molto?»

«Da una decina d'anni. Dopo la laurea ho fatto domanda per entrare alla biblioteca nazionale ma, be', se sono qui significa che non sono riuscita ad entrare. Comunque mi piace abbastanza questo posto. È un ambiente carino.»

«Ti si addice», dice lui, e parve pentirsi immediatamente di aver mostrato quella irriverenza e quella sfacciataggine che forse non è esattamente parte del suo carattere.

Johanna ride, un po' perché quel complimento l'ha lusingata, un po' per non farlo sentire troppo in imbarazzo.

«Mi chiamo Johanna», si presenta, finalmente, e gli mostra la mano piena zeppa di anelli – li ha comprati da Primark a due pound; pura bigiotteria di quarta categoria. Cominciano già ad annerire le dita con cerchi neri dati dal materiale scadente.

«James», risponde il ragazzo, assecondando subito la stretta, saldissima, sembrando improvvisamente più a suo agio.

«È un vero piacere fare la tua conoscenza», ammette, e avrebbe voluto aggiungere: finalmente. Sono giorni che rimugina sull'idea di avvicinarsi o di seguirlo all'uscita per conoscerlo, anche solo per scambiare due chiacchiere, ponendo fine a quel gioco di sguardi che ormai dura da mesi, forse quasi un anno. Se non lo avesse fatto lui, è certa che il primo passo lo avrebbe infine fatto lei.

Sembra che quell'incontro dovesse, in qualche modo, avvenire in ogni caso. Decide di pensare che è così.

«Johanna... è un bel nome, anche se somigli un sacco alla segretaria dei Ghostbusters», ridacchia James.

Johanna alza le sopracciglia e appoggia un gomito al bancone, rilassandosi. «Janine?»

«Proprio lei. Spero di non averti offesa ma, da bambino, avevo una cotta stratosferica per lei.»

«No, no! Nessuno mi aveva mai fatto un complimento del genere!» Ride, e lui la segue a ruota, poi torna inesorabilmente il silenzio e, con un sospiro, James lo rompe.

«Allora... io vado. Magari la prossima volta, se ti va, ci facciamo un'altra chiacchierata.»

«Volentieri, James.» Soppesa il suono del suo nome, assaporandolo per la prima volta tra le labbra, che poi si umetta, quando lui le regala un sorriso che le scioglie il cuore.

Johanna decide di annoverare quella giornata come una delle più belle mai vissute in vita sua.


...


Due giorni dopo James si ripresenta in biblioteca. Non si ferma nemmeno a scegliere il libro da consultare, stavolta, ma va dritto dritto al bancone, verso Johanna, che lo accoglie mettendosi ritta con la schiena, entusiasta, in attesa di poter parlare ancora con lui.

«Ciao», lo saluta, e lui ricambiò immediatamente, infilando poi le mani nella sua borsa di cuoio, riemergendo velocemente con un pacchetto; quella celerità le sembra quasi un modo per non lasciare che il coraggio gli venga meno.

Le porge l'oggetto.

«Non prendermi per pazzo ma... ho pensato di prenderti una cosa, dopo quello che mi hai detto, e mi faceva piacere dartela. Spero di non imbarazzarti ma, credimi, è fatto con nessuna intenzione in particolare. Volevo solo... ecco, sapevo che dovevo farlo

Johanna prende il pacchetto tra le mani, senza smettere un solo istante di guardarlo confusa. Lui ricambia anche se, di tanto in tanto, guarda altrove, incapace di sostenere il suo sguardo, forse per paura del suo giudizio.

Scarta la carta celeste, e ne emerge... un libro. Anzi, il libro.

«È... Il Piccolo Principe .»

«È il mio Piccolo Principe, in verità. È l'edizione che avevo in casa. Stanotte, preso da un momento di nostalgia, l'ho ricominciato. L'ho finito poco fa in metropolitana, mentre venivo qui e mi è venuta l'idea di regalartelo.»

«James, io...»

«Lo so! So cosa stai per dire: perché un idiota dovrebbe regalare un libro ad una bibliotecaria? Non lo so, ho pensato che tu non fossi tipo da mazzi di fiori e bigiotteria; in più sono un disastro con i regali, così ho immaginato che questo potesse farti piacere. Forse ho immaginato male, ma...»

«Ehi, calmati!», lo redarguisce, e lui sussulta sulle spalle e si ammutolisce. Ha una gran bella parlantina, non c'era che dire, ma Johanna sa che è la conseguenza di un'ansia ingestibile a farlo parlare così tanto, che però lo rende adorabile. Lo sente più vicino a lei di quanto avesse potuto credere quando fantasticava su di lui. Quando lo immaginava insieme a lei, già diventati qualcosa. «Amo i libri, sono la mia vita. Amo essere qui, amo il mio lavoro e il fatto che tu abbia scelto questo regalo a discapito di altri mi fa sorridere. Perché è stato un gesto inaspettato e... be', è la tua edizione. Ti direi che forse per te ha un valore affettivo e che magari darlo a me significa separarlo dai tuoi ricordi di infanzia e...»

«No. No, davvero, non è questo. Io volevo solo che fosse tuo. Qualcosa mi diceva che dovevo darlo a te, come se tu potessi custodirlo meglio di quanto abbia fatto io, nel modo più disinteressato possibile, in questi anni. Temo di non avergli dato l'importanza che meritava. Forse così lo sto salvando e... quando vado via, ma solo allora, magari aprilo. C'è una cosa che vorrei vedessi.» Pare aver abbassato il tono della voce, mentre lo dice e Johanna ne rimane trasecolata. Annuisce lentamente e agisce come ogni amante di libri farebbe, di fronte ad un esemplare così ben tenuto: lo accarezza sulla copertina. Le immagini sono leggermente in rilievo, e sente le linee strofinare sotto i polpastrelli. È una sensazione familiare e piacevole.

«Ti ringrazio per averlo fatto. È molto più di un regalo. È un pezzo di te», risponde, senza riflettere, rendendosi conto di quanto è in realtà impegnativa quella frase, ma si è sentita così e Johanna ha raramente scelto di non seguire il cuore, di fronte a certe situazioni così genuine.

James le riserva un sorriso, poi alza le spalle. «Figurati, è veramente un pensiero minuscolo», asserisce, poi sospira. «Devo andare. In verità oggi sono di turno ma prima di attaccare volevo darti il mio regalo, finché ne avevo il coraggio. Ci si vede domani, in caso?»

«Io sono sempre qui, James. Mi troverai sempre qui», risponde lei, incantata, e lui si volta verso l'uscita, non prima di aver alzato una mano impacciata per salutarla.

Johanna vorrebbe alzarsi, seguirlo e fermarlo. Chiedergli di restare ancora un po' con lei. Di conoscerla, di condividere ancora qualcosa che non sia un libro, ma non ne ha il coraggio. Sa di non averne ancora il diritto.

Così, quando James sparisce dietro la porta gialla della biblioteca e il campanello con le farfalle tintinna deliziosamente, abbassa lo sguardo sul libro de Il Piccolo Principe e, aprendo la prima pagina, sente il cuore perdere un battito.

La calligrafia di James, a differenza di molti altri dottori, è ordinata e elegante. Quasi di altri tempi. Deve aver scritto con una penna stilografica, magari una di quelle che ti regalano alla laurea così che tu possa firmare il tuo primo contratto di lavoro o chissà che altro.

Sulla prima pagina, sotto al nome di Antoine de Saint-Exupéry, ci sono scritte le parole più stupide e adorabili del mondo:

«Chi chiamerai in caso di pericolo, Janine? Me, o i Ghostbusters?» E poi il suo numero di telefono.

Johanna si lascia sfuggire una risata. Chiude il libro e lo stringe al petto, guardando la porta quasi sperando che possa riaprirsi e darle la possibilità di vederlo ancora.

Poi la voce della signora Briggs la ridesta dai suoi pensieri.

«Jo, è ora», le ricorda, e il sorriso di Johanna si spegne, ben sapendo che, quello che è appena successo, probabilmente è solo un piccolo frammento di felicità che presto verrà oscurato dalla realtà dei fatti: ovvero quella che la sua vita non ha niente di normale e che, forse, questo lato di lei la separerà da James prima ancora che possa chiamarlo e sperare che tra loro possa iniziare qualcosa.

Qualunque cosa.

Ma, il suo ruolo nel mondo, la terrà sempre lontana dalla felicità che tanto ricerca e questo Johanna lo sa benissimo.

Così bene che fa male al cuore.

«Arrivo.» E, senza aggiungere altro, raggiunge lo sgabuzzino della biblioteca, dove lo specchio la attende come ogni giorno.


Fine Capitolo I

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