02. "Cos'è che rende l'uomo felice?"
🌜 Non aver paura di sognare 🌛
“Perché da qualche tempo il mondo è un'agonia
Qualsiasi cosa faccia è sempre colpa mia.”
-Dear Jack & Pierdavide Carone
«Ariel McAvoy», sento l'eco del mio nome, come se qualcuno lo stesse gridando dal fondo del corridoio di un ospedale abbandonato.
«Ariel», ora l'eco si fa più vicino; sembra un altoparlante, una voce metallica che entra violentemente nella mia testa e rimane incastrata lì, dando vita ad un'immagine strana, sfocata, distorta.
«McAvoy, apri gli occhi», ora sento un tocco delicato sul mio braccio e apro di scatto le palpebre, un fremito mi attraversa piano le gambe fino ad arrivare alle braccia.
Ho la guancia schiacciata contro il banco, una ciocca di capelli mi è entrata per metà in bocca e davanti a me c'è un mio compagno di corso, che mi fissa con aria sbalordita.
I miei occhi stanchi iniziano a scrutare tutta l'aula; vedo soltanto tante facce che mi osservano incredule.
«Ariel», sento nuovamente il mio nome e raddrizzo subito la schiena, sollevando la testa dal banco e sbattendo piano le palpebre, come se stessi cercando di capire cosa diavolo sta succedendo. Strizzo gli occhi e noto una mano posata sul mio banco con le unghie laccate di rosso. Il mio sguardo sale lentamente finché non si ferma sulla sua faccia.
La professoressa di filosofia mi guarda con le sopracciglia inarcate, come se stesse aspettando una spiegazione.
Improvvisamente sento lo stomaco stringersi; mi sento mortificata.
«Chiedo scusa, professoressa McKinley», mi prendo la testa tra le mani, cercando di nascondere l'imbarazzo. «Non volevo addormentarmi», mormoro.
«Ariel, quanto pensi tu abbia dormito?», domanda, con i suoi occhi azzurri puntati nei miei, verdi.
Mi gratto la nuca, a disagio. «Non lo so... Tutta l'ora?»
La professoressa scuote la testa, con mezzo sorriso sul volto. «No, Ariel. Probabilmente cinque minuti. Stavo giusto iniziando a parlare e ho visto la tua testa scivolare lentamente, poi non l'hai alzata più», picchietta le unghie sul mio banco, poi ritira la mano e si allontana, dandomi le spalle.
«Siete pregati di andare a dormire prima, perché non accetto alunni che dormono durante le mie ore. Dovete imparare ad organizzarvi e a bilanciare il vostro tempo. Ma, soprattutto, dovete riposare quando il corpo ve lo richiede», sta parlando a tutta la classe in tono asseverativo, ma io vorrei semplicemente sotterrarmi.
Sento un coro di bisbigli dietro di me, alcune persone ridacchiano a bassa voce.
«Sono stata chiara?», chiede la professoressa, incrociando le braccia al petto e guardandoci con aria severa, soffermandosi più del dovuto su di me.
Annuisco incerta e tengo lo sguardo a terra.
«Dunque, stavo dicendo, poco fa», riprende il discorso, iniziando a camminare tra i banchi. «Quale sarebbe, secondo voi, la vostra vita ideale?»
La ragazza dietro di me risponde: «Una vita senza disgrazie?»
La professoressa le sorride. «Quindi aspiri ad avere una vita felice», le dice, gli occhi le brillano ogni volta volta che inizia a spiegare o ad avere qualche dialogo con noi.
La ragazza si schiarisce la gola ed esclama: «Be', mi sembra ovvio, no? Voglio dire, qualsiasi essere umano aspira alla felicità.»
«Ma perché? Cos'è che rende l'uomo felice? Tutti vogliono raggiungerla, ma come? Ci avete mai pensato?», domanda la professoressa, riservandoci uno di quegli sguardi di chi la sa lunga.
«Ehm...», inizia a dire un'altra ragazza. «A me rende felice il mio ragazzo, per esempio.»
La professoressa per poco non alza gli occhi al cielo. «Ma è davvero la felicità a cui aspiri, secondo te?»
Cala il silenzio.
«Ariel, cos'è che rende l'uomo felice, tanto da definirsi tale?», tutti si girano verso di me e aspettano impazienti una mia spiegazione.
Ma io mi sento quasi morire dentro, perché sono ancora stordita ed è come se ci fosse stato un corto circuito dentro il mio cervello.
Mi lecco le labbra, dopo un lungo silenzio sento qualcuno sbuffare, quindi mi affretto a rispondere: «Io... Non lo so.»
Oltre alla faccia delusa della professoressa, sento anche gli altri borbottare contrariati e infastiditi.
«Sforzati, avanti. Siete tutti esseri umani qui dentro, quindi deduco che uno di voi almeno sia felice. Una definizione mi serve, ragazzi! Soltanto una, fatevi avanti!»
«Prof, senza offesa, ma penso che questa sia l'era dei depressi», prende parola un ragazzo, facendo ridere gli altri.
La professoressa gli lancia un'occhiataccia, ma poi fa mezzo sorriso tirato e posa nuovamente lo sguardo su di me.
«Penso...», inizio a dire, il silenzio incombe su di noi di nuovo. «La felicità penso sia per l'uomo l'assenza di dolore...», ma dai, direbbero gli altri.
«Però il dolore, bene o male, lo proviamo tutti, giusto?», chiede la prof, guardando anche gli altri, che annuiscono impercettibilmente.
«Quindi...?», mi guarda, come se provasse a farmi capire qualcosa.
«Quindi aspiriamo alla felicità, perché in realtà non la possediamo. Diventa come un compito perpetuo nel corso della vita, fino alla fine dei nostri giorni, la vediamo come uno tra gli obiettivi principali da realizzare», rispondo, più sicura di me. La professoressa mi fa cenno di andare avanti. «Tutti vogliono essere felici, alcuni dicono di esserlo, ma quando qualcuno gli chiede cos'è che lo rende così, non sa cosa rispondere. Dovremmo nascere già felici, ma proprio come la venuta al mondo di un neonato: sappiamo quando nasciamo ma non quando moriamo, quindi spesso sappiamo cos'è che ci potrebbe rendere tristi ma più difficilmente sappiamo elencare cosa potrebbe renderci davvero felici. E non mi riferisco alla felicità che si prova quando ti dicono "Dai, andiamo a mangiarci un gelato", quella per me è solo una felicità passeggera, solo una pausa tra lo stare bene e lo stare male, come se fossi sospesa in una bolla di contentezza e basta.»
La professoressa riflette un attimo e poi dice: «Qualcuno qui ha letto Schopenhauer, vedo», dice, facendomi arrossire. «Quindi, dalla domanda principale, sei arrivata a dirmi che per te la felicità è la pausa tra un dolore e l'altro. Giusto?»
«Giusto», bisbiglio.
«Hai detto una cosa curiosa, poco fa», bagna le sue labbra tinte di rosso e continua a dire: «Che alcuni dicono di essere felici, ma forse in realtà non lo sono. Quindi, mi unisco alla tua affermazione con una domanda molto stuzzicante di Nietzsche: “La felicità non ha volto, ma spalle: per questo noi la vediamo quando se n'è andata?”»
«Sembra la classica frase "Non capisci quello che hai finché non lo perdi"», dice una ragazza.
«Perché spesso è così, ragazzi. Anche per la felicità. L'uomo si impegnerà sempre a rimuovere qualsiasi cosa turbi il suo animo. A volte ci concentriamo così tanto sull'essere felici che ignoriamo anche le piccole cose che ci donano già una piccola gioia. La felicità resterà sempre il punto interrogativo più grande per l'umanità, ma se posso darvi un consiglio, sappiate che non la si conquista tutta in una volta e vi ritroverete spesso a barcollare nel buio, su una strada piena di ciottoli che vi farà inciampare un bel po' di volte. Vedetela come un piccolo puzzle da risolvere: un pezzo corrisponde ad una gioia. Se le unirete, con il tempo capirete che la felicità l'avete sempre avuta sotto gli occhi, ma non avete saputo coglierla al momento giusto.»
Una ragazza si attorciglia una ciocca di capelli intorno al dito con aria svogliata e dice: «È una cazzata, in effetti. L'uomo è superficiale, ma anche stupido. Al giorno d'oggi soltanto le cose grandi ci rendono davvero felici: una macchina nuova, una casa nuova, vincere alla lotteria, comprare l'ultimo cellulare che è uscito sul mercato, comprare le scarpe più gettonate, mangiare fuori, e potrei continuare all'infinito.»
Nessuno dice niente, ma tutti si guardano tra di loro, si analizzano.
Bastano soltanto pochi secondi per capire che siamo tutti schiavi del consumismo e che la ragazza non ha tutti i torti. Be', io non sono proprio così, e non per fare l'alternativa, ma semplicemente perché alcune cose non me le posso permettere.
Alla fine dell'ora esco dall'aula e mi stropiccio gli occhi, sbadigliando. Non ricordo niente... Non ricordo se ho dormito stanotte o quanto. So soltanto che al mattino ho aperto gli occhi, ma mi sono sentita incredibilmente stanca, quindi deduco che abbia dormito al massimo mezz'ora. Non è la prima volta che capita, poiché sono sicura di aver passato tutta la notte in bianco.
«Ehi, piccola», sento la voce di Jamie dietro di me, poi il suo braccio si posa sulle mie spalle.
Sussulto e lo guardo con la coda dell'occhio.
«Ciao, Jamie», gli dico.
«Tesoro», mi corregge. «Sforzati a chiamarmi così, ogni tanto. Che diavolo ti costa? Stiamo insieme, le coppie si chiamano con nomignoli carini», la sua voce mi martella la testa.
«Mi fanno schifo i nomignoli sdolcinati. Non li sopporto, lo sai», pronuncio, risoluta.
Lui toglie il braccio dalle mie spalle e poi mi afferra per il mento, guardandomi negli occhi.
«Però tu mi ami, quindi mi chiamerai così. Non farmi fare brutta figura con i miei amici, hai capito?», dice con aria minacciosa.
«Stasera mi aspetterai con la cena calda sul tavolo, vero?», mi accarezza la guancia.
Mi acciglio così tanto che sento le mie sopracciglia congiungersi. Sto per dirgli di no, ma lui stringe di più il mio mento e ripete: «Vero, tesoro?»
«Tutto a posto?», chiede un ragazzo dietro di noi, Jamie alza gli occhi al cielo e si allontana da me, per poi guardare il ragazzo.
«Fatti i cazzi tuoi, finocchio», sputa con rabbia, poi dà un colpo sul braccio del ragazzo e tutti i suoi libri cadono a terra.
«Frocio sfigato», scoppia a ridere, poi guarda nuovamente me e viene a darmi un bacio sulle labbra, spingendo avidamente la sua bocca contro la mia e ficcandomi dentro la lingua. Dio, sto per vomitare.
«Ci vediamo stasera, piccola», mi fa l'occhiolino e poi scappa, raggiungendo subito alcuni dei suoi amici.
Mi giro verso il ragazzo con il terrore negli occhi e l'imbarazzo stampato sul viso. «Mi dispiace», sussurro, abbassandomi sulle ginocchia per raccogliere i suoi libri.
Lui fa la stessa cosa e mi guarda di sottecchi. «Sei la ragazza di Jamie O'Brien?»
Vorrei scuotere la testa e dirgli di no, che non conosco quello stupido scimmione ineducato e cafone, ma so che lo verrebbe a sapere, quindi rispondo: «Già.»
«Non sembri molto contenta di esserlo», mi sorride con aria comprensiva. Il suo sorriso è contagioso, grande e allegro. Ha il viso squadrato, tant'è che ogni volta che sorride le sue guance sembrano scavate, ma non sono delle vere e proprie fossette. Gli occhi sono cerulei e il viso è incorniciato da una folta chioma riccia e voluminosa che arriva fin sopra l'orecchio.
«Sono Jay, comunque», allunga la mano verso di me, mentre con l'altra stringe i libri.
«Ariel», rispondo, stringendogliela. Lui sorride nuovamente a trentadue denti ed esclama: «Come la sirenetta! Solo che tu non le assomigli minimamente.»
«No, infatti», mi scappa una risata.
«Bene... Io adesso vado. Se hai bisogno di qualcosa, chiedi di Jay-Kay in giro», mi mostra il pollice in su.
«Jay-kay?», domando, trattenendo un sorriso. Non voglio sorridere, ho paura che possa sentirsi preso in giro.
«Ah, sì. È così che mi hanno definito. Kay deriva da okay, perché secondo la gente Jay è sempre okay, quindi Jay-kay», fa spallucce, sorridendo e arricciando il naso.
«È... buffo», dico.
«Credimi, è meglio Ariel. Ora devo proprio scappare, sirenetta», solleva tre dita, facendomi il saluto scout, e poi si mette a correre nel corridoio, scappando sul serio. Qualcosa mi dice che è in ritardo.
Sento le palpebre troppo pesanti per poterle tenere ancora aperte. Ma ce la devo fare.
Mi dirigo in caffetteria e ordino un caffè doppio.
Lo sorseggio poco a poco mentre mi perdo con lo sguardo fuori dalla finestra. Adoro l'autunno. Qui, nel Maine, ad ottobre riesco a vedere le prime foglie che cadono, che ingialliscono. Il clima diventa più freddo, gli alberi sono tinti di vari colori: giallo, rosso, arancione. Mi sembra di stare ammirando un quadro.
Metto una ciocca di capelli dietro l'orecchio e finisco di bere il caffè, cercando poi di escogitare un piano per riuscire a resistere al resto delle lezioni.
Stare ad ascoltare i professori mentre spiegano, a volte per me è come un sonnifero.
Per fortuna dopo le lezioni, dato che oggi è venerdì, ho il turno in una biblioteca in centro. Ci vado soltanto di lunedì e venerdì, oltre al lavoro che svolgo al ristorante.
Però la biblioteca chiude alle nove di sera. Al ristorante posso distrarmi per qualche ora in più.
A volte mi faccio dei giri infiniti per la città in bici, soltanto per non tornare a casa prima.
Altre volte, invece, mi tocca sorbirmi la presenza di Jamie e il suo sguardo insistente e minaccioso.
Ore più tardi, come previsto, stare attenta alle lezioni è stata la missione più difficile da affrontare questa settimana.
Ho resistito, ma sono andata in bagno a lavarmi la faccia almeno una decina di volte e adesso, da quando sono in biblioteca, penso di aver rimesso a posto i libri un sacco di volte, spostandoli da un posto all'altro, soltanto per trovarmi qualcosa da fare.
Se sto ferma impazzisco. Se mi addormento è ancora peggio.
Mi siedo su una delle poltrone rosse imbottite e guardo il soffitto.
A quest'ora non viene più nessuno. Anzi, raramente viene qualche persona che cerca un libro da leggere soltanto perché poi deve scrivere un saggio.
Sono pochi quelli che vengono qui da soli, perché amanti della lettura.
La tentazione di prendere uno dei libri e sfogliarlo, è davvero tanta, ma so che i miei occhi si stancherebbero ancora più facilmente e si chiuderebbero entro tre secondi.
Guardo l'orologio appeso al muro: mancano venti minuti prima della chiusura.
Sbuffo e inizio a fare avanti e indietro, ma senza distogliere lo sguardo dall'orologio. Più guardo la lancetta muoversi più sembra che il tempo rallenti.
Merda, dovrò preparare anche la cena a Jamie.
Quando mi tocca chiudere finalmente, spengo tutto e chiudo a chiave. Accanto a me passa un pick-up e due ragazzi gridano: «Ciao, bellissima! Vuoi salire?»
«Vuoi che ti denunci, coglione?», grido di rimando. La macchina accelera e va via.
Cammino verso il retro dell'edificio, dove ho lasciato la bici. Mi tocca percorrere una breve stradina, che di giorno è davvero carina, ma di notte, al buio, appare torbida e inquietante.
Purtroppo è l'unico posto dove posso lasciare la bici al sicuro. Non mi piace molto prendere i mezzi e non ho la patente e nemmeno la macchina.
Arrivo dietro l'edificio e vedo dall'altra parte della strada un gruppo di ragazzi che sta per entrare nel locale dove Jamie mi ha portato qualche volta, ma non è per niente un posto... calmo. I ragazzi fanno di tutto e di più là dentro, le ragazze di solito vanno lì a rimorchiare "qualche bel manzo", come dice Lilith.
Jamie mi ha definita noiosa, soltanto perché una ragazza gli si era seduta in braccio e lui non aveva fatto niente per mandarla via, nonostante fosse davanti ai miei occhi, quindi ero molto infastidita, non per il gesto di lei, ma per l'umiliazione subita in quel momento.
Mi appoggio un attimo alla mia bici e sospiro, chiudendo gli occhi per un secondo e immaginandomi già mentre pedalo per andare a casa. E vedo le ruote muoversi, muoversi, muoversi... Un movimento ipnotizzante.
Devo montare sulla bici, mi dico. Ma all'improvviso sento il mio corpo afflosciarsi a terra. Crollo come se qualcuno mi avesse dato una botta alla testa e avessi perso i sensi.
Ma io sono cosciente e le mie palpebre sono mezze aperte... Vedo la luce del lampione puntata su di me, ma il mio corpo non si muove più.
Tu sei sveglia, Ariel. Ti devi muovere.
Ma all'improvviso davanti a me appare una figura vestita di bianco e i capelli lunghi e sporchi che le coprono il viso.
Avanza lentamente verso di me, scalza, con le mani violacee, come se fosse già morta.
Si ferma davanti e si abbassa lentamente, poggiando le mani sul mio petto e premendo con forza, togliendomi il respiro.
Non è reale, Ariel. Svegliati. Il tuo cervello è sveglio. Devi solo muoverti.
Ma sono paralizzata.
«Ehi, tutto a posto?», mi sembra di sentire qualcuno vicino a me. Poi la figura davanti sparisce e rimango di nuovo da sola e spaventata.
«Merda», borbotta un ragazzo, poi sento due braccia che mi sollevano da terra e mi stringono piano. La mia testa scivola contro il suo petto, lo sento irrigidirsi.
«Ehi, bella addormentata, qual è il tuo nome? Da dove vieni? Hai assunto qualcosa?», sento ancora la sua voce bassa giungermi all'orecchio.
Non dormire. Non dormire. Non dormire... Ma gli occhi si chiudono definitivamente e sento soltanto il mio corpo stretto tra due braccia calde e un profumo maschile che mi solletica le narici.
Non so se vi è mai successo di avere una paralisi nel sonno, com'è successo ad Ariel, e avere le allucinazioni, perché io ne soffro quando sto sveglia più del dovuto e mi rifiuto di andare a dormire e ammetto che mi cago un po' addosso 😂
Non auguro questa esperienza a nessuno.
Comunque, questa storia seguirà un pensiero più riflessivo, l'animo di Ariel è tanto profondo quanto tormentato, e spero che piano piano esca fuori e la capiate. ❤️🌺 Spero vi piaccia. Chissà chi è il ragazzo misterioso eheh
Questo è Jay.
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