19

Nominarlo fu un colpo al cuore, sebbene fossero lì per lui.

Tutti si soffermarono, chi col sorriso, chi con la mente tra i ricordi di un tempo.

In quel frangente, nella testa percepì vecchie e nuove voci in testa. Voci nostalgiche, voci vogliose di compagnia. Una voce in particolare voleva farsi ascoltare nei suoi silenzi, volendo raccontare una storia dalle diverse sfaccettature.

Ricordava che diceva sempre: «L'imperfezione dell'essere umano è quello che ci rende perfettamente umani». La prima volta che pronunciò quella frase, la voce sembrava quasi assente, bisbigliava come se avesse avuto paura di farsi udire da qualcuno, come se stesse elucubrando qualcosa di troppo.

«Profondo per avere solo quindici anni» si stupì Daniele all'epoca. Ancora aveva vivida nella memoria i lineamenti del viso che si distesero in un sorriso rilassato, per certi versi confortante; a stonare c'era soltanto quel naso storto che, tutto sommato, gli donava quell'aria vissuta. Un po' lo sembrava veramente, un uomo cresciuto ma incastrato nel corpo d'un ragazzino. Quei pensieri profondi parevano derivare da un'altra vita.

In effetti, nella lista dei sogni che ricordava, spesso si ritrovava a personificarsi in un altro individuo, ma stranamente si sentiva a suo agio, come se gli appartenesse, come se fosse una delle sue tante personalità, raccontando delle vicende dalle sembianze reali, vissute in prima persona da Michele Galgani. Faceva quasi impressione la padronanza dei dettagli che viveva in quelle visioni oniriche. Riusciva a farle percepire anche a chi ascoltava.

«Dovresti fare lo scrittore con tutti quei sogni, sai quanti soldi faresti?» gli riferiva con aria gioconda.

«E tu saresti l'ultimo ad acquistarli!» rideva.

Sospirò.

Gli mancava la sua risata. Era fresca come una mattina di primavera e rigenerante come il sole a mezzogiorno.

Tutt'oggi si sentiva responsabile della sua assenza. Gli pizzicavano ancora oggi gli occhi al solo pensiero di non averlo lì quel giorno a causa di un errore.

Aveva ragione. Era difficile perdonarsi adesso.

Quanti sbagli una persona poteva fare nella vita? E quanti di questi non sarebbero stati condannati?

Era il paladino della giustizia, o così si immedesimava, lo enunciava persino il suo cognome: Salvadori. Lo prendevano pure per i fondelli per questo, ed era ironico sentirsi esattamente l'opposto.

A pensarci, era da quando sua madre se ne era andata che non si sentiva così impotente davanti alla realtà dei fatti, e percepiva come se fosse incastrato in un ciclo continuo di impossibilità di poter fare qualcosa di concreto ed efficace per le persone a lui care. Era successo con Michele, con Giulia e con Damiano.

A volte era convinto di essere il giudice di se stesso, o che fosse Dio a giudicarlo e a punirlo.

...

Decise di prendere aria.

Si mise il cappotto e si diresse all'esterno per fumarsi una sigaretta. Aveva ripreso con quelle maledette. Sperava di smettere prima o poi, ma ogni volta ci ricascava, cadendo in un circolo vizioso. Dopo quel discorso sentiva proprio il bisogno impellente di cambiare sapore in bocca e far evadere i pensieri, assaporando il tabacco ed esalandolo assieme allo stress.

«Maremma impestata, si bubbola, altro che» il freddo lo aveva investito in pieno volto, pizzicava quanto una sberla appena ricevuta dal babbo quando ancora era un ragazzino alle prime bravate.

Agguantò il portatabacco e lo aprì fissando quei filamenti lunghi e sottili che fuoriuscivano dalla busta della Pueblo giallo. Fiutò l'odore secco insinuarsi tra le narici quando, a distrarlo, sulla punta del naso avvertì una goccia fredda posarsi delicatamente. Alzò lo sguardo e tanti altri fiocchi stavano discendendo lentamente dal cielo, generando un inspiegabile buon umore che lo portò indietro di venticinque anni.

Aveva iniziato a nevicare.

«Che giornata atipica» pronunciò a voce alta. Era incredibile come il tempo fosse così vario in un solo giorno, un po' come gli umori di quel pomeriggio. Neri sembrava felice come una Pasqua, Buzza il solito orso sarcastico, Pippo sempre dietro al cellulare con aria preoccupata, mentre Olly stanco e rammaricato.

Ciascuno era preso dalla propria vita e parevano gelosi di raccontarne i dettagli, ma d'altronde lui stesso non poteva parlare, era il primo a nascondersi dietro a una muraglia dipinta d'un panorama mozzafiato sebbene le nuvole minacciassero la tempesta.

Dispose il trinciato sulla cartina, mentre il filtro a un'estremità. Lo teneva fermo con l'unghia del medio intanto che rollava.

«Potevamo fare i pupazzi di neve, e invece prevedo delle pozze annacquate» Jacopo era apparso alle sue spalle rubandogli dalle dita il tabacco, e per poco non gli cadeva tutto dalle dita.

Non fece molti drammi al gesto, ormai lo conosceva e risultava prevedibile la sua natura di scroccone.

Fortunatamente aveva già tutto il materiale sotto mano, dunque gli rimase solamente di leccare la colla per sigillare. «Non penso nevicherà per molto, perciò eviteremo il problema» pose tra le labbra la parte dotata di filtro.

Con un cenno si fece passare l'accendino, dopodiché tirò, facendo prendere a fuoco l'altra estremità. La prima boccata era tutto piacere, solo con quella percepì i problemi uscire dal corpo, anche se era conscio che non sarebbe stato così a lungo.

«Come si è parlato di Lele sei uscito. Tutto bene?»

Annuì, prendendo un altro tiro. «Dicono che il tempo cura le ferite» fece il sarcastico.

«Sì beh, se la ferita ti mangia la gamba come farebbe uno squalo, siamo belli che fottuti».

Entrambi non resistettero all'ilarità, mista a sconcerto. «I tuoi paragoni non hanno secondi mezzi. O diretto, o diretto».

«Inutile farli altrimenti» lo sguardo amichevole si addolcì ulteriormente, in pensiero per l'amico. Per quanto non fosse stato presente, era particolarmente vicino all'accaduto. Sapeva cosa aveva passato nei mesi successivi e quali conseguenze scoppiarono. Era stato un periodo quasi intimo, pregno di contrasti, isolamenti e al contempo con la necessità di sentirsi uniti. Era un dolore condiviso che ognuno abbracciava stretto durante la notte e lo accompagnava per mano durante il giorno, saldato all'ombra.

Era frustrante, ma mai quanto l'insonnia dei primi giorni. Daniele ricordava di svegliarsi sudato e con le lacrime agli occhi; a volte sua sorella si distendeva accanto a lui sentendolo mugugnare dall'altra stanza, cercando di confortarlo. Nei sogni vedeva soltanto la sua disfatta, la sua colpa, il suo rimorso. Si sentiva inutile, un peso, persino la causa del matrimonio finito dei suoi genitori. Creava per proprio conto dubbi e risposte illogici di problemi che non lo riguardavano, come se tutto avesse finalmente trovato un nesso che lo riportasse a lui. Aveva persino accettato la punizione propostagli senza battere ciglio.

«Lo sai che non è colpa tua, sono passati più di dieci anni, dovresti averlo compreso».

Scosse il capo. «Ce l'ho portato io, un po' sono responsabile».

Fece un lungo tiro rivivendo, sebbene sveglio, quella sera di primavera. Il ricordo graffiava ancora il petto come artigli d'orso.

«Il coglione in macchina è il responsabile» ribatté, tuttavia non lo convinse.

Decise che fosse anche il suo momento di iniziare a fumare, e per qualche istante rimasero a fissare i cristalli di ghiaccio che scendevano lenti in una danza eterna. Provarono sollievo man mano che si accumulavano le ceneri per terra, come se per quegli istanti il peso si sciogliesse nonostante sapessero benissimo che quel sentire era nascosto in un angolo ben in vista.

Danny non era del tutto convinto di quella visione. Per quanto potesse essere colpa di quel ragazzo, si era infilato comunque in un giro clandestino di corse. Per quanto non potesse prevederlo, era conscio dei pericoli che potevano incombere.

«Ti ricordi la nostra prima balla?» se ne uscì, col sorriso da bischero, cambiando pensamenti.

Daniele sornione rispose: «La balla di Cantucci e Vin Santo a undici anni, epica».

Erano loro due assieme a Lele, col signor Salvadori che aveva proposto di provare i primi alcolici in casa. Persino il signor Galgani sembrò concorde, dunque i tre ragazzini non si tirarono indietro; presero ciascuno un bicchierino e decisero di fare come i grandi: berlo tutto d'un sorso. Non ci fu idea peggiore che presero all'unisono. Boccheggiarono per qualche minuto alla ricerca di acqua, dovendosi alzare dalla scranna e spingersi a turno per bere dal lavello siccome quella in bottiglia era finita e avrebbero dovuto scendere nella cantina.

«Adesso ci pare la cosa più sobria da bere, altroché!»

Non potè affermare il contrario. «Sai cos'altro ci manca oggi?»

Jacopo lo guardò curioso di scoprire cosa avesse per la testa. «Cosa?»

«Il Piaggio arancio. Dove lo hai?»




NOTE AUTORE

La nostalgia dei ragazzi si fa sentire sempre più con Daniele 🥀 abbiamo riso, scherzato, pianto e ora non aspetta altro che asciugare le lacrime.

Cosa ne pensate di Daniele? Per chi ha letto Reflex come lo vedete?

Al prossimo capitolo 🌻

Un abbraccio,
Niki

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