24. Tic Toc
N/A: Merry Newtmas! Era da una vita che volevo iniziare una nota autrice così e direi che siamo proprio in tema! Miei carissimi lettori(per chi c'è ancora), ecco a voi 35 pagine di word. Indubbiamente poteva uscirmi meglio, ma lo sto revisionando da così tanto tempo che se avessi continuato di questo passo, non lo avrei mai pubblicato. Voglio rassicurarvi per il capitolo 25, è quasi concluso e prima di Natale-se non anche in questi giorni- è online. Perdonate gli orrori. A presto ;)
24. Tic toc
«Ho il dubbio che diano questo cibo per imporre una dieta. Questa carota galleggia come se fosse una barca, per quanto il mio stomaco brontoli, preferirei lasciarlo vuoto. Sai Thomas, mi sentirei più sicuro...» Lamentò Chuck, con tono critico, una volta accertatosi che Misty, la dolce inserviente che gli aveva servito il pasto dietro il bancone della mensa, non fosse nelle vicinanze. Era rimasto colpito dal fatto che, nonostante non fosse ancora al massimo delle sue forze, si fosse alzato sulle punte per leggere il nome sulla targhetta.
Qualcuno lo avrebbe definito "colpo di fulmine", ovviamente solo per Chuck, così palese che non si era accorto di star perdendo tempo a scegliere le posate. Trasognante e distratto, oltre al cucchiaio, aveva preso anche inutilmente la forchetta, a cosa gli sarebbe servita per il brodo? Thomas gli lanciò un'occhiata perplessa, per poi distendere le labbra carnose in un sorrisetto malizioso, di uno che la sapeva lunga.
Forse, anche se stupido e sventurato in amore, aveva notato qualcosa di diverso nel piccoletto, che, colto dall'imbarazzo, si smosse, manifestando un disgusto ambiguo; non era chiaro se fosse per la pietanza o per deviare le tacite ma comprensibili insinuazioni dell'agente.
Il bambino, che camminava davanti a Joy e Thomas, trovò un tavolo isolato, in fondo alla sala, vicino alla vetrata che dava sul giardino interno.
«Sicuro? E se forse starai peggio? A un collasso per ipoglicemia ci hai pensato?» Ragionò Thomas, ammiccando un occhiolino, a cui Riccioli di cioccolato rispose con uno sguardo torvo. «È solo una questione di prospettiva, Chuckie. Puoi stare meglio come peggio. Nel dubbio ti direi di assaggiare. Un po' di brodo caldo al tuo stomaco vuoto non può che fare bene.» Consigliò premuroso.
«Sì, certo, come no, magari chiudendo gli occhi e tappandomi il naso. È così triste questo piatto che la mia vita, a confronto, sembra una commedia.» Controbatté, riluttante, senza voler neppure avvicinarsi alla brodaglia.
«A te non fanno proprio bene gli ospedali, pivello.» Constatò simpatico l'agente, cercando di sdrammatizzare, mentre scompigliava affettuosamente la chioma riccia di Chuck.
«Dimmi tu a chi fanno bene...» mormorò abbattuto, stringendosi nelle spalle.
Nel tragitto verso il suo posto, Thomas notò il fruscio delle foglie degli alberi, lievemente strepitante che si udiva attraverso le finestre. Fuori, il cielo sembrava un campo di battaglia: il vento stava iniziando a sollevarsi con forza, facendo danzare le foglie in un movimento frenetico, come se la natura stessa si ribellasse alla calma apparente della mattinata.
Il sole, in netto contrasto con ciò che stava avvenendo, cercava di resistere alle nuvole grigie che si accumulavano minacciose, oscurando a tratti il paesaggio. Il caldo del giorno stava ormai scomparendo, sostituito da un freddo pungente che sembrava fare da presagio a un'imminente pioggia. A quell' improvviso calo della temperatura, Thomas cestinò subito il programma di passeggiare dopo pranzo tutti e tre nel cortile antistante la struttura. Si sarebbero divertiti diversamente, rincuorò sé stesso.
«Non è illegale che sia l'unico piatto? Non dovrebbe esserci almeno un'alternativa?» Continuò a lamentarsi Chuck con tono teatrale, lanciando domande melodrammatiche mentre si accomodava sulla sedia pieghevole.
Joy prese posto di fronte a lui, mentre Thomas si sedette accanto a lei. In quanto l'unico adulto del trio, si sentì obbligato a dare l'esempio. «O mangi la minestra, o ti butti dalla finestra.» Rispose con un sorriso ironico, e come se si stesse preparando un'immersione subacquea, tappandosi il naso inghiottì il tutto in pochi e grossi bocconi.
Fu inutile nasconderlo, neppure lui apprezzò quel piatto, facendo fatica a mandare giù la brodaglia in una deglutizione rumorosa; «Beh... pensandoci, non è tanto male...» Mentì, riuscendo almeno a convincere la piccola Joy, che lo guardava con lo stesso sguardo innamorato di chi aveva visto il proprio supereroe preferito uscire dalla tv e palesarsi nel proprio salotto, Chuck, invece, sollevò le sopracciglia, gli occhi spalancati più del dovuto: una chiara dimostrazione di quanto fosse scioccato da quell'affermazione.
Thomas doveva stare davvero male, pensò, forse era ancora intontito per l'incontro con il suo collega.
Contro ogni volontà, Chuck cominciò a piluccare con la forchetta la lunga carota al centro del piatto, che non era nemmeno stata tagliata a cubetti. Galleggiava in un brodo insipido e annacquato che sembrava quasi implorare "Aiutami!". Scrollò la testa con un respiro profondo. Forse era la fame, o forse la stanchezza, ma in entrambi i casi, cominciava a vedere cose strane: la carota gli sembrava una creatura strana, abbandonata in un mare di brodo senza speranza. La spinse giù verso il bordo del piatto, facendola definitivamente affondare.
«Sicuro che, prima nel salvare eroicamente il tuo fidanzato, non hai sbattuto la testa da qualche parte?» Punzecchiò con un filo di acidità, lasciando interdetto l'agente.
Il tono alto con cui proferì quella frase fece sì che molte persone si voltassero nella loro direzione, sia inservienti che pazienti—molti conoscevano Edison per le sue precedenti azioni benefiche a favore della clinica. Era un volto abbastanza noto, facilmente riconoscibile, nonostante il costume da supereroe e la maschera nera che, per il sudore, gli si era completamente appiccicata al viso. Alcune donne lo guardarono con fugaci occhi rattristati, poi, per nascondere il colpo, tornarono a parlare tra loro. Pettegole.
Chuck si limitò a guardare Thomas, alzando le spalle più volte con nonchalance, come a dire "mi dispiace per loro, ma prima o poi dovevano saperlo". Calando la testa sul triste piatto, ironizzò ancora: «Ah, quanti sogni infranti.»
A quella frase, o al modo teatrale con cui il piccoletto l'aveva pronunciata, Thomas scoppiò in una fragorosa risata, sinceramente divertito.
A volte, quel ragazzino non si limitava a lanciare frecciatine, ma lanciava proprio tutto l'arco. E, paradossalmente, gli ricordò Newt. In un universo parallelo, l'inglese avrebbe potuto tranquillamente essere suo padre: i geni erano molto simili ... Scoppiò a ridere ancora di più a quel pensiero, creando preoccupazione in Chuck, che non considerava quel comportamento affatto normale. D'altronde, non era un pensiero banale. Come diamine gli era uscito?
«Fidanzato?» Ripeté Joy, più scioccata che stranita, tenendo il cucchiaio sospeso tra il pollice e l'indice. Il labbro inferiore si arricciò all'improvviso, e il mento tremante, insieme agli occhi stretti, erano il preludio di un pianto irreparabile.
«Fai le coccole anche a qualcun altro? Bacini, pizzicotti e solletico?» Si voltò verso sinistra, verso Thomas, abbandonando la sua posizione composta e puntando gli occhi accusatori e scuri sulla figura del ragazzo, che le piaceva un po' troppo precocemente.
«Ma cosa dici, Joy? Tu sei l'unica.» Sentenziò subito, dandole un pizzicotto sulla guancia e accarezzandole la testa. Conosceva la durata media delle crisi della piccola e le ricordava fin troppo bene per volerle causare. Chuck, però, sembrava più divertito da quel quadretto e non si trattenne dal fare un altro dei suoi commenti ironici. A pensarci, notò Thomas, quel fetente incarnava alcuni lati di Newt e di sé stesso. La cosa lo divertiva, ma allo stesso tempo lo inducesse a riflettere.
«Certo, puoi davvero dormire serena. Sei davvero l'unica! A!» Ripeté, soffermandosi sulla "A". Chuck aveva capito tutto prima di tutti: si riferiva al fatto che Joy fosse l'unica bambina, l'unica ragazza, l'unica figura femminile a cui Thomas desse importanza nella sua vita.
«Buon per te, Thomas. Non ho intenzione di dividerti con nessuno, sappi che nessuno mangerebbe questo minestrone per farti felice. Io, invece, l'ho quasi finito.» Civettò, dando una testata al braccio dell'agente, come un gattino in cerca di affetto.
Edison le rispose con un sorriso tacito e si complimentò minuti dopo, quando Joy mandò giù l'ultimo boccone; poi, però, urlò per il disgusto e si pulì la lingua con decine di tovaglioli. Le riempì diversi bicchieri di spremuta d'arancia per cercare di spazzare via l'orrendo retrogusto. A differenza del primo piatto che avevano scelto al bancone, altri inservienti, con tavolini d'acciaio mobili, portarono il secondo tra i tavoli. Quando Thomas li scorse, li presentò ironicamente e Chuck, vedendo quell'obbrobrio, non poté fare altro che rimpiangere i vecchi tempi;
A quel triste scenario, Charles non poté che rimpiangere i vecchi tempi; «Ah, quanto mi manca lo stufato di Siggy...» Sussurrò, con il braccio sinistro che teneva la testa china e fissa sul piatto.
Non si accorse di aver pronunciato ad alta voce quel pensiero, convinto di averlo detto solo nella sua testa o a voce talmente bassa che Thomas, preso dalle sue mille riflessioni, non ci avrebbe fatto caso. Ma, anche se concentrato nell'afferrare una patata ribelle che sfuggiva alla sua forchetta, Edison si fermò d'un colpo, in guardia e sospettoso. Dove aveva già sentito quel nome? E perché lo aveva già sentito?
Aggrottò la fronte, cercando di andare indietro nel tempo, nei ricordi umani e in quelli del chip.
«Che c'è? Ti stai sentendo già male? Scommetto che sono gli effetti collaterali del minestrone.» Chuck bisbigliò diverse cose, ma la testa di A2 era concentrata altrove, intenta a scavare nei meandri della sua memoria. Ricordava poco, ma sapeva per certo che non si trattasse di un nome amico. Se l'aveva sentito, non era stato in una circostanza positiva: insomma, non gli suscitava belle emozioni, forse—o quasi certamente—era legato alla criminalità, al nemico. Ma come poteva essere? Era davvero credibile l'ipotesi che, poco prima, in mattinata, aveva messo in piedi con Jorge? Di Chuck non c'era da fidarsi?
Il suo lavoro, il suo compito da agente della CIA, lo costringeva ad analizzare, a collegare i punti, a vedere ciò che gli altri non vedevano, a sospettare dell'insospettabile.
Aprì l'ologramma del chip, cercando un filo logico tra le informazioni, ma sembrava che tutto fosse offuscato da una nebbia mentale che non riusciva a dissipare. I sospetti che aveva accumulato nei giorni precedenti ora si stavano facendo più forti, più urgenti. Non era più solo una questione di capire chi fosse davvero il nemico, ma di capire come i pezzi del puzzle si incastrassero, chi stesse manovrando tutto dietro le quinte, e perché.
La sua mente correva a mille all'ora, saltando da un possibile scenario all'altro, come se fosse sulla corda tesa tra il disastro e la rivelazione. Ogni indizio lo portava più vicino a una verità che non voleva affrontare, ma che sapeva di dover scoprire. E più cercava di fare chiarezza, più il respiro si faceva affannoso, come se l'intera situazione gli stesse bloccando il fiato, come se il tempo stesso stesse cercando di stritolarlo.
Ma i pezzi del puzzle continuavano a sfuggirgli. E mentre la sua mente cercava di riorganizzare i fatti, una consapevolezza angosciosa lo invadeva: ogni passo che faceva per avvicinarsi alla verità lo allontanava anche dalla sua sicurezza. Sospetti, pericoli, alleanze tradite, inganni – tutto sembrava intersecarsi in un'unica, vasta rete di inganni.
Thomas lo sapeva: doveva essere pronto a tutto, perché ogni risposta avrebbe generato nuove domande, e ogni risposta lo avrebbe avvicinato sempre di più al rischio di non tornare indietro. Inspirò lentamente per poi abbozzare un sorriso di circostanza, una delle sue solite maschere, fingendo che non fosse accaduto nulla;
«No no, Chuckie, sto ancora benone, tu, invece, cosa sceglierai per secondo? Tacchino con carote o ...» Lasciò in sospeso per creare la giusta suspence, e divertendosi per illudere il piccolo Chuck che nel menù vi fosse qualcosa di più appetitoso. «Carote con tacchino?» Per quanto fosse migliore del primo, non si risparmiò comunque ad abbozzare smorfie davvero esilaranti, che fecero sorridere la piccola Joy al punto da farla distogliere dalla notizia di poco prima.
A parte qualche dettaglio che non tornava, come il mistero dietro l'innocenza o la colpevolezza di Chuck, se Thomas avesse dovuto descrivere la felicità, avrebbe senz'altro incluso quel momento di battibecchi divertenti tra i due bambini, e quel pranzo in mensa, assurdo quanto orribile. Sarebbe stato un aneddoto super divertente da raccontare a Newt, ma a che pensava...il suo collega era con quel Richard...
"A fare fisioterapia", aggiunse una vocina nella sua testa, cercando di imporsi autocontrollo, ma fu inutile. Per tutta la mattina e il pomeriggio, nonostante fosse distratto dalle coccole di Joy—che adorava—e dai commenti interessanti di Chuck, la sua mente tornava sempre alla stessa domanda: Cosa sta facendo Newt? Dove si trova?
Distratto, dopo pranzo, mentre erano tutti e tre nella sala del disegno e Joy lo interrogava sulle tabelline, sbagliò più volte, suscitando risate nei bambini, che ne sapevano più di lui. Per vendicarsi e distogliersi dall'imbarazzo, iniziò la battaglia del solletico, che inizialmente vide tutti contro tutti, ma presto i due bambini, con uno sguardo d'intesa, decisero di fare squadra contro di lui.
«È ingiusto! Già siete troppo forti da soli, ora anche insieme! Povero me!» Lagnò, cadendo goffamente all'indietro sulla pila di cuscini sparsi. Trattenne il respiro, inscenando la sua morte, ma non bastò a fermare le due pesti, che si gettarono su di lui, rischiando di soffocarlo.
Quella giornata era rimasto con loro non solo per recuperare il tempo perso con Joy o per attendere l'esito delle analisi di Chuck, ma perché la loro compagnia gli dava coraggio, quello che gli serviva per affrontare finalmente il suo collega.
Le coincidenze di quella giornata erano troppo evidenti, anche per uno scettico come lui che non credeva nei segnali del destino: dalla conversazione con Jorge all'alba, all'imprevisto in ospedale, alla coincidenza di trovarsi nello stesso posto alla stessa ora. Tutto sembrava portare a un'unica conclusione: un incontro con Isaacs Newton, che non poteva più procrastinare.
Quando lo aveva trovato tra le braccia, in un modo totalmente inaspettato, si era sentito scombussolato, sorpreso dagli scherzi del destino. Voleva ridere per gli sforzi che aveva fatto per stargli lontano, reprimendo ogni impulso di avvicinarsi per poi, inevitabilmente, soccorrere un ragazzo che stava per cadere dalle scale.
Non aveva capito subito che fosse Newt. Non l'aveva nemmeno immaginato, e questo lo faceva impazzire, facendogli capire quanto fossero legati e quanto inutili fossero stati gli stratagemmi per stargli lontano.
Da lontano, gli era sembrato un semplice teenager imbranato. Con quell'outfit, la felpa over rossa, non somigliava affatto al solito Isaacs elegante e perfetto. Non c'era traccia dei suoi completi stirati. Era abituato a vederlo con camicia e pantaloni, non con jeans larghi.
Incontrarlo così era stato scioccante. Anche lui doveva averlo trovato spiazzante. Entrambi erano rimasti senza parole, ma la lotta interiore era iniziata. Per Newt, rabbia; per Thomas, frustrazione e dispiacere per non esserci stato.
Thomas sapeva che dire al suo protettore la verità non sarebbe bastato, e quindi era rimasto lì, bloccato dallo shock, mentre i loro respiri li avvicinavano, permettendo ai loro petti di sfiorarsi appena, Edison irrigidì la mascella, colto dall'imbarazzo. Poche ore prima lo aveva immaginato nudo nella sua doccia, e ora lo teneva tra le braccia, il corpo esile che scompariva nella felpa. Tutto sembrava così maledettamente reale. Era inevitabile non fantasticare in quel momento, e per brevi istanti, senza accorgersene, lo fece. Ma la magia del momento fu interrotta da Stewart che lanciò a Newt uno sguardo loquace, che non lasciava dubbi sulle sue intenzioni.
La realizzazione di un moto di gelosia che stava crescendo in lui in maniera incontrollabile bastò per far scoprire a Thomas che mantenere il controllo non rientrava tra le sue virtù. Non ricevere risposta su dove fosse Stewart lo fece andare fuori di sé. Si rinchiuse in bagno e scagliò pugni contro le pareti, provando a calmarsi. Ma, come se non bastasse, perché i brutti momenti non giungevano mai da soli, il suo piccolo e insignificante cellulare—che Jorge gli aveva dato nel caso qualcuno hackerasse il sistema del chip—vibrò nella tasca dei pantaloni.
"Hermano," Debuttava il messaggio, e subito capì chi fosse il mittente. "Ho pensato di agevolarti il lavoro, con il trovatello del bordello. Ho visionato le telecamere del dormitorio, e guarda caso hanno avuto tutte un problema, tranne una sul retro. Inquadra un uomo abbandonare l'edificio come un ladro. La cosa strana? Non ha un passamontagna, ha il viso scoperto e ha guardato in alto per diversi secondi, permettendomi di scattare un fotogramma ben visibile. Due sono le cose: o è troppo stupido..."
«O lo ha fatto per farci sapere che è stato lì.» Concluse Thomas, a bassa voce. Jorge non lo aveva scritto, ma sapeva che la frase sarebbe proseguita così.
"Ti mando un MMS, forse lo conosci o puoi scovarlo grazie al chip."
Thomas inspirò profondamente. Forse stavano per arrivare a un punto di svolta. Attese diversi minuti, ma non arrivò nulla, né al chip né al suo telefono. Preoccupato, iniziò a camminare avanti e indietro per l'antibagno. Era impossibile che Jorge non sapesse inviare un file. E se gli fosse successo qualcosa? O magari era una trappola? Avrebbe voluto chiamarlo, ma Joy continuava a chiamarlo fuori dalla porta.
«È da parecchio lì dentro, spero non venga anche a me. Odio il mal di pancia.» Mormorò, con uno sguardo abbassato.
«A chi lo dici, soprattutto quando le puzzette sono letali e ti sembra di morire soffocato.» Rincarò Chuck, disgustato.
«Bleah.» Rispose la bambina, con il naso tappato, parlando più con il viso che con le parole.
«Ma tu che ci fai qui in ospedale? Non sembri malata...» Chiese Chuck a Joy, con l'ingenuità dei bambini; si fermò subito dopo, rendendosi conto di quanto fosse stato indelicato, Joy fece per aprire bocca, ma proprio in quel momento Thomas uscì dal bagno. Notò subito la vena ingrossata sulla fronte.
«Non hai una bella cera, amico...» Ammise a bassa voce, osservandolo preoccupato. «Stai bene? Hai le guance rosse e sei sudato.»
"Ha proprio un brutto mal di pancia", pensò Chuck. Edison cercò di rassicurarlo con un sorriso poco convincente, poi fece salire Joy sulle sue spalle e si incamminò, diretto chissà dove. Chuck non poté fare altro che seguirlo.
Presto capì che non c'entrava nulla il mal di pancia: era solo la gelosia incontrollata di Thomas verso il suo collega, che ormai stava da ore con qualcuno che non fosse lui.
***
«Mi dispiace, ma il dottore è momentaneamente occupato.» Informò la segretaria distogliendo rapidamente lo sguardo dallo schermo del computer. L'aria fredda e professionale che emanava dal suo tailleur grigio e nero non sembrava lasciare spazio a discussioni. I piccoli occhi azzurri nascosti da lenti spesse e cordoncini degli occhiali troppo sgargianti le conferivano un aspetto di distacco.
Thomas aveva spiegato di essere lì per una visita riguardante il suo ginocchio destro, dolorante a causa di una caduta. Non poteva certo dire che stava benissimo e che la sua vera intenzione era parlare con Newt; Chuck e Joy, nel tentativo di rendere più credibile il suo racconto, avevano aggiunto che la colpa era loro, e che mentre stavano giocando, Thomas aveva perso l'equilibrio e si era fatto male, ma la donna, ormai visibilmente disinteressata e incapace di seguire il filo del discorso, li liquidò rapidamente, mostrando un'indifferenza che non fece altro che aumentare la frustrazione di Thomas.
«Mi stia a sentire, dalle undici di stamattina a chiunque io chieda di questo medico mi dicono che è momentaneamente occupato. Le faccio notare che sono le otto di sera e il ginocchio non mi dà scampo!» Sputò acido, puntando l'orologio alla parete, che la segretaria, con occhi poco interessati, seguì solo per un attimo.
«Posso sapere cosa sta facendo? È un fisioterapista. Non voglio sminuire la sua mansione, ma credo che ci siano altri medici che non hanno nemmeno il tempo di respirare. Cosa fa per essere così costantemente impegnato?» Alzò il sopracciglio destro per la rabbia, e il tono della sua voce, più alto del normale, non lasciava dubbi sul suo disappunto. La mano stretta in un pugno suggeriva chiaramente che era pronto a sfogarsi.
La donna gli chiese di mantenere la calma. Anche Chuck, che stava osservando la scena, cercò di intervenire, tirandolo per il mantello con un messaggio sibilato: «Cerca di contenerti, è palese che ti rode.»
Edison ignorò completamente l'intervento del suo piccolo amico, smorzando un sorriso seccato. Cominciò a mordersi il labbro inferiore, facendo una smorfia di impazienza, mentre tamburellava nervosamente con le dita sul bancone. Nel frattempo, Joy gli tirava un capello fuoriuscito dalla sua maschera, facendo di tutto per distoglierlo dalla sua frustrazione.
«Senta, capisco che il ginocchio le fa male, ma il dottor Stewart riceve solo su appuntamento. Deve aspettare come tutti gli altri pazienti.» La segretaria insisteva, senza mai alzare lo sguardo dal suo lavoro. Stringeva una cartellina tra le mani, su cui appuntava velocemente alcune note.
«E questo è il punto! Non vedo nessun altro paziente! Che senso ha ricevere solo su appuntamento? Dovrei prevedere di farmi male e prenotare prima?» Thomas sbottò, ma subito si rese conto che la sua frase era poco comprensibile. Chuck aggrottò la fronte, visibilmente confuso, e la segretaria e Joy sembravano altrettanto perplesse.
«Sarà uno dei soliti scansafatiche, rinchiuso nel suo ufficio a non fare nulla.» Thomas osò, sperando che la segretaria fosse abbastanza ingenua da rivelare qualcosa in più, una verità che avrebbe potuto infrangere il segreto professionale.
«Le assicuro che non è così.» lo contraddisse immediatamente, pronta a difendere il medico. Sputò la gomma da masticare, la arrotolò con precisione in un pezzo di carta e la gettò nel cestino. «Il dottor Stewart ha avuto un paziente oggi e...» Si fermò, mentre i suoi occhi azzurri scorrevano su un foglio, cercando di reperire il nome del paziente.
«Uno solo, sì, oggi c'era soltanto il signor Isaacs.» Disse infine, con voce un po' confusa, come se temesse di aver detto qualcosa di sbagliato. A2 notò subito la sua esitazione. Era stato chiaro fin da subito che Newt fosse al centro dell'attenzione di Stewart, gli occhi con cui lo aveva guardato in mattinata erano stati abbastanza eloquenti.
«Se mi dà nome e cognome, posso vedere di inserirla per domani...» La segretaria fece un tentativo di risolvere la situazione, ma il suo tono ormai sembrava più formale che cordiale, timorosa per il silenzio di Thomas. Lo fissò, aspettandosi una risposta.
«Batman.» Suggerì Joy, divertita, mentre era seduta sulle spalle di Thomas. «Non è ovvio?» Aggiunse, mentre gli dava piccoli pizzicotti sulle guance, per poi massaggiarle con movimenti circolari, facendo scivolare la maschera.
Thomas fece spallucce, incapace di resistere al gioco di Joy, mentre la segretaria, forse intenerita dal comportamento della bambina, spostò lo sguardo sul suo computer. Inspirò ed espirò lentamente per cercare di calmarsi, la piccola poteva anche torturarlo, ma la sua rabbia era alimentata da ben altro. Si schioccò le dita una per una, un piccolo gesto per distogliere la mente dalla frustrazione. Non voleva dare sfogo alla sua irritazione, ma il suo atteggiamento si faceva più teso ad ogni respiro.
Si avvicinò leggermente al bancone, picchiettando con le dita sul plexiglass che li separava, e parlò a bassa voce, cercando di non lasciar trasparire troppo della sua crescente impazienza.
«Cortesemente, mi faccia sapere dov'è Stewart. Per favore.» Enunciò di colpo, omettendo "dottore". Poi ci rifletté: c'era troppa ostilità nella sua voce, ma cercò di mascherarla con un "per favore" finale. Ah, quanto gli pesava quella gentilezza, ma era necessario mostrarsi cordiale, visto che dinnanzi a lui c'era una donna già restia, che sembrava non voler accondiscendere. Poi, improvvisamente, inaspettato quanto un miracolo, alzò la cornetta del telefono e cominciò a comporre una serie di numeri. Era stata Joy a intenerirla? O era stanca di loro tre?
Fatto sta che erano riusciti nel loro intento, Thomas riconobbe la voce del medico dall'altro lato, ma non le parole. La ragazza gliele riportò dopo aver concluso la telefonata.
«Sta discutendo con un collega riguardo le condizioni di un suo paziente. Può aspettarlo qui o, se preferisce prendere un po' d'aria, lo può aspettare in terrazza. Tra poco, ho sentito che si recherà lì. Faccia presto, o rischia di perderlo, ha specificato che cenerà fuori e non vuole essere disturbato da nessuno.» Riportò testualmente, aggiungendo troppi dettagli. Thomas arricciò il labbro inferiore, imbestialito.
Chuck fece una smorfia, non trattenendosi dal dire ironicamente: «Che bel medico.»
Thomas pensò lo stesso, ma restò concentrato. Deciso, andò dritto al sodo, ponendo la domanda che lo terrorizzava. Non gli sarebbe importato ricevere qualche rimprovero da quella per essersi immischiato in faccende che non lo riguardavano.
«Bene, ho bisogno di sapere se il paziente è ancora qui.» Chiese con fiato corto. A "il paziente" un brivido lo travolse, immaginandosi il volto di Newt. Se si trovava ancora lì, doveva dirgli tutto, abbattere le mura che si erano create tra loro, o almeno provarci.
La voce smossa tradiva la tensione impossibile da nascondere.
I sentimenti avevano ormai preso il sopravvento, inarrestabili. Era possibile che Newt fosse già uscito dall'ospedale ore prima senza che lui se ne fosse accorto? Dio solo sapeva quanto avesse camminato e corso per la hall e i piani, con scuse ridicole per giustificare la sua presenza dove non era necessaria, solo per incrociarlo di nuovo. Ma a differenza di quanto era successo prima, per sbaglio, dal nulla, l'ospedale sembrava essersi ingigantito, diventando un labirinto.
La ragazza aggrottò la fronte, confusa. Era palese cosa si stesse chiedendo: cosa c'entra il paziente? Ma dovette comprendere la delicatezza della situazione e rispose in modo esaustivo.
«Sì, altrimenti avrebbe firmato l'uscita. È obbligatorio che lo faccia. Ma adesso cosa c'entra, scusi?» Domandò, interdetta. Grazie all'ultima precisazione, Thomas non dovette nemmeno esporre il suo dubbio: "Se Newt fosse andato via dimenticando di firmare?", ma cestinò subito quell'incertezza, ansioso per altro.
Adesso restava solo da capire dove si trovasse. Sperava vivamente che non fosse ancora con il medico, perché lui era al bancone fuori dallo studio. Se avessero aperto la porta in quel momento e si fosse trovato lì... sarebbe stata una gran bella figura.
«Stia tranquillo. La fisioterapia del paziente Isaacs è finita. Prima che scappino per la cena, il dottore troverà un minuto per lei, è molto disponibile.» La frase suonò disturba, ma il plurale lo colpì particolarmente. Dopo la visita, non avrebbero dovuto cenare ognuno a casa propria?
E poi... "molto disponibile". Quell'accostamento gli fece bollire il sangue. Era così disponibile che a Newt avrebbe dato anche altro, se lui non l'avesse fermato. Le mani strette in pugno lungo i fianchi cercavano di reprimere l'accesso di collera, mentre la testa cominciava a girargli vorticosamente al solo pensiero di quei due in atteggiamenti poco appropriati.
Mandò giù un groppo di saliva e poi sorrise, ma Chuck capì subito tutto. Joy, che non vedeva il viso di Thomas, si limitò a sistemargli i capelli che sbucavano dalla maschera.
«Grazie.» Disse, cercando di celare il fastidio. «Adesso vado, è meglio che mi sbrighi.» Continuò, più per convincere la donna di fronte a sé che per sé stesso.
La ragazza mosse il capo in segno di assenso, confusa da un comportamento simile. Non le era mai capitato che un paziente, invece di cercare il medico per risolvere un problema al ginocchio, cercasse il paziente precedente. Ma in fondo, quei tre non le erano sembrati normali fin dall'inizio. Aprì il pacchetto di gomme e iniziò a masticarne un'altra, dimenticando già l'accaduto.
Quando si allontanarono dal bancone, l'agente si abbassò sulle ginocchia, il viso all'altezza di quello di Chuck.
«Questa cosa devo farla da solo.» Avvisò con tono fermo, fissando Chuck negli occhi. Appariva stanco, mentre Joy, ancora carica sulle sue spalle, giocava con le finte orecchie e canticchiava canzoni di cartoni animati.
«Sembra che stai per andare in guerra, Tom.» Realizzò Riccioli di cioccolato, guardandosi intorno.
A2 si rese conto di quanto quella frase detta tanto per poteva essere vera: ammettere i propri sentimenti era come andare in guerra e quasi certamente morire sul campo di battaglia.
Abbozzò un sorriso di circostanza, scompigliandogli ancora una volta affettuosamente la chioma folta e dandogli un pizzicotto sulla guancia.
«Beh, una specie... Posso affidarti Joy? Devi solo accompagnarla nella sua stanza, tra un po' non potete più gironzolare. Tieni questi.» Gli porse una banconota, e immediatamente lo sguardo di Chuck divenne attento e luccicante.
«Se hai fame, vai al distributore a prendere dei crackers non salati e nient'altro.» Sottolineò con tono protettivo. «Le tue analisi non sono ancora arrivate, e dobbiamo capire cosa c'è che non va. Nel frattempo, niente cibo spazzatura.»
Charles aprì la bocca per ribattere, pensando a quanto schifo avessero mangiato alla mensa, ma Thomas lo fermò subito: «Non obiettare, sei abbastanza maturo per capirlo. È per il tuo bene. Ora però, ho bisogno di un piccolo consiglio.»
In quel momento si aprì una porta con un fastidioso cigolio alle loro spalle, Chuck che era frontale, a differenza di Thomas, guardò attento.
«È quello lo stronzo?» Sibilò, guardando verso destra. C'erano diverse persone, ma Edison colse subito la figura di Richard Stewart anche se non indossava più il camice, bensì un cappotto color cappuccino che gli arrivava appena sopra il ginocchio. Stava parlando animatamente con un collega; forse stavano discutendo delle condizioni di Newt, o della sua caviglia, ma erano troppo lontani per ascoltare. Quel che catturò davvero la sua attenzione, tuttavia, fu che di Newt non c'era traccia.
Un'inquietante sensazione lo assalì, ma non sapeva se quella fosse una buona o cattiva notizia. Tornò rapidamente a fissare Chuck, posando le mani sulle sue spalle.
«La domanda è: quando qualcuno prende qualcosa che ti appartiene, che fai?» Sussurrò, sentendosi un po' stupido a chiedere un consiglio a un bambino.
Chuck si guardò intorno, ma non ci mise molto a capire a cosa si riferisse. Non si era mai trovato in un triangolo amoroso e sperava di non doverlo affrontare mai, ma ipotizzò: «Me la riprendo.»
«Sì, immaginavo... Ma come?» Insisté Thomas, facendo scendere Joy dalle spalle. La piccola aveva iniziato a tirargli le orecchie, e mentre lo faceva, lui non era più di umore per scherzare.
«Mettendo l'avversario fuori gioco.»
«Fuori gioco?» Ripeté il più adulto, confuso.
«Esatto, impediscigli di giocare. Non farlo scendere in campo.» Chuck alzò le sopracciglia, lasciando intendere un altro suggerimento che Thomas colse subito, come "non pensare di giocare legalmente". Si voltò verso Stewart, ancora intento nella sua discussione con il collega. Borbottò qualcosa che i due non riuscirono a sentire, ma sembrava il primo passo di un piano che doveva escogitare in fretta.
«Perché voi maschi parlate in codice?» Chiese Joy, osservando la loro tacita comunicazione. Mentre aspettava una risposta, si annoiava, girando una ciocca di capelli tra le dita.
«Non è un codice, ma quando sarai più grande, anche tu parlerai così con le tue amiche. Ora però, mi raccomando, state attenti e non fate guai. Posso stare tranquillo?» Si raccomandò Thomas, cercando di rassicurarsi. Anche se sapeva che i bambini erano svegli, la loro imprevedibilità non gli dava mai certezza.
Charles, un po' riluttante, tese la mano, ma Joy la ignorò e lo abbracciò stretta.
«Tornerai presto, vero?» Mugolò nell'incavo del collo, appoggiando la fronte sulla spalla di Batman.
«Certo, piccola, il tempo di chiudere gli occhi e sarò di nuovo qui.» Thomas la staccò gentilmente da sé e le diede un bacio affettuoso sulla guancia. Si salutarono, e questa volta fu Joy a tendere la mano a Chuck, che la prese volentieri. Batman si alzò in piedi e si voltò, quasi scontrandosi con Stewart che camminava veloce.
«Dottore!» Lo chiamò la segretaria da dietro la scrivania, alzandosi in piedi. Il medico si fermò.
«Il signor... il signor...» Pausò, confusa, perché Thomas non le aveva detto il suo nome. «Il signor Batman, la cercava per dirle...» Balbettò, imbarazzata per aver pronunciato "signor Batman". Arrossì al suo sguardo indagatore, ma Thomas non si perse nei convenevoli.
«Una cosa molto importante.» Troncò con un sorriso falso, ma ampio, cercando di attrarre l'attenzione di Stewart e impedire che la segretaria rivelasse dettagli del suo "finto" dolore al ginocchio.
Il medico inclinò la testa, prestando attenzione. Nel frattempo, i bambini si erano già allontanati, diretti alle loro stanze.
Thomas si avvicinò e gli diede una rapida e falsa pacca sulla spalla, come per invitarlo a camminare insieme e allontanarsi dalla segretaria ficcanaso. Non aveva pensato troppo alla situazione, l'idea gli era venuta d'istinto.
«Da parte del signor Isaacs.» Disse con sicurezza.
Quando sentì quel nome, il medico si irrigidì, drizzò le orecchie e spalancò gli occhi. «Cosa gli è successo?» Chiese subito.
"È davvero così facile, Stewart? Ti facevo più sveglio" pensò Thomas, "sei proprio un pollo."
Si grattò la nuca, sentendo la fastidiosa pressione della maschera che aveva indossato tutto il giorno. «Nulla di preoccupante...» Rispose, fermandosi in un piccolo corridoio davanti all'ascensore. «Ma è tornato a casa. La stavo aspettando per dirle questo.»
Il medico aggrottò le sopracciglia, visibilmente perplesso. Rimanendo in silenzio, iniziò a massaggiarsi il mento, riflettendo sulla strana quanto inaspettata informazione.
«È tornato a casa?» Ripeté, scettico. «Eravamo rimasti che mi aspettava sul terrazzo.»
Thomas abbassò gli occhi, un altro colpo. Quando la segretaria gli aveva parlato della cena, sperava fosse un malinteso. Ora, con la conferma, la ferita bruciava più che mai.
«Sì, lo so...» Mentì, fissando un punto davanti a sé. Se avesse guardato il medico negli occhi, lo avrebbe colpito.
«Purtroppo la caviglia ha cominciato a farsi sentire, e sommata alla stanchezza della giornata...» Fece una pausa, alzando lo sguardo per un momento, ma quando incontrò quello del medico, si paralizzò. Non sembrava convinto. Perché?
«Lei mi sta mentendo,» disse il medico, con tono rigido. Thomas deglutì. Non temeva il medico, anzi, se fosse stato provocato, temeva più sé stesso per una scenata di gelosia. «A Newt è successo qualcosa, vero? Non vuole farmi preoccupare...»
Il medico lo chiamava già per nome, e questo lo infastidiva. Da quanto tempo si conoscevano? Eppure sembrava che non ci fosse più distanza tra medico e paziente. Come aveva anche il suo numero di telefono?
I polpastrelli di Thomas cominciarono a prudere, ma si trattenne, respirando profondamente. Se non avesse mantenuto il controllo, sarebbe successo il finimondo, ricordava ancora quanto avevano fatto male i pugni scagliati contro le mattonelle del bagno poche prima, aveva dovuto anche fasciarsi la mano destra prima con della ridicola carta igienica per fermare la fuoriuscita breve di sangue e poi con una garza appropriata in infermeria.
«No, no, sta bene. Eravamo insieme sul terrazzo, poi ha avvertito dolore alla caviglia. Non ci ha pensato su due volte ed è tornato a casa. Mi ha chiesto di accompagnarlo fuori dall'ospedale e se n'è andato.» A2 parlava con apparente seccatura. «Mi ha anche detto di avvisarla del cambio di programma, visto che odia la tecnologia e i messaggi. È un tipo strano.»
«Già...completamente diverso.» Il medico sorrise sospettoso, chiaramente incuriosito da Newt. Thomas non aveva dubbi: ora tutte le sue preoccupazioni si stavano concretizzando, quello ci avrebbe provato spudoratamente. «Non capisco, avrebbe potuto avvisare la mia segretaria, per lui mi sarei liberato, avrei finito prima.»
Edison fece spallucce, come se non avesse parole per giustificare quella stranezza.
«Peccato. Se me ne avesse dato modo, l'avrei accompagnato io stesso. Ora gli mando un messaggio per vedere come sta.» Il medico, deciso, cominciò a scrivere sul suo smartphone.
A2 tentò di fermarlo, ma in modo sottile: «Anche io ho avuto problemi di linea poco fa. Le consiglio di uscire dall'ospedale, vedrà che il telefono funzionerà, anche se...» Fece una pausa, sforzandosi di sembrare sincero. «Meglio non scrivere nulla se spera di avere qualche possibilità.»
Il medico si fermò un attimo, poi abbassò lo sguardo. «Farò così, allora. La ringrazio, è stato molto gentile.»
L'agente, sorridendo, trattenne un senso di soddisfazione che quasi lo travolse. Si sentiva come se avesse vinto un piccolo scontro. Quando le porte dell'ascensore si aprirono, il medico chiese con tono cortese: «Scende con me?»
Thomas, fingendo una nota di rammarico, rispose: «Nah, il lavoro dei supereroi continua, sa com'è... Noi non riposiamo mai.» Dandogli un piccolo pugno sulla spalla, quasi scherzando, ma con troppa forza, tanto da far perdere equilibrio al medico.
«Scusi, ero troppo calato nel personaggio,» aggiunse con un sorriso sornione, cercando di alleggerire la situazione. «Mi ha fatto venire in mente Joker, con il camice, nei film di Nolan.»
Il medico lo guardò incuriosito. «È un complimento?» Chiese, senza capire il riferimento.
Batman lo guardò per un attimo, incredulo. «Complimento? Joker è uno dei più grandi antagonisti... Ma sì, se lo vuoi prendere come tale.» Sì riferì volontariamente con il "tu", e accompagnò a quella frase derisoria un sorriso falso, mentre quello continuava a salutarlo cordiale.
Quando l'ascensore si chiuse, rilassò la schiena contro il muro, il cuore che finalmente rallentava come se avesse appena superato un'onda di tensione.
Ciò che importava adesso era che la battaglia con Stewart era stata vinta, ora c'era una guerra da affrontare, quella con sé stesso. Un pensiero lo tormentava in silenzio: riprendersi quello che gli apparteneva da sempre, quello che solo ora sembrava chiaro, e sperava solo che non fosse troppo tardi.
Immerso nei suoi pensieri, su come avrebbe iniziato una conversazione con Newt quando se lo sarebbe trovato davanti, non si accorse del passo frenetico di un'infermiera che si avvicinava a lui. La ragazza, dai tratti asiatici, aveva i lunghi capelli neri raccolti in una coda bassa, e portava con sé una calma apparente, un sorriso che voleva sembrare rassicurante. Quando si fermò davanti a lui, il suo volto si fece serio, ed il suo tono si abbassò di una nota, rivelando preoccupazione.
«Mr. Edison, sono arrivati i risultati delle analisi del piccolo Charles... Ma, la diagnosi... ci lascia un po' perplessi.»
La sua voce tremò appena, Thomas la guardò intensamente, la curiosità che si accendeva in lui come una fiamma. «In che senso?» domandò, cercando di mantenere il controllo, ma il suo sguardo tradiva la crescente inquietudine.
«Charles è andato in anafilassi.» Avvisò, senza giri di parole, e Thomas l'apprezzò. Grazie alle sue capacità potenziate dal chip, capiva perfettamente i termini medici tanto da documentarsi in pochi secondi e sapere tutto: dal significato della terminologia alle cause e le conseguenze.
La sua mente cominciò a lavorare velocemente, la fronte aggrottata mentre guardava fisso la ragazza, ma i suoi pensieri erano lontani, alla ricerca di risposte. Ha bevuto del tè... è possibile che fosse allergico a qualcosa che ha mangiato? Pensò ad alta voce, ma la ragazza negò;
«Lo escludiamo,» rispose, interrompendo il suo flusso di pensieri. «Il caso di Chuck è diverso. Generalmente l'anafilassi si verifica per tre cause: allergie alimentari, punture di insetti, o reazioni iatrogene...Le prime causano l'arresto cardiaco e respiratorio in mezz'ora, le seconde in quindici e...le reazioni iatrogene-»
Thomas, senza aspettare che finisse, anticipò le sue parole con naturalezza. «Cioè allergie a farmaci...In quel caso l'arresto cardiaco e respiratorio avviene in cinque minuti.»
Lei annuì lentamente. «Esatto. La questione è che Chuck non ha preso nessun farmaco, e le sue educatrici hanno giurato di non averglielo somministrato. Non era nemmeno presente nel dormitorio.»
La mente di Edison cominciò a correre, il suo sguardo si concentrò ancora più intensamente sulla ragazza, ma la confusione cresceva. Cosa mi sfugge? Cosa non sto vedendo? pensò. I pezzi del puzzle stavano cominciando a formarsi, ma mancava ancora qualcosa. Non poteva permettersi di lasciarsi sfuggire l'errore.
«Un attimo...» disse, alzando l'indice per fermarla, poi si voltò rapidamente e si allontanò senza dire altro. L'infermiera rimase perplessa, incapace di capire cosa fosse successo, mentre Thomas si fiondava fuori dal corridoio, le sue gambe che sfrecciavano come razzi verso la destinazione che aveva in mente.
Quando finalmente raggiunse la stanza di Chuck, ignorò il fiatone.
Entrò senza bussare, ansioso di vedere il ragazzo, quando lo trovò ancora sveglio, seduto vicino alla finestra, una leggera ondata di sollievo lo travolse.
«Chuck!» urlò, il tono carico di urgenza. Il bambino si voltò, sorpreso, gli occhi appannati dal sonno.
«Thomas,» rispose con voce bassa e un po' assonnata.
L'agente non perse tempo. «Abbassa i pantaloni,» disse, con tono secco e deciso.
«Che cosa?» Chuck balzò dalla sorpresa, gli occhi spalancati, le guance rosse d'imbarazzo. «Mi hai confuso con il tuo ragazzo, per caso?» chiese, incredulo, il suo volto un misto di timidezza e paura.
«Non fare lo stupido, abbassa i pantaloni, non guardo le mutande con Peppa Pig sopra, sbrigati! Devo guardare una cosa sulla tua gamba. È di vitale importanza, sto parlando della tua vita.» Il tono di Thomas non ammetteva discussioni. Chuck, pur nervoso, capì che quando Thomas parlava in quel modo, non era il momento di fare domande o perdere tempo con scherzi stupidi.
Con un nodo alla gola, Chuck fece quello che gli veniva chiesto, abbassando i pantaloni del pigiama blu notte, decorato con il Grinch, dopotutto era dicembre.
Quando l'agente vide la gamba del ragazzo, la conferma delle sue ipotesi fu immediata. Un piccolo foro, appena visibile, sulla pelle. E un altro sul collo.
Il suo sospetto era fondato e mentre da un lato era rassicurato per averlo capito subito, dall'altro era profondamente terrorizzato.
Qualcuno aveva iniettato a Chuck un farmaco letale tramite una siringa, qualcosa che gli avrebbe causato un arresto cardiaco e respiratorio in pochi minuti. Poi, per salvarlo, gli avevano fatto subito un'iniezione. Ma chi era stato così subdolo? E perché?
Seppur non del tutto chiaro, era comprensibile che fosse qualcuno che lo conosceva molto bene, al punto da sapere a quale farmaco fosse allergico mortalmente. Ma chi poteva volerlo morto un attimo prima per poi salvarlo un secondo dopo? Qual era il senso?
Si fermò un attimo, a ragionare.
Sicuramente non era nessuno del dormitorio, ma qualcuno all'esterno, un vecchio contatto, magari appartenente al passato.
Ragionò ancora, perplesso, la sua mente era altrove, mentre in sottofondo le orecchie sentivano distrattamente le lamentele di Chuck che guardava scettico e spaventato dei fori sulla proprio pelle, continuava a dire di non ricordare nulla, nemmeno il dolore e il terrore della vista dell'ago.
Qualcuno doveva averlo stordito con qualche sostanza nel thè, per poi iniettargli nel collo il farmaco letale, causargli l'arresto cardiaco e infine iniettargli il salvavita. Nulla aveva senso. Assottigliò lo sguardo, amareggiato. Lui era Thomas Edison, risolveva sempre ogni enigma, e come conferma inaspettatamente una lampadina gli si illuminò.
Forse, la risposta a quell'inquietante domanda si nascondeva nella foto che aspettava da Jorge e che stranamente ancora non era arrivata.
***
Era ormai sera. In terrazza non c'era più la calura della mattina, quella stessa calura che, insieme a sua sorella, l'aveva visto snobbare altezzosamente la giacca di Thomas. Ora se ne stava pentendo amaramente. La felpa, sebbene doppia, gli andava larga, lasciando scoperta parte della spalla; ogni minimo soffio di vento gli provocava brividi di freddo, fastidiosi e improvvisi. Dei nuvoloni, di tanto in tanto, si divertivano a coprire la pallida luna, ostacolandone la visibilità. Non si sarebbe meravigliato se, a momenti, fosse sceso un acquazzone. Nella peggiore delle ipotesi, si sarebbe rifugiato nella piccola serra all'angolo della terrazza. Non aveva visitato molti ospedali in vita sua, ma riconosceva che un angolo del genere, in cima a un ospedale, fosse decisamente fuori contesto seppur originale.
Qualcuno, aveva fatto di quel posto triste un ambiente più accogliente, anche se non concordava di doversi vedere lì a breve con il medico Stewart, insomma, di che altro avevano da discutere? La prognosi riguardo la sua caviglia gli era stata già data nel suo ufficio ed era stranamente positiva. Di cos'altro dovevano parlare? Era stata una giornata dura, che avrebbe voluto concludere il più fretta possibile senza protrarla con l'andare a cena fuori...
Sapeva già dove sarebbe finito quel bere qualcosa insieme, a quell'età, l'amore tra due uomini veniva nettamente superato. Il romanticismo era cosa vecchia, superato dall'attrazione o meglio traducibile come "quanta voglia mi susciti di scopare" per quanto Richard gli sembrasse un tipo interessante e profondo, sarebbe finita o a preliminari in un bagno di un bar qualsiasi o sesso a casa sua, e per quanto Richard Stewart avesse un sex appeal abbastanza elevato, sapeva che non poteva reggere il confronto con due maledetti occhi ambrati appartenenti allo stronzo peggiore di cui potesse mai infatuarsi.
Sbuffò spazientito, poggiò la stampella alla balaustra e per un attimo si lasciò cullare dalla visione paradisiaco delle luci di Natale, provenienti dalle strade sottostanti.
Dai negozi che seppur distanti, si scorgevano vetrine addobbate e illuminate da luci soffuse che davano vita a scene festive, con peluche di Babbo Natale, piccole slitte e alberi di Natale. Alcuni avevano grandi fiocchi rossi e dorati che ornavano le porte, mentre sulle finestre troneggiavano ghirlande verdi piene di pigne.
Le luci dei negozi creavano un filo luminoso che si snodava lungo la strada, come una scia di polvere di stelle, facendo risaltare le strade e creando un'atmosfera di calore e accoglienza. Ogni angolo della città sembrava raccontare una storia di festa, con le insegne dei negozi che scintillavano luccicanti.
Il Natale era nell'aria. Newt infilò le mani nelle tasche, le dita gli si stavano intorpidendo al punto da non sentirle più. Si sarebbe riscaldato per poi scrivere un messaggio alle persone che, in quella giornata, lo avevano abbandonato, sparendo dalla sua vista: sua sorella e il suo migliore amico. Impossibile capire dove fossero finiti. Non gli avevano neppure inviato un messaggio su WhatsApp, volatilizzandosi completamente.
L'unica ipotesi plausibile, conoscendoli, era che se ne fossero andati a divertirsi da qualche parte, improvvisandosi turisti. Ma la paura che potessero essere finiti nel mirino di qualcuno non era da escludere. Era pur sempre un agente della CIA e, in pochi giorni, aveva commesso diversi errori. Puntare alla famiglia era una delle carte preferite dai criminali.
Rilasciò un respiro affranto e si preparò a prendere il cellulare, pronto a contattarli, chissà forse si sarebbero degnati di raggiungerlo e prelevarlo, così si sarebbe anche liberato di quel medico, sensuale quanto preoccupante, anche se a tutti e tre avrebbe di gran lunga preferito un nuovo salvataggio eroico da parte di Thomas.
Ah, doveva smetterla di pensarlo, come se farlo costantemente potesse evocarlo, facendolo concretizzare lì per dargli uno strappo a casa, piuttosto doveva essere realista e affrettarsi a chiamare un taxi, prima che avrebbe dovuto aspettare altre ore, chiedere al medico era fuori discussione, anzi ad ogni secondo che passava, era sempre più convinto di abbandonare la terrazza.
Tirò fuori il cellulare dalla tasca. Il display illuminò una piccola porzione di cielo sopra di lui, inoltrò un messaggio a Minho e Lizzy e proprio in quel momento gli arrivò una notifica: una foto del suo amico, perfettamente in posa, con un'espressione fiera da fotomodello, appoggiato a una colonna. Ovviamente, gliel'aveva scattata Elizabeth.
"Ma guarda questi..." Nonostante la preoccupazione che gli offuscava il cuore, non riuscì a trattenere un sorriso bonario. Erano insieme e stavano bene. Questo era ciò che gli importava di più.
Li rimproverò con un messaggio ironico: «Grazie per avermi scaricato qui in ospedale, dimenticandovi completamente di me. Non scomodatevi, eh. Mal che vada, chiamerò un taxi o mi farò dare uno strappo dal dottore.» Mentì sull'ultimo punto, mordicchiandosi subito il labbro per dire "chi me lo ha fatto fare" aveva sottovalutato i commentini e le insinuazioni che ne sarebbero seguiti.
Lizzy rispose subito con altre foto, che la ritraevano insieme a Minho e un gruppo di persone che Newt non conosceva, tutti con dei calici in mano, riempiti di birra o forse spumante. Quella situazione non gli fece affatto piacere. Digitò velocemente un altro messaggio: «Dove siete? Con chi siete?»
Attese qualche minuto, ma nessuna risposta arrivò. Così, avviò una videochiamata, ma sua sorella rifiutò subito, per poi inviargli messaggi "rassicuranti" alternati ad aggettivi che dovevano sembrare "offensivi", come "premuroso, assillante e appiccicoso". Per lui, però, erano solo manifestazioni di affetto reciproco. Newt rispose inviando un audio:
«Siete adulti e responsabili, o almeno lo spero. Mi raccomando, non far guidare Minho. Le sue prestazioni, anche da sobrio, sono discutibili. E non bevete quello che vi offrono. Se vi trovo in qualche bar, ve ne farò pentire, a entrambi.»
Minho rispose con un messaggio, quasi in lacrime, urlando da lontano, come se avesse strappato il cellulare dalle mani di Lizzy:
«Amico, non ci posso credere, mi hai definito "migliore amico"! Ti voglio beneeee!» Tra le lacrime, o forse tra risate e pianti, la reazione dell'asiatico fece preoccupare ulteriormente il biondo, che senza pensarci cliccò "chiama", e dopo alcuni tentativi, sua sorella accettò:
«Dove cavolo siete finiti tutto il giorno? Dove vi trovate adesso?» Urlò senza nemmeno sentir dire "pronto". «Prendo un taxi e vi raggiungo, sono preoccupato.»
«Fratellino, calmati, siamo vivi.» Rispose Lizzy, a voce bassa quasi intimorita da quel tono alto e autoritario del fratello maggiore.
«Eravamo sicuri che tu fossi in buone mani, altrimenti non saremmo usciti dall'ospedale.» Si giustificò subito, Lizzy odiava sentirsi in colpa.
Quella frase non fece piacere a Newt, che si sentì trattato come un oggetto, come se fosse stato incapace di decidere da solo. Cercò di reprimere quella sensazione, consapevole che se avesse attaccato sua sorella, lei avrebbe riagganciato. Decise quindi di contenere la rabbia, che in realtà era solo una preoccupazione eccessiva.
«In effetti, il dottor Stewart è molto scrupoloso. Sa come fare il suo lavoro...» disse, grattandosi la nuca, un gesto che faceva quando non diceva la verità. Lizzy, fortunatamente, non poteva vederlo. «Ma non tergiversare. Dove sei?» riprese, la preoccupazione di nuovo sul volto.
«In un locale vicino all'ospedale, tranquillo.» Lizzy minimizzò, ma Newt sapeva che quando lei faceva così, la sua curiosità veniva sempre placata. Era come se la vicinanza geografica potesse impedire qualsiasi disastro: "Sono in zona, cosa può succedere? Posso venire a salvarti".
Poi aggiunse rapidamente: «Comunque, non parlavo di Mr. Camice Bianco, fratellino, ma del supereroe che ti ha salvato.» Fece una lunga pausa. Newt non capì subito, ma quando si riprese, si lanciò all'attacco:
«Come fai a saperlo? Non eri nei paraggi quando è successo.» Anche se l'incidente con Thomas lo aveva scosso, ricordava bene che né sua sorella né Minho erano presenti.
«Ah, giusto. Dimenticavo, sei nemico dei social. Beh, posso dire che mi dispiace di non aver assistito al salvataggio in diretta, ma grazie a chi l'ha filmato, ho visto il video. È un TikTok sfocato, ti ho riconosciuto subito. Ma quanto ci stava bene quella canzone? Incredibile! Ma adesso dimmi... Sai qualcosa di lui? È affascinante anche senza maschera? Avete parlato?» Elizabeth continuava a parlare senza lasciare spazio per rispondere, un classico, soprattutto dopo aver bevuto qualcosa.
Bastava davvero poco per metterla fuori gioco. Newt ricordò quante volte aveva dovuto inventarsi scuse con i genitori per sgattaiolare fuori e recuperarla in qualche giardino di una casa in festa.
Ma qualcosa, in quel momento, attirò comunque la sua attenzione e sperò che la sua curiosità potesse finalmente fermarla:
«Che cosa?» chiese, aggrottando la fronte mentre fissava un punto lontano davanti a sé. Una lucina di un lampione, a chilometri di distanza, brillava in lontananza, nei giardini dell'ospedale. «Di che video parli?» La sua voce tremò mentre il telefono allontanava dall'orecchio. Provò a scaricare l'applicazione che credeva inutile, ma la batteria stava per morire e il mistero rimase irrisolto.
«Tranquillo, nessuno voleva filmarti intenzionalmente. Mentre tutti si divertivano, qualcuno stava registrando e voi siete capitati in un'angolazione interessante. Vi vedete nel momento clou, ma non ti preoccupare, non ti si riconosce facilmente. Comunque, lui... si vede che fa palestra, ha un fisico...» Blaterò, ridendo di tanto in tanto, ma quelle risate irritavano solo Newt in quel momento.
Meraviglioso, c'era un video in rete che ritraeva la sua caduta esilarante, e non osava pensare alle visualizzazioni che avrebbe ricevuto. L'Intelligence, Lillian Strand, nemici... chiunque avrebbe potuto vederlo.
«Purtroppo il video non ha mostrato ciò che è successo dopo. Vi siete presentati? Avete parlato? Com'è? Lo hai visto senza maschera? Che voce ha? Dai, Newt, sto congelando. Sono fuori dal locale per fare gossip con il mio amato fratellino. Non posso credere che tu abbia rifiutato di prendere l'ascensore per evitare di respirare la stessa aria di lui e poi ti ha salvato. È incredibile. Poi dicono che certi incontri non sono dettati dal destino.» Elizabeth proseguiva con la sua teoria romantica, come al solito.
«Ehi, frena! Stai farneticando, sorella. Non esiste il destino. Lui è—» Un groppo alla gola lo bloccò, non riuscendo a dire quel nome composto da due sillabe.
«Zero sentimentalismo, eh? Ti capita qualcosa di speciale e ancora non lo capisci.» Continuò sognante, mentre inviava un messaggio su WhatsApp con due emoticon: il medico e il pipistrello. Newt sbirciò e, contrariato, mosse la testa a destra e a sinistra. Notò che la carica del suo telefono fosse al 7% di carica.
«Le hai viste le faccine? Io tifo per Batman, Minho per il dottore.» Aprì la bocca per replicare, ma fu interrotto da una terza voce.
«Eh già, con chi passerai la notte? Scommesse aperte!» Ovviamente era Minho.
L'inglese, imbarazzato oltre ogni limite, ringraziò ogni divinità che quella fosse solo una chiamata normale e non video. Percepì che il coreano aveva strappato il cellulare dalle mani di Elizabeth, e che ora si stava aggirando per il locale, con la musica a tutto volume a coprire le sue stupide risate. Il caos era insopportabile, il rumore costante, e Newt non riusciva più a comunicare con loro. Alla fine, decise di riattaccare, sentendo la crescente frustrazione serpeggiare in lui.
Pochi istanti dopo, sul suo telefono arrivarono due nuovi messaggi. Il primo, chiaramente scritto da Elizabeth:
"Dovevi chiedergli il numero, sciocco di un fratello. È palesemente l'amore della tua vita!"
Sbuffò seccato, dentro di sé sapeva che non gliel'avrebbe confessato. Già conosceva il suo nome, il suo cognome, e persino il numero di telefono. Era Thomas. Non avrebbe mai potuto dirlo, altrimenti sarebbe stato un altro di quei discorsi che sua sorella adorava fare sulle "anime gemelle" e sul "destino", e non voleva alimentare quella convinzione, anche se gli piaceva tornare con la mente a quel salvataggio: la stretta possente e sicura, le labbra schiuse, i visi vicini, gli occhi fermi e incatenati.
Non gli era importato quante belle notizie gli avesse dato Richard riguardo alla velocità con cui sarebbe guarita la sua caviglia, era rimasto incantato e immobile alla scena del salvataggio del suo eroe preferito da bambino, la sua prima cotta che combaciava a perfezione con quella attuale. Era destino che il ragazzo per cui provava sentimenti profondi e contrastanti indossasse proprio il costume del suo supereroe preferito?
Per non parlare di quanto fosse stato dolce beccarlo nella sala del disegno in compagnia dei due bambini. Tutti e tre erano di spalle, sdraiati a terra in una lotta all'ultimo solletico, Newt- in quel momento in piedi- si era poggiato allo stipite, e li aveva contemplati in assoluto silenzio, chiunque avesse visto il suo sguardo ammaliato avrebbe pensato che stesse guardando un'opera d'arte.
La piccoletta, davvero una tipetta carina e dall'aspetto dolce quanto pestifero era stata l'unica ad accorgersi di lui e abbozzando una linguaccia e un sorrisetto malizioso lo aveva salutato con un cenno della mano a dir poco affettuoso, lui aveva ricambiato, facendole segno di restare in silenzio con l'indice davanti alla bocca, lei abbracciata stretta a Thomas, circuendogli le braccia al collo, aveva alzato il pollice per risposta.
Aveva anche riconosciuto la chioma importante di Chuck, e tramite Richard aveva cercato di informarsi sul perché fosse lì, ma a parte dirgli che era arrivato in ambulanza come codice rosso, non aveva saputo dirgli altro, tornando a parlare della caviglia e di altro...
«A vedere le radiografie, i tempi di recupero sono notevolmente più brevi di quanto pensassimo,» disse, il sorriso largo che tradiva una soddisfazione quasi esagerata. «Sono così felice che la tua caviglia si riprenderà velocemente, Newt. Il tuo quadro clinico è davvero migliore di quanto ci aspettassimo, incredibile.» Informò con un sorriso smagliante, come se la buona notizia riguardasse più lui che il suo interlocutore. «Dobbiamo assolutamente festeggiare, beviamo qualcosa insieme stasera.» Era giunto subito al dunque, così imperativo, decisivo, lo aveva travolto vorticosamente. Newt lo aveva guardato a bocca aperta, era da tempo che non incontrava qualcuno così...diretto e pronto a bruciare tappe.
L'asiatico sembrava far il tifo per lui, almeno dal messaggio che gli aveva appena inviato in una nota vocale di cinque secondi dove alternava parole a rutti; "Buttati sul dottore, è un'assicurazione per la vita" aveva urlato a gran voce, e menomale che per il temporale in arrivo, per fortuna, i pazienti che più gli erano vicine avevano già abbandonato la terrazza. Fu in quel momento che realizzò che seppure ci fosse la serra a rendere l'ambiente più gradevole, non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione di una strana tensione, come se qualcosa di più grande stesse per accadere. Un presentimento.
L'agitazione aumentò in maniera proporzionale ai suoi pensieri, più pensava più realizzava che a momenti Richard avrebbe fatto capolino su quella terrazza.
Era sicuro che l'avrebbe rifiutato anche se non si fosse scontrato con Thomas, perché il pensiero di quello era onnipresente anche senza vederlo, era una malattia e doveva guarire da lui, fin quando non ci sarebbe riuscito, non poteva calare l'attenzione su altri, si sarebbe rivelato praticamente impossibile oltre che una ridicola presa in giro nei suoi confronti e in quelli del malcapitato.
Così, dando le spalle alla porta tramite la quale aveva accesso e il viso rivolto al cielo, si perse nell'immensità del firmamento, liberando un po' la sua fantasia; quante cose sarebbero potute andare diversamente se avesse fatto altre scelte, se non si fosse mai recato all'Intelligence, forse non avrebbe mai saputo quanto potesse far star male l'amore, perché quello che provava per Thomas Edison non era soltanto ammirazione, attrazione fisica o altre banalità, c'era un sentimento alla base che lo spaventava a morte.
Gli restava l'amaro in bocca, il rimpianto profondo, il dubbio martoriante del come sarebbe stato.
Chiuse gli occhi lasciando che il leggero venticello gli scompigliasse i capelli, gli sfiorasse il viso come lo stesse accarezzando con la sua fresca mano e lo cullasse da una parte all'altra, mentre il suo fisico leggiadro mancava poco che fosse sballottolato a destra e manca.
Respirava a pieno l'aria che entrava fresca nelle narici, ne captò traccia di petricore, il tipico odore piacevole che lo calmava sempre nella sua Londra, l'odore di pioggia, familiare, di casa.
Inarcò la testa all'indietro, rivolta verso l'immensità del cielo, gli occhi chiusi e la testa leggera, vagante tra le nuvole; leggere e innocue gocce di pioggia cominciarono a liberarsi dal cielo, cadendo silenziose al suolo. I pazienti che gli avevano fatto silenziosamente compagnia fino a quel momento abbandonarono tutti la terrazza; chissà forse perché spaventati dall'arrivo del temporale o perché avevano semplicemente voglia di coricarsi, lui, invece, sarebbe rimasto lì un altro po' e non per Richard, ma perché quel vento sferzante sul volto che a tratti sembrava accarezzarlo e ad altri quasi schiaffeggiarlo lo faceva sentire maledettamente libero e vicino all'incidente in Maryland, quando era stato calato su per un'imbracatura, quando il petto caldo e nudo di Thomas gli aveva fatto da cuscino, anche in quel momento pioveva e la pioggia gli avrebbe ricordato per l'ennesima volta lui. Ogni ricordo era legato a Thomas.
Inspirò ed espirò, stringendo le mani al parapetto con un tale impeto che se avesse potuto lo avrebbe sgretolato. La stampella era poggiata alla balaustra davanti a sé. Era un caos di pensieri, e per quanto trotterellassero senza sosta nella sua testa, sapeva cosa voleva e soprattutto cosa non voleva.
Finire in qualsiasi posto con Richard quella sera ad esempio, sarebbe stato maledettamente sbagliato, oltre che immorale, avrebbe ingannato entrambi, e nel mentre, qualsiasi cosa fosse accaduta tra loro, avrebbe inevitabilmente immaginato solo Thomas.
"Ma che ci sto a fare qui?" Fu la frase che più delle altre galoppò nella sua testa, sopraffacendo il resto, seguita da altre simili come "Per quanto non creda più all'amore, non significa che il sesso compensi le mancanze che vorrei colmare... Richard è galante e di bello aspetto, ma è tutto così sbagliato..."
In quel momento il telefono vibrò ancora e quasi gli scappò un vaffanculo, che l'eco avrebbe riprodotto per tutto l'ospedale, stavano disturbando le sue riflessioni, avrebbe mandato a quel paese sia sua sorella che il suo migliore amico, ma quando guardò il display l'espressione di fastidio svanì completamente, tramutandosi in una scettica, bloccata. Non si trattava né di una notifica di WhatsApp, né di un'altra app di messaggistica e gli emittenti non erano sua sorella o Minho.
Il telefono presentava sullo schermo linee grigie traballanti, come se fosse caduto e fosse una conseguenza del display rotto, quando queste si tolsero, apparve rapidamente una strana icona di un messaggio su cui cliccò velocemente senza pensarci, in pochi secondi sullo schermo lampeggiarono diverse brevi frasi. Le lesse rapidamente e raggelò, paralizzandosi;
"So che sai chi sono. Nulla è stato mai un caso. Siamo più vicini di quanto credi. Tic toc, tic toc..."
Un brivido gelido percorse la sua schiena.
Avrebbe tanto voluto che fosse uno scherzo, che non fosse chi stava pensando, ma tutto conduceva a loro. Al trio del terrore, agli uomini del braccio destro. Che cosa intendevano con "siamo più vicini di quanto credi?" Quella frase, assieme alle altre, vorticava nella sua testa incessantemente, tanto da fargli girare la testa e aumentare il mal di stomaco.
Trattenne in automatico il fiato, completamente in apnea. Il messaggio scomparve in un lampo, lasciando il display nero. Come se il corpo, ormai paralizzato, non rispondesse ai comandi del cervello, lasciò cadere lo smartphone ai propri piedi in un rumore sordo, nella pozzanghera che si era creata di fianco a lui, la stampella, invece, colpì la balaustra con un rumore secco.
Incontrollabilmente cominciò a tremare, sotto una pioggia che dapprima calma, in un attimo, divenne uragano, forte e violentissimo. Immobile, sotto la furia dell'acqua, era completamente assente, incurante, non avvertiva neanche il gelo penetrargli nelle ossa.
Una lacrima inafferrabile scappò dagli occhi, poi un'altra, mischiandosi con la pioggia. Ogni goccia sembrava scavargli nel cuore, ogni tremore una conferma che qualcosa stava accadendo. Era tutto reale. Ogni sospetto, ogni intuizione si stava materializzando in quel momento. Qualcosa di oscuro stava succedendo, qualcosa che andava oltre la sua comprensione.
Il rumore incessante dell'acquazzone attutiva ogni altro suono, ma nel suo petto il cuore martellava, battendo così forte da rischiare di farlo impazzire. L'adrenalina gli correva nelle vene, eppure il respiro era spezzato, come se l'aria fosse troppo densa da respirare.
Nulla è mai stato un caso.
Che cosa significava?
Ogni lettera sembrò risuonare come un colpo secco dentro la sua testa. Non poteva essere vero. Non proprio in quel momento, non quando sapeva di essere così indifeso.
Sentì il vento fischiare, e subito dopo, un suono ben più pericoloso: il crepitio metallico della porta che si apriva dietro di lui. Si bloccò, il fiato in gola, paralizzato dalla consapevolezza che ogni passo, ogni respiro, ogni battito del cuore poteva essere l'ultimo. La porta si chiuse con un tonfo sordo, ma non osò voltarsi.
Non era più da solo.
Deglutì silenzioso, lanciando coraggiosamente una rapida scorsa con la coda dell'occhio alle sue spalle. Una figura si profilava dietro di lui, appena visibile nella penombra.
«Richard?» Mormorò in due sillabe, titubante, senza voltarsi. Si sentiva piccolo piccolo a confronto all'ignoto.
Il suo cuore sussultò un secondo dopo quando un altro pensiero gli attraversò la mente.
Più il silenzio aumentava, più l'ipotesi che fosse il medico scemava. Conosceva Richard da un giorno e già aveva capito che non riusciva a stare zitto per più di cinque minuti.
Doveva trattarsi di uno di loro.
Il respiro si fermò. Ogni passo che sentiva avvicinarsi sembrava scandire il tempo che gli restava, un ticchettio implacabile che gli martellava nelle orecchie. Il pericolo era lì, così vicino che sentiva la sua presenza come un respiro caldo sul collo.
Guardò in basso a destra, verso la stampella che gli era caduta. Un istinto rapido lo spinse ad agguantarla, in un attimo l'avrebbe sollevata, si sarebbe voltato pronto a colpire l'avversario con tutta la forza che gli restava.
Ma poi, cosa sarebbe successo? Avrebbe messo davvero fine alla minaccia o sarebbe stato solo l'inizio di qualcosa di peggiore? Lo avrebbe scoperto a breve.
Inspirò ed espirò per l'ultima volta, immagazzinando così più coraggio o incoscienza possibile. In un attimo si chinò velocemente, le mani tremanti mentre afferrava la stampella, soccombendo il dolore alla caviglia che a confronto al pericolo che stava vivendo era paradossalmente tollerabile.
L'oggetto, che fino a quel momento era stato solo un sostegno per camminare, divenne l'unica difesa possibile.
Un respiro profondo, quasi inconscio, e poi, con un movimento rapido, si girò di scatto, del tutto ignaro di chi sorprendentemente si sarebbe trovato davanti.
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